Categorie: Hall of Famer

WATCH HIM REIGN!

Lo sport è un produttore inesauribile di miti ed eroi. Ma gli eroi sono di molti tipi diversi: ci sono “i migliori di tutti i tempi”, gente che è passata alla storia per quanto di eccezionale è riuscita a fare sul campo/parquet, gente con il nome che rimbomba nelle teste degli appassionati al solo pronunciarlo, come una bellissima formula magica. Gente come Diego Armano Maradona o Michael Jeffrey Jordan, per dire. Poi ci sono gli eroi senza macchia e senza paura, simboli di sportività, lucenti modelli ed esempi delle virtù più sfavillanti. Gente che sembra incarnare in se stessa l’idea stessa di sport, di correttezza e fair-play. Gente come Javier Zanetti o Derek Fisher, per dire. E poi, last but not least, ci sono tutti quegli eroi folli e scriteriati che colpiscono il nostro immaginario grazie all’estro, alla sregolatezza, alla quell’alchimia di pazzia e talento che esiste in loro. Gente che può anche dare il cattivo esempio a volte, ma che non puoi non amare. Gente come George Best, o Dennis Rodman. O come Shawn Kemp.

            Shawn T. Kemp (secondo nome rigorosamente puntato alla Homer J. Simpson) nacque il 26 novembre del 1969 nella città di Elkhart, nord dell’Indiana. Era un ragazzo alto, fisicamente imponente, e straordinariamente versato per la palla a spicchi. Non fu un caso se la squadra della Concord High School, il liceo della nativa Elkhart, puntò forte su di lui facendone, sin dal suo primo anno, il pilastro del team. Un pilastro dalle spalle larghe, in breve, qualcuno su cui costruire. Alla fine del suo senior year Shwan fu facilmente considerato tra i cinque giocatori più forti dello stato, mentre si era accaparrato tutti i record per punti segnati della Concord: punti segnati in carriera, punti segnati in singola stagione, punti segnati in singola partita. Vicino a queste tre statistiche c’era sempre e invariabilmente il suo nome. Questo non gli servì, però, a candidarsi al premio di Indiana Mr. Basketball, che in quell’anno 1988, venne assegnato a un altrimenti oscuro Woody Austin. Alcuni teorici del complotto vorrebbero che questa scelta sia stata dettata dal fatto che Austin era già pronto a unirsi alla squadra della Purdue University (in Indiana), mentre Kemp aveva già allora firmato una bella lettera di intenti nella quale si diceva scalpitante all’idea di andarsene a Kentucky, lasciando lo spensierato Indiana, affronto insostenibile per la giuria del premio. Chiaramente questa insubordinazione dal retrogusto fortemente campanilistico non poteva costargli anche il riconoscimento di McDonald’s All American, classe 1988, riconoscimento che ottenne in coabitazione con una delle classi più talentuose di tutti i tempi (oltre a lui vi figuravano Alonzo Morning, Billy Owens, Stanley Roberts, etc.)

            Ma prima che tutti i meravigliosi piani di Shawn andassero in porto c’era un ostacolo da superare. Un ostacolo che rispondeva al nome di SAT, Scholastic Aptitude Test. Punteggio minimo per sperare in una avventura nel basket collegiale? 700. E fu proprio qui, su questo scoglio di tre lettere, che i piani di Shawn si infransero. Il suo SAT risultò inferiore alle aspettative, e lui si ritrovò nell’incertezza più completa. Tutti sembravano volergli dire cosa fosse meglio fare, non ultimo il suo coach della Concord, che, in futuro, avrebbe confessato Sentivo che mettere Shawn in un ambiente collegiale senza il basket, la sola cosa che amasse, sarebbe stato un grosso errore. Mi passò persino per la mente di consigliargli di andarsene dritto in NBA, e l’unica cosa che mi fermò fu che così pochi giocatori l’avessero fatto. Alla fine Shawn si decise per iscriversi ugualmente all’università, sperando di saltare l’anno da freshman e tornare l’anno successivo a Kentucky. Ma qui finì invischiato in un piccolo scandalo che comprendeva un paio di catene d’oro rubate, Sean Sutton (il legittimo proprietario delle suddette catene, oltre che il figlio dell’allora coach di Kentucky, Eddie Sutton) e il fatto di aver dato quello catene a un banco dei pegni. Nonostante Sutton non lo avesse denunciato, nel novembre 1988 Kemp fece i bagagli e si trasferì al Trinity Valley Community College, Texas, dove non toccò una palla a spicchi per tutto il semestre. Comprensibilmente deluso della sua esperienza collegiale, un Kemp diciannovenne e rampante decise di dichiararsi eleggibile per il draft NBA del 1989.

            Il fatto che un giocatore tanto giovane si dichiarasse eleggibile all’epoca non era visto con molta fiducia. Nonostante le prestazioni sicuramente incoraggianti, non molte franchigie erano disposte a investire su un giovanotto che non era passato per l’NCAA, che non si era testato contro i migliori. Così la chiamata che Shawn stava aspettando slittò, di scelta in scelta, sempre più giù, fino al numero 17, quando il GM dei Seattle Super Sonics disse a David Stern di annunciare che aveva deciso di prendere Shawn T. Kemp. Sarebbe stata una delle più grandi e spettacolari steal of the draft di tutti i tempi. Certo Shawn era il giocatore più giovane della lega, e tutto il suo atletismo non poteva compensare la mancanza d’esperienza, ma in squadra c’era un uomo che decise di prendersi a cuore quel ragazzone ormai alto 2.08 metri. Si trattava di Xavier McDaniel, che lo prese sotto la sua ala e gli fece da mentore. Quella prima stagione servì a Shawn per capire quale fosse il suo posto nella lega: una star di prima grandezza. I suoi spropositati mezzi atletici e tecnici, sposati alla sua grande ambizione e alla voglia di primeggiare, lo spinsero a un livello sempre più alto, livello al quale anche la squadra si adattò velocemente. Durante la sua stagione da sophmore, con Gary “the Glove” Payton, Eddie Johnson e Ricky Pierce, fu il pilastro di un team lanciato sulla strada della grandezza. Giganteggiò nei pitturati di tutti i campi, mettendo in mostra uno strapotere fisico che gli regalò il soprannome di “the Reign Man” (cucitogli addosso da Kevin Calabro, all’epoca announcer dei Sonics).

            Sotto la guida di George Karl, nella stagione ’92-’93 arrivarono anche i play-off da protagonisti, conditi da vittorie dal sapore epico: gli Utah Jazz del duo Stockton/Malone (un duo del quale quello Payton/Kemp era considerato la più che degna controparte) eliminati in cinque partite al primo turno, gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon fatti fuori dopo sette, sudatissimi, match in Semifinale. E poi la Finale di Conference, contro i Suns di Charles Barkley, ai quali infine i Sonics si inchinarono, non senza trascinarli a gara-7. La strada verso la grandezza era ormai battuta. O almeno così sembrava.

            La stagione ’93-’94 partì sotto le migliori premesse, con i Sonics a compilare il miglior record di Conference e a presentarsi da strafavoriti ai play-off. Al primo turno li aspettavano i Denver Nuggets, testa di serie #8. Dopo due facili vittorie a Seattle, giunti in Colorado, i Sonics si spensero, incappando in due impreviste e imprevedibili sconfitte, e l’inerzia della serie cambiò drammaticamente, con i Nuggets pronti a sfruttare l’occasione e a ribaltare ogni pronostico, vincendo l’ultima a Seattle, e eliminando i Sonics. Per la prima volta nella storia NBA la testa di serie #1 veniva eliminata dalla #8. Kemp cercò di farsi forza e sfruttò come meglio possibile la convocazione per la nazionale USA nei mondiali di basket di Toronto del 1994, andandosi a prendere la medaglia d’oro. Quell’estate si dedicò anche alla sua immagine pubblica, comparendo nel Rock ‘n Jock, una partita di basket tra celebrità organizzata da MTV, durante la quale si prese lo sfizio di schiacciare in testa a un giovanissimo (e allora, come ora, privo di Oscar) Leonardo Di Caprio. Ma nonostante queste allegre mondanità, i Sonics steccarono di nuovo, l’anno successivo (’94-’95), quando furono eliminati al primo turno in quattro partite da degli alquanto sfavoriti Los Angeles Lakers. La botta fu tanto dura che ci scappò persino una rissa interna tra un mai tenero Gary Payton e il compagno Ricky Pierce.

            Ma la musica stava per cambiare. Nel ’95-’96 Payton e Kemp sembrarono decidere, di comune accordo, che bisognava ingranare la marcia più alta possibile, e si presero la responsabilità di compilare un fantasmagorico record di 64 vinte a fronte di 18 perse. Qualcosa di assolutamente straordinario, non fosse stato che, contemporaneamente, dall’altro lato della nazione, i Tori guidati da un certo Micheal, di cognome Jordan, pensavano bene che fosse il caso di piazzare lì un record impossibile da abbattere nei secoli dei secoli. 72 vinte e 10 perse. Amen. Ma i titoli non si vincono alla fine della Regular Season. Per questo esistono i play-off. I Sonics, con Karl ancora al timone e il duo Payton/Kemp a fungere da primo ufficiale, li affrontarono con la rabbia agonistica derivata dalle due figuracce degli anni precedenti: i Sacramento Kings spazzati via per 4 a 0 al primo turno, i campioni uscenti, Houston Rockets travolti con lo stesso punteggio al secondo e poi la finale contro la vera nemesi, la squadra speculare, quella del duo. Stockton/Malone contro Payton/Kemp, di nuovo. Kemp si stava esprimendo a un livello esilarante, che lo portò a sottomettere Malone per tutta la serie. Tanta superiorità sfociò in una straordinaria e storica vittoria 4 a 3 per i Sonics, che tornarono così a gustare il dolce sapore delle Finals per la prima volta del 1979. Di fronte a loro, come facilmente prevedibile, quella squadra composta da déi del basket che erano i Bulls. La scalata sarebbe stata impossibile anche per i Monstars. Chicago si avventò sui Sonics con la forza devastante di un uragano, portandosi sul 3 a 0 nella serie prima che i loro avversari si rendessero conto che si stavano giocando le Finals NBA. Poi però scattò qualcosa. Kemp, Payton e compagnia cantante si accorsero che quelle partire si stavano giocando contro una squadra fatta di uomini in carne e ossa, proprio come loro. Con quella consapevolezza, e con prestazioni assolutamente irreali da parte delle stelle più lucenti (di nuovo Payton e Kemp) i Sonics seppero reagire e infliggere a Chicago ben due sconfitte consecutive, un evento che, in quella stagione, aveva il sapore della caduta degli déi. Ma le fiabe sono tali perché non sono sempre destinate a durare. Nemmeno quei Sonics poterono battere i pronostici più inclementi. Al ritorno in Illinois per gara-6 subirono la sconfitta definitiva. 4 a 2 finale e un altro titolo nella Windy City, mentre Kemp doveva tornare a Seattle, forte però di una prestazione da assoluto alieno (23.3 pts pg, 10 rbd pg, 2 blk pg, 55% dal campo nelle Finals) e la consapevolezza di aver sfiorato l’assurdo. Dentro di lui doveva esserci in quel momento solo la voglia di dimostrare che l’assurdo poteva essere raggiunto, solo determinazione. Ma è proprio qui che comincia la parte triste di questa storia.

Il giorno in cui Shawn Kemp aveva firmato il suo ultimo contratto con i Seattle Super Sonics l’aveva fatto convinto di voler rimanere per sempre in una franchigia che aveva tutto da dargli, con dei compagni di squadra che lo mettevano in condizione di giocarsi la posta grossa contro i migliori. L’aveva fatto mentre nell’NBA vigeva un certo sistema economico. Ma dai tempi della sua firma, quel sistema era stato riplasmato e cambiato, modificato e aggiustato. I giocatori avevano cominciato a guadagnare sempre di più, i salari erano lievitati a un ritmo vertiginoso. Le altre grandi superstar della lega ne avevano approfittato per strappare contratti astronomici alle proprie franchigie, mentre Shawn, pur con tutto il suo valore e il suo apporto, era rimasto bloccato a quel contratto firmato anni prima. Un antico detto, declama sapientemente che “i soldi non fanno la felicità”. Bhe, il detto, evidentemente, sbaglia. Kemp era giovane, innegabilmente ricco, straordinariamente talentuoso. Aveva mezzi fisici impressionanti che lo rendevano capace di camminare letteralmente in aria. Era conosciuto come “il Regnante”. Cosa avrebbe potuto chiedere di più dalla vita? È semplice: più soldi. Quell’estate Kemp chiese un contratto pesante, un contratto congruo a quello delle altre grandi superstar della lega, un contratto pari al suo valore, al suo apporto alla squadra. I Seattle Super Sonics glielo rifiutarono. Shawn ne fu scioccato e, probabilmente deluso. Ma quella delusione dovette trasformarsi in rabbia nel momento in cui trapelò la notizia secondo cui i Sonics avevano appena offerto un contratto molto pesante a tal Jim McIlvaine. Non fu, con tutta probabilità, un momento esaltante per Kemp, come non fu un momento esaltante quando lui andò dritto dal front office dei Sonics e minacciò di non giocare la stagione successiva. E non dovette essere un bell’ambiente quello dello spogliatoio dei Sonics per tutta la stagione ’96-’97, con la tensione tra il management della franchigia e il giocatore che cresceva, e le prestazioni individuali di Kemp che, in modo inversamente proporzionale, andavano calando. E un Kemp a mezzo servizio si rivelò probabilmente peggiore e più deleterio di nessun Kemp. I Sonics si trascinarono fino alle Semifinali di Conference, dove furono abbattuti dagli Houston Rockets. Svaniva di nuovo il sogno del titolo, e il rapporto tra Shawn e la squadra di Seattle era ormai tanto compromesso da non poter più essere recuperato. Infine, dopo molti tentativi, i Sonics si decisero per una blockbuster trade a tre squadre, che finì per spedire “the Reign Man” nella Conference opposta, nella fredda Cleveland, Ohio.

Fu da subito evidente che il giocatore che era approdato in maglia bordeaux-oro era un lontano parente di quello che aveva incantato gli occhi e i cuori degli spettatori di Seattle. Visibilmente ingrassato, drammaticamente appesantito, il suo stacco da terra, la caratteristica principale e più spettacolare del suo gioco, drasticamente ridotto. Dopo una prima stagione non esaltante in quel dell’Ohio, Kemp si presentò al training camp del ’98-’99 con il peso ufficiale di 275 libbre (traducibili in 124.7 kg), ma il GM Wayne Embry finì per confessare ufficiosamente che il peso registrato era di 315 libbre (ossia uno scioccante 142.8 kg). Non esattamente un peso forma. Ma nonostante tutto Kemp rimaneva la superstar di quella squadra non certamente fenomenale e di conseguenza la maggior parte dei palloni e dei possessi offensivi erano smistati su di lui. Questo gli permise di mantenere una straordinaria media realizzativa in quei tre anni ai Cavs, una media che parla di 20.5 pts pg e 9.2 rbd pg. Eppure sembrava incapace di perdere peso.

            Dopo tre anni di pazienza e tentativi i Cavaliers finirono per stancarsi di lui e lo cedettero, agli inizi della stagione ’00-’01 ai Portland Trail Blazers. Questo scambio lo portò, di nuovo, alla corte di Bob Withsitt, l’uomo che per primo aveva creduto in lui, portandolo ai Sonics. Ma neppure questo riuscì a fermare la sua spirale discendente fatta di grasso corporeo in costante aumento, alcol e cocaina. Ammettere di avere un problema non fu, come spesso invece è, il primo passo verso la soluzione. Chiuse in anticipo la sua prima stagione con i Blazers per andarsi a disintossicare in una clinica specializzata, ma dopo due anni di prestazioni in netto calo Portland finì per decidere di tagliarlo prima dell’inizio della stagione ’02-’03. Fu innegabilmente un brutto colpo per Shawn, che però cercò di rialzarsi prontamente, accettando l’offerta di contratto degli Orlando Magic, che, dopo aver ottenuto l’ala piccola Grant Hill dai Detroit Pistons nutrivano grandi speranze di play-off. Kemp ebbe il pregio di saper rimanere al suo posto in quell’avventura, e dopo l’infortunio che tenne fuori Hill, dare una mano sostanziale alla squadra per raggiungere l’obbiettivo prefissato, nonostante quell’incidente di percorso, anche se ormai delle sue doti atletiche rimaneva soltanto il ricordo. Si tolse anche lo sfizio di giocare la sua millesima partita da professionista. L’avventura dei Magic ai play-off di quell’anno durò soltanto un turno, nel quale vennero sconfitti in sette gare dai Detroit Pistons, dopo essere stati in vantaggio anche 3 a 1 nella serie. Il contratto di Kemp finì e lui venne rimpiazzato da Juwan Howard.

La sua carriera non era ancora ufficialmente finita, ma era andata ormai piuttosto avanti sul viale del tramonto. Nell’aprile del 2006 i Dallas Mavericks pensarono ad un suo ingaggio, in ottica play-off, sperando di poter aggiungere la sua esperienza al roster per raggiungere il titolo (che sfiorarono soltanto, nella finale contro i Miami Heat di Wade e Shaq). Il coach dei Mavs era Avery Johnson, che con Kemp aveva anche giocato e che spinse fortemente sull’acceleratore dell’idea, si prese in prima persona la responsabilità di organizzare un workout per Shawn, da tenersi in quel di Houston. Ma Shawn in quella palestra non entrò mai. Era un affronto bello e buono, tanto più che “the Reign Man” non diede mai una spiegazione per la sua assenza. Ma nonostante questo Johnson ci riprovò, arrivando a chiedere alla NBA una “injury exception” che avrebbe permesso ai Mavs di ingaggiare un sedicesimo giocatore. Ma la richiesta fu respinta e il disegno sfumò. Con l’inizio della post-season, i rumors su un possibile come-back di Kemp tornarono a farsi prepotenti. Il Denver Post scrisse che, dopo un arresto per droga avvenuto un mese prima (il secondo, dopo quello dell’agosto 2005, quando venne trovato in possesso di cocaina, marijuana e pistole semiautomatiche), “the Reign Man” era finalmente riuscito a dimagrire, assestandosi di nuovo sul peso forma dei suoi anni d’oro, e che si sentiva pronto a rientrare con i Nuggets. Ma le speculazioni finirono quando Denver mise sotto contratto Reggie Evans, snobbando Kemp. Allora furono gli occhi degli antichi rivali dei Chicago Bulls a puntarsi su di lui. Gli venne garantito un workout con la prestigiosa maglia dei Tori, ma lui, di nuovo, non si presentò, stavolta giustificandosi col fatto di essere andato a trovare un parente ammalato. L’operazione “come-back” fallì ancora e Kemp rimase senza squadra, ma non senza speranze. Nel novembre 2006, durante l’intervallo di un match dei Sonics al quale era presente, vennero annunciati i nomi dei 16 giocatori che componevano il roster ideale della storia della franchigia. Un riconoscimento che non poteva essere negato a Shawn, nonostante tutto quello che era successo. L’ovazione dell’arena quando lo speaker pronunciò il suo nome fu lunga, estremamente lunga, e fragorosa. Una dimostrazione d’affetto che parlava d’amore. L’amore tra una tifoseria e un uomo che non poteva essere offuscato da beghe contrattuali, problemi di peso o di dipendenza. Shawn gratificò i suoi tifosi con larghi sorrisi, e con l’annuncio di non voler rinunciare a un posto nella NBA, obbiettivo in funzione del quale si stava allenando. Ma quei buoni propositi non si avverarono mai, e Shawn non trovò una squadra nemmeno in quella stagione ’06-’07.

             Così l’ex Reign Man decise di tentare un’avventura del tutto nuova. Nell’agosto 2008 firmò un contratto di un anno con la Premiata Montegranaro, squadra che militava nella Lega A1 italiana. L’accordo fu possibile grazie ai buoni rapporti che legavano Shawn al nuovo team director della Premiata, Roberto Carmenati. Ma di nuovo ci fu qualcosa che andò storto, e il contratto di Kemp divenne un affaire oscuro, dai contorni tragici. Dopo una comparsata in tre partite pre-stagione, il giorno della presentazione della squadra in quel di Porto San Giorgio, Shawn era già tornato in patria, a Houston, dove l’uragano Ike aveva messo a rischio la sua casa e la sua famiglia, e aveva fatto consegnare alla società una nota nella quale annunciava la sua volontà di recedere dal contratto. Di nuovo alcuni grandi amanti delle teorie del complotto hanno supposto, senza prove, che sia stata Montegranaro stessa a decidere di tagliare Kemp, perché non era in una condizione fisica adeguata. Se questo sia vero o no è un quesito al quale, probabilmente, non avremo mai risposta.

            La carriera triste e straordinaria di Shawn Kemp si chiuse in questo modo inglorioso, ma lasciò dietro di sé alcuni stupendi ricordi. Le Finals del ’96, sicuramente, ma anche il ricordo delle ovazioni, dell’affetto, dell’ammirazione e dello stupore negli occhi dei tifosi ammaliati da ciò che avevano visto scatenarsi sul campo. Una vera forza della natura, un essere dominante, ciò che si avvicinava maggiormente al volo umano dai tempi di Dedalo e Icaro. E una vita sregolata, la droga, l’alcol, i quindici figli avuti da donne diverse prima ancora di avere ventinove anni (un primato francamente irraggiungibile anche per alcuni prolifici e poligami emiri arabi), tutte le follie e il sapore amaro dell’occasione sprecata non possono inquinare il ricordo dei muscoli di quell’uomo che si tendono nello sforzo estremo, che guizzano verso qualcosa di impossibile e irraggiungibile, eppure così straordinariamente a portata di mano. Con la palla a spicchi in mano, i flash e l’emozione negli occhi, e il ferro nella mente, per elevare a vera e propria forma d’arte un gesto atletico. È questa la storia di Shawn Kemp, “the Reign Man”, il cattivo esempio, il “bad boy”, ma anche l’eroe che non si può dimenticare. E in quel di Seattle lo sanno bene.

 

Simone Simeoni

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