Categorie: Non Solo Nba

Save the last game: la storia di Lauren Hill

Lauren Hill con la maglia di Mount St. Joseph

“Ah… Ok. Ma quindi… potrò ancora giocare a basket, vero?”

Il tempo sembra essersi cristallizzato su una domanda tanto innocente quanto apparentemente senza senso in un contesto del genere. Il padre è immobile, gli occhi sgranati. Solo i singhiozzi della madre, scoppiata immediatamente in un pianto che non può avere altra definizione se non quella di inconsolabile, rompe il silenzio che pare avvolgere la scena con un manto di surreale irrealtà. Lei invece, seduta in mezzo tra i genitori, guarda tranquilla il proprio interlocutore in camice bianco, in attesa che colmi quel silenzio con una risposta, a prescindere che il quesito, in quel momento, gli sembri tanto sorprendente. Non lo è affatto: perché quel che più preme a quella giovane donna in quel momento è assicurarsi di poter continuare a fare ciò che più le piace fare. Per quel poco tempo che, lungi dall’essere realmente cristallizzato, scorre inesorabilmente verso l’inevitabile.

New York City ha storicamente la pretesa di essere un po’ la culla del basket, la metropoli sui quali playgrounds lo sport è cresciuto ed è diventato molto più che un passatempo. Ma lo stato che più vive e respira pallacanestro in ogni sua forma è in realtà un po’ più all’interno degli States, dove non ci sono metropoli che non dormono mai ma campagna in cui la gente si spacca la schiena, e dove gli hickies vivono questo sport in modo anche più maniacale dei ballers: l’Indiana. E’ qui che il basket diventa una religione, un culto che non fa differenze di ceto, etnia o sesso: e anche Lisa e Brent Hill hanno dovuto rassegnarsi quando la loro figlioletta, Lauren, ha preferito tirare un pallone a canestro lei stessa piuttosto che ballare durante i timeout come cheerleader, come la cultura dominante vorrebbe per una giovane e bella ragazza bionda.

La figliola è vivace, e non si può certo dire che segua esattamente i rigidi canoni femminili imposti dalla società: a Lawrenceburg, dov’è nata e cresciuta, va a pesca sul fiume Ohio, gioca a calcio in estate e soprattutto a basket in inverno, entrando anche nella squadra femminile del liceo locale. Ma all’inizio dell’ultimo anno fa fatica a trovare ritmo e condizione: non riesce a fare due campi senza sentirsi spossata, con il fiatone, senza forze. Ritiene che queste difficoltà siano dovute al fatto che, ormai 18enne, non ha giocato molto a calcio durante l’estate come fa di solito ed è quindi fuori forma. Eppure anche il suo corpo talvolta le sembra reagisca in modo strano: le pare di prendere il pallone quando invece le passa a un metro di distanza, fatica a coordinarsi nei movimenti. Ma anche stavolta non dà troppo peso a questi episodi, continuando a giocare come ha sempre fatto.
Un giorno però questa sua scoordinazione la fa finire di testa contro una compagna durante un allenamento: ha un occhio nero e i genitori sospettano una commozione cerebrale. Le fanno fare tutti gli esami del caso, i quali escludono la commozione, ma danno un esito ben peggiore: le difficoltà motorie di Lauren sono dovute a una massa radicata nel cervello. Tecnicamente parlando quella massa è un glioma intrinseco diffuso di pontine (DIPG); in termini più profani, un raro tumore al cervello che colpisce soprattutto i bambini e i giovani. Non è operabile. La maggior parte dei pazienti muore entro 18 mesi.

Lauren non ha chiesto all’oncologo se potrà giocare a basket perché è una sprovveduta, perché non si è resa conto di quello che le sta accadendo o anche solo per non affrontare il discorso della propria malattia. L’ha chiesto semplicemente perché ama giocare a basket. Ed è decisa a farlo finché le forze la sosterranno, a prescindere dal tempo che le rimane da vivere.
Passa l’intero ultimo anno a giocare convivendo con la malattia, a volte tutta la gara, a volte solo pochi minuti. Spesso ha sostenuto una seduta di radioterapia o ancora peggio di chemio, e fa fatica a non rovesciare lo stomaco in campo. Ma finché si regge in piedi resta sul parquet, perché la pallacanestro è per Lauren molto più di un semplice sport, e diventa l’unica, seppur temporanea, panacea a un male che non conosce rimedi. “E’ sicuramente qualcosa che mi permette di guardare avanti e per cui vivere. Giocare a basket mi aiuta moltissimo a tenere la mente lontana da tutto ciò. Le ragazze poi mi danno energia: se mi sento giù di corda, mi sostengono e mi aiutano ad andare avanti. Sono come il mio carburante”. Il basket, il gruppo, lo spirito di squadra, riescono dove radio e chemio sono inefficaci, rimuovono, seppur momentaneamente, ciò che la chirurgia non può rimuovere. Sono le armi di una ragazza forte, che altrimenti si ritroverebbe a combattere un nemico invulnerabile a mani nude.

Dan Benjamin è piuttosto stupito dalle prime righe di quella mail arrivata al suo indirizzo quella mattina. Ha allenato per 25 anni a livello locale nella zona tra Cincinnati e l’Indiana orientale, ma non aveva mai ricevuto una richiesta del genere, e mai si sarebbe sognato che essa potesse arrivargli a Mount St. Joseph, piccolo college di Division III in cui allena la squadra femminile: inizialmente, non capisce perché il campionato, che prende da sempre avvio verso la metà di novembre, debba essere anticipato. Ma poi legge la mail per intero. E decide che, cascasse il mondo, in questo 2014/2015 il campionato femminile di Division III inizierà prima, almeno per quanto riguarda la sua squadra.
Nonostante la forza d’animo del nucleo famigliare, le belle notizie in casa Hill continuano a risultare latitanti. Lauren è riuscita a terminare il liceo e a diplomarsi, concludendo anche la stagione sportiva con pochissime gare saltate, e a settembre coronerà un sogno che per quasi tutti i suoi coetanei diciannovenni con le possibilità per farlo pare un passo scontato nel percorso di crescita: andare al college. Ma è proprio sul finire dell’estate, a quasi un anno dalla diagnosi, che gli esami a cui si sottopone frequentemente per tenere monitorata la malattia costringono di nuovo l’oncologo a farle un discorso che avrebbe volentieri fatto a meno di fare: il cancro sta diventando più aggressivo e si sta espandendo molto velocemente. Con un decorso del genere, difficilmente Lauren arriverà a fine anno.
Stavolta la malattia la spaventa veramente. Non tanto per il suo esito tremendo ed ineluttabile, che è riuscita ad elaborare, quanto perché per la prima volta sembra poter vincere sulla sua tenacia, e privarla anche del sogno di giocare a basket a livello collegiale. Metà novembre, per la sua vita ormai appesa a un filo, potrebbe essere troppo tardi: “Spero sia possibile spostare l’esordio già a questa domenica” racconta Lisa, “probabilmente adesso Lauren ce la farebbe, ma non c’è alcuna garanzia sulle sue condizioni da qui a due settimane. So che combatterà con le unghie e con i denti per arrivare alla partita perché vuole assolutamente indossare quella maglia, scendere in campo e realizzare il proprio sogno di giocare al college”. Finora coach Benjamin è riuscito a ottenere solo un anticipo al 2 novembre; la famiglia preferirebbe giocare prima, ma allo stesso tempo è consapevole dell’insospettabile tenacia di quella ragazza dopo un anno passato tra chemioterapia e palestra. Tenacia ulteriormente rafforzata dal fatto che per Lauren giocare vorrebbe dire molto più che una realizzazione personale: sarebbe il culmine di un progetto di sensibilizzazione e raccolta fondi a favore della sua malattia portato avanti nell’ultimo anno, che ha reso possibile la nascita della Fondazione di ricerca a favore del cancro “The Cure Starts Now” e che con la sua storia potrebbe avere una visibilità enorme. “Ci sono bambini molto più giovani di me con la DIPG, e mi dispiace così tanto per loro: io ho vissuto 19 anni, questi bambini invece ne vivono cinque”.

Contro un nemico tanto potente, che per di più continua a crescere e rafforzarsi, anche pochi giorni per Lauren potrebbero fare la differenza. Eppure, paradossalmente, non cambierà molto se la partita si terrà questa settimana o a inizio novembre: Lauren comunque sarà in campo, a realizzare il proprio sogno e a dare un senso a tutto ciò che le è accaduto. Perché gli anni che ognuno di noi ha la fortuna di vivere su questa terra, tanti o pochi che siano, acquistano valore solamente dando loro un senso, uno scopo e possibilmente una realizzazione. Esattamente come ha fatto Lauren Hill nella sua esistenza tragicamente troppo breve. “Le due cose che l’hanno guidata in quest’ultimo anno sono stati i suoi sogni di giocare al college e lo sforzo di diffondere consapevolezza riguardo questa malattia” dice ancora Lisa, “se riuscirà a realizzarli entrambi, se ne andrà nel modo in cui ha voluto andarsene. E questo di per sé non ha prezzo”.

EDIT: Lauren Hill è deceduta il 10 Aprile 2015, #RIP

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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