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Intervista ad Adam Filippi: dalla Fortitudo a Charlotte, passando per i Lakers

Immaginate un ragazzo cresciuto negli anni dello Show-Time dei Lakers. Nei suoi occhi ci sono Magic, Kareem, le sfide con Larry Bird, oltre ai primi vagiti del Michael Jordan che di lì a poco avrebbe vinto sei titoli. Diventa inevitabilmente un tifoso gialloviola. La pallacanestro rappresenta fin da piccolo gran parte della sua vita, tant’è che inizia a frequentare le giovanili della Fortituto Bologna, fino a che non arriva a debuttare nella Serie B italiana. E’ un buon giocatore, ma gli infortuni non gli danno pace. Così decide di appendere le scarpette al chiodo, ma di lasciare il parquet proprio non se ne parla. E qui sta la bravura di reinventarsi in un ruolo che, nei primi anni ’90, non aveva molta importanza nel mondo del basket: lo scout. La Fortitudo, squadra che lo ha cresciuto, gli dà la possibilità di visionare prospetti, ampliando le sue capacità di scouting. Poi, come se il prospetto fosse lui, arriva la chiamata dalla NBA. Ha poco più di 26 anni, è il più giovane scout di sempre ad entrare nella Lega. In principio fu New Jersey Nets. Dopo appena tre anni, Los Angeles. Lakers. La squadra per cui tifava da bambino! Più di 10 anni in California, conditi da tre titoli, per poi passare dalle spiagge di LA al North Carolina. Sì, Charlotte. I Bobcats. Dove c’è un certo Michael Jeffrey Jordan, un altro dei suoi idoli d’infanzia.

Adam Filippi, oggi Director of Global Scouting degli Charlotte Hornets, ne ha di storie da raccontare. I suoi risultati  parlano per lui. Oltre al lavoro di scout, infatti, durante il periodo della off-season Adam tiene anche allenamenti e clinic sul tiro, per aiutare diversi giocatori della NBA a migliorare la loro meccanica in vista della nuova stagione. Ha scritto anche un libro in lingua inglese, “Shoot Like The Pros”, con prefazione di Jerry West (MR LOGO!) e un testimonial di Phil Jackson (la cui traduzione in italiano uscirà a breve). Insomma, le credenziali per un’intervista interessante ci sono tutte. Incominciamo? 

Adam, riavvolgiamo il nastro della tua carriera e partiamo dal principio. La tua avventura come capo scout inizia nel 1997 alla Fortitudo Bologna. Dopo due anni, nel 1999, il salto nella NBA, ai New Jersey Nets. Ci racconti come si è sviluppato e come hai vissuto questo grande cambiamento?

Io ho iniziato a giocare nella Fortitudo, sono cresciuto lì. Poi ho fatto qualche stagione in Serie B ma ho dovuto smettere di giocare presto, a 25 anni, a causa degli infortuni. Quindi nel 1997 presi una pausa dal gioco e per poi decidere di iniziare a fare lo scout. E’ stata la Fortitudo a chiamarmi come osservatore perché sapevano che ero appassionato e che mi sarebbe piaciuto approfondire le mie conoscenze. A dire il vero, a quei tempi non esisteva ancora una figura delineata di cosa fosse o facesse uno scout, era un personaggio secondario all’interno di una squadra di basket. La Fortitudo tuttavia era diventato un grande club e pensavano fosse giusto coprire anche quella posizione per essere il più completi possibile. Poco a poco entrai nell’ambiente della pallacanestro, ma poche squadre NBA avevano scout in Europa. Io parlavo bene l’inglese e mi misi in contatto con alcune squadre che non avevano scout in Europa. In principio fu Houston: assieme a loro lavorai per il draft di quell’anno, poi mi chiamò New Jersey grazie a Rich Dalatri che mi ha permesso di entrare in contatto con il GM. Venni assunto a sorpresa, nel 1999. Ero lo scout più giovane di sempre in quel momento. Fu una bella soddisfazione”. 

C’è stato qualcuno che ti ha iniziato ai compiti dello Scout? O sei cresciuto da autodidatta ?  

Quando inizi a fare questo mestiere, qualcuno ti può mostrare le caratteristiche che interessano maggiormente alle squadre NBA, e ti possono venir date alcune linee guida da seguire. Ma se uno dimostra talento, spesso è bravo lui nello sviluppare il proprio metodo, stabilendo quali sono i parametri da ricercare di più in un possibile prospetto NBA. Un buon scout deve avere le capacità di riconoscere quei giocatori che svolgono bene i fondamentali che servono per giocare a livello NBA ed è importante capire quali hanno le capacità atletiche per reggere il gioco ad alto livello. Il mio segreto penso sia la capacità di osservare: analizzando sia il giocatore individuale a livello tecnico sia la sua attitudine a stare in campo.

Dopo il primo assaggio di America, il passaggio ai Los Angeles Lakers. Dieci anni in giallo viola e tre titoli NBA (2002, 2009 e 2010). Che ricordi hai dellesperienza in California? Fra laltro Jerry West ha scritto la prefazione del tuo libro… 

Nella mia carriera tutto è andato molto velocemente. Diventai molto conosciuto perché mi ero specializzato sui giocatori da questa parte dell’oceano, quindi molte squadre mi chiesero di lavorare assieme a loro: mi chiamò Miami, poi Sacramento. Vista la grande richiesta di informazioni, mi inventai un servizio da fornire a tutte le franchigie chiamato GLOBAL VISION che forniva dati a chi ne avesse bisogno. Iniziai ad acquisire un po’ di fama nel mondo degli scout e nel 2001 mi chiamarono i Lakers. Immagina: Io sono cresciuto negli anni ’80, il decennio dello Show-Time e sono sempre stato tifoso Lakers. Ho accettato immediatamente! E ho trovato un ambiente carico, dove il successo è considerato un obiettivo scontato. La soddisfazione più grande? Essere riusciti a vincere altri titoli dopo che si era chiuso un ciclo, dopo la partenza di Shaq. E’ stato bello vedere la squadra maturare negli anni e tornare in vetta.

Ecco, ci spieghi com’è stato vivere dall’interno il cambiamento di quei Lakers? Dopo l’addio a O’Neal e Jackson, si è sentito il bisogno di ricominciare…

Quando i Lakers persero le Finals contro Detroit, Shaq aveva 32 anni, ma quando voleva era ancora dominante. In quell’occasione ho capito seriamente l’approccio basato sul business di un’organizzazione NBA. Alcune decisioni sono difficili, ma vanno fatte per il bene della società. Il contratto che doveva firmare O’Neal aveva cifre importanti, evidentemente la società ha scelto di percorrere un’altra strada. In un’estate perdemmo Phil Jackson e Shaq. Andava fatto un passo indietro subito per poterne fare due o tre in avanti, e cosi è stato. 

Dopo quell’anno particolare, è cambiato qualcosa anche a livello societario? 

I Lakers avevano uno staff abbastanza piccolo e unito, ovviamente, quando una squadra decide di ricostruirsi (l’anno dopo si fallì l’accesso ai playoffs, ndr) non si può sbagliare la scelta al draft o nel mercato dei free agents. In quegli anni il mio rapporto è stato intenso con l’assistente GM, che era l’addetto allo scouting. Per fortuna poi le scelte attuate dalla società si sono rivelate tutte funzionali al raggiungimento del Back2back del 2009-2010.

Prima, parlando dei Lakers, hai citato Phil Jackson. Che, insieme a Jerry West, è uno delle persone che hanno sostenuto il tuo libro.Ci racconti com’è nata la loro voglia di contribuire al tuo manoscritto? 

A dirti la verità, il libro nacque per caso. Tutto cominciò quando, durante il periodo della off-season, iniziai a collaborare con diversi giocatori per allenamenti specializzati sui fondamentali d’attacco. Decisi allora di approfondire meglio gli studi su come migliorare il proprio tiro e, lavorando ai Lakers, consultai alcuni membri dell’organizzazione per argomentare le mie tesi e avere consigli. Con Phil Jackson non avevo un rapporto stretto, però quando gli diedi la prima stesura del libro disse che era rimasto impressionato e che avrebbe scritto volentieri la propria opinione come testimonial. Da quel momento in poi siamo rimasti in contatto, qualche volta ci scriviamo tramite e-mail. Con Jerry West  c’è un rapporto completamente diverso. Quando mi assunsero era ancora il GM, ma poco dopo andò a Memphis. Suo figlio è un mio grande amico e West è molto disponibile nel dare consigli, gli piace essere utile ed è una persona incredibile. Diventò un mio punto di riferimento sia come mentore e sia come consulente per il libro e questo per me è stata un grande onore, perché non dimentichiamoci che è stato uno dei primi grandi tiratori della NBA. 

Con la California alle spalle, sbarchi nel North Carolina. Nel 2012 infatti ti sei trasferito a Charlotte, allora Bobcats, ora Hornets. Com’è avvenuto questo tuo passaggio? 

Nel 2011 c’è stato il lock-out. Durante questo periodo la dirigenza dei Lakers non si preoccò più di tanto di aiutare lo staff, poiché senza entrate le squadre vollero limitare le spese. Diciamo, in maniera diplomatica, che ci aspettavamo un trattamento diverso, e aggiungiamo inoltre che io ero pronto per cominciare una nuova avventura. Charlotte mi chiamò, e mi fu chiaro fin dall’inizio che mi volevano fortemente. Decisi di andare, era una sfida stimolante. Era uno Small-Market, si fa fatica ad attirare i grandi free-agent. Quando io sono arrivato non cera una vera e propria cultura visto che era la franchigia più giovane della NBA. Ora si è fatto un lavoro enorme: non siamo ancora ai massimi della Lega, certo, ma questa è una franchigia nuova, giovane, c’è entusiasmo. Siamo passati da 7 vittorie a 21 la stagione successiva, lanno scorso abbiamo toccato le 43 W stagionali, tutto nel giro di 24 mesi, dal mio punto di vista è clamoroso, un ottimo lavoro. Sono state fatte le giuste mosse, abbiamo trovato un giocatore franchigia, inoltre i giovani sono cresciuti ed è stato bello vedere come i tifosi abbiano cominciato ad identificarsi con la squadra. Il Rebranding poi da questo punto di vista è stato eccezionale: i Bobcats non sono gli Hornets, i tifosi si sentono molto più legati alla Charlotte targata Hornets. 

Si parla di Charlotte e viene per forza di cose in mente Michael Jordan. Ci puoi regalare qualche highlights di His Airness come Presidente? Come vive la sua carica? Riguardo le questioni di mercato, è attivo o preferisce delegare i suoi assistenti? 

Andare a lavorare per MJ era qualcosa di impensabile. Come ti dicevo prima, sono cresciuto gli anni 80 quindi MJ per me è stato un modello. Euna persona molto intelligente ed estremamente preparato non solo nel basket ma anche nel business side. Daltronde è stato il migliore giocatore di sempre e un business man di successo! Benché non sia sempre presente in ufficio, vive a stretto contatto con il GM e l’Head Coach. Non manca mai tra noi due uno scambi di battute divertenti che strappano sempre una risata durante le riunioni.

Cosa consiglieresti ad un giovane giocatore italiano: un percorso dalle giovanili nel proprio club come Danilo Gallinari o è più utile un’esperienza al college in USA come i vari Amedeo Della Valle o Daniel Hackett ?

Euna domanda difficile. Il basket europeo è cambiato. 15 anni fa, un giocatore come Marco Jaric già quandera poco più di un ragazzo guadagnava un sacco di soldi, cosa che non gli avrebbe mai fatto scegliere di andare al college. Oggi invece non ci sono molti progetti, ci sono poche squadre affidabili in cui crescere davvero potendo pensare solo al basket. La scelta di andare alluniversità può diventare l’unica modalità valida per uno sbocco NBA. Come scout è più facile vedere e valutare dei prospetti che si relazionano giocando con altri prospetti, come accade nel campionato NCAA. Va detto però che chiaramente la NCAA non è al livello dellEurolega. Ci sono metri di giudizio ben diversi. Faccio un esempio: Alessandro Gentile ha giocato in una competizione più difficile di quella che ha dovuto affrontare Jabari Parker, così come Saric dovrà giocare contro giocatori maturi e formati in Turchia, mentre in NCAA sono tutti dei ragazzi.

 

Abbiamo accennato in precedenza al tuo libro, Shoot Like The Pros. Sei famoso nel mondo NBA per i tuoi clinic di tiro, con cui aiuti i giocatori di pallacanestro a migliorare la capacità di finalizzazione. Qual è il tuo segreto? Usi un metodo fisso o amalgami una serie di principi cardine in base al giocatore che devi assistere?

Il tiro è il fondamentale più complicato. Ovviamente, per sviluppare un buon tiro bisogna tener conto dei parametri fisici del giocatore. Ad esempio io ero un discreto tiratore, ma allo stesso tempo ero molto incostante a livello fisico. Quando ho smesso di giocare è stato più semplice approfondire largomento anche perché avevo meno pressione addosso. Così sono andato alla ricerca di risposte che soddisfacessero le mie domande in materia. Ho smontato la mia meccanica di tiro e poi lho riassemblata; facendo così, ho creato quello che oggi è il mio approccio al tiro, sperimentandolo prima di tutto su me stesso. Tuttora durante i miei allenamenti scopro dinamiche nuove che mi portano a perfezionare le mie idee, anche se al giocatore che viene da me, non insegno la mia tecnica personale, ma cerco di trasmettere i punti fondamentali della meccanica di base adattabili a lui. Quando un giocatore sbaglia costantemente i tiri in partita si cercano mille scuse, ma la verità è che qualcosa nella meccanica va aggiustato. Equilibrio, buon posizionamento della mani sulla palla, linea di tiro STABILE e una fase di estensione e chiusura costante sono le caratteristiche fondamentali per avere un buon tiro.

Nella NBA di oggi, quali sono i tre giocatori che apprezzi di più per la loro meccanica di tiro? 

Seguendo le linee guida di cui ti ho parlato poco fa, a mio parere JJ Reddick è il giocatore con il tiro migliore a livello meccanico. Invece credo che il miglior tiratore della storia insieme a Oscar Schmidt sia Stephen Curry. E’ talmente bravo che può tirare con gli occhi chiusi, fa canestro in ogni modo. E’ così incredibile che può permettersi di rompere le regole e riuscire in ogni caso a segnare… pazzesco! La gente sottovaluta le sue mani e il movimento di piedi, benché abbia una meccanica molto basica, ma è davvero stupefacente. Il più bel tiro in sospensione? Di Ray Allen, senza dubbio. 

Siamo arrivati allultima domanda. Durante questo periodo dellanno, noi di NBAReligion ci occupiamo delle Season Preview di tutte le franchigie americane. Secondo te, come andrà a finire questa stagione? 

Finché una squadra non batte San Antonio, non vedo altre possibili vincitrici dellanello. E per batterli, bisogna sconfiggerli quattro volte ai playoffs. Credo che, salvo infortuni, non ci sia una squadra superiore alla loro. Detto questo, Cleveland ha tutte le carte in regola per vincere, come è stato per Miami quattro anni fa. Magari non questanno, ma ha un gruppo che può vincere anche in futuro. 

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Pubblicato da
Marco Lo Prato

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