Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?
Ovvero, per coloro che non dispongano di una formazione classica:
«A cosa non spingi gli appetiti dei mortali, o esecranda fame dell’oro?»
Con una certa ricorrenza, nel corso del mio percorso di studi, mi sono sentito ripetere questo piccolo emistichio Virgiliano, che si riferisce all’episodio della morte del giovane Polidoro, ultimo figlio di Priamo re di Troia, per mano del tracio Polimnestore, obnubilato dal desiderio di possedere i tesori del principe.
Vicenda, questa, che nella cultura classica veniva presa a paradigma, per stigmatizzare i comportamenti di coloro che si dimostrassero pronti a compiere qualsiasi tipo di azione, buona o turpe, in vista di un bene prezioso e “superiore” (nel caso di specie il vil denaro).
Fra i banchi del Liceo Classico, spesso mi sono trovato ad interrogarmi con i miei compagni sull’utilità e sul senso di quanto ci veniva propinato (sì, anche sull’esecranda fame d’oro) e altrettanto spesso – se non sempre – il tutto si concludeva con un lapidario: «Aspetta che rollo un po’ di natura e controllo nello zaino il quanto-cazzo-mi-frega!» da novelli Clark Gable.
Prima o poi, tuttavia, giunge nella vita il momento in cui la luce si accende e tutto si fa più chiaro. E allora quei cinque, soffertissimi anni non appaiono più del tutto vani, o forse, più semplicemente, i sedici anni sono passati e assumi molte meno sostanze psicotrope.
Quello che conta, però, è che alla fine ho capito. Virgilio, nella sua modernità assoluta, aveva previsto tutto: la psicanalisi, la televisione, i computer, i cellulari, internet, il tracollo finanziario, i junk bonds, i talent show, i social network e l’eterogenea fauna che li compone. É sotto gli occhi di tutti, basta semplicemente aprirli. Io l’ho fatto e ora vedo. Lo vedo nel quotidiano, lo vedo nello sport, nel basket e nel modo in cui la società si rapporta ad esso attraverso le tecnologie.
Basta accendere il computer e visitare qualsiasi pagina web che si occupi di pallacanestro (o di sport in generale) per assistere ad un effluvio di dissenteria verbale da parte degli utenti che la frequentano. I bersagli sono i più vari: allenatori, giocatori, staff, massaggiatori, medici, pediatri, chiromanti, dirigenti.
Tutti sono prodighi di consigli e opinioni quanto mai opinabili (passatemi il gioco di parole). Gli esempi sono molteplici:
«Blake Griffin forte eh, per carità, però non difende»
«Ah LeBron ha fatto una tripla doppia. Sì beh, però ha tirato solo col 45% dal campo»
«Curry è bravo sì, ma ha fatto 2 assist»
Fino addirittura alle contraddizioni fra un post e l’altro:
«Durant è troppo forte, però non sarà mai come LeBron, perché la passa male».
Bene, permettetemi ora qualche osservazione. Anzitutto, qual è il punto, il fine ultimo di tutto ciò?
Sì, perché da fuori — complice anche la posizione “privilegiata” datami dal fatto di fare parte, in piccolo sia chiaro, di questo mondo — l’impressione è che, in qualche modo, tutti si sia alla ricerca quasi ossessiva, morbosa di una qualsivoglia forma di perfezione e nel momento in cui questa ricerca si riveli infruttuosa, rispetto a dei parametri prefissati e di cui non ho ancora ben capito i contorni, ecco che subito si scatena un senso generale di insoddisfazione e frustrazione, che si produce nelle forme più disparate.
Tuttavia, al di là della proverbiale gran rottura di palle per chi si trova costretto a leggere o sentire tutto questo, la cosa veramente preoccupante è che si sta perdendo, in questo modo, il quadro generale, la visione d’insieme.
La pallacanestro, così come la vita e ogni altra attività che richieda l’impiego di una certa dose di fosforo e logica (attenzione a tutti, questo discorso non vale per il calcio), si gioca sul filo dell’errore.
Mi spiego meglio: il basket, per fortuna o sfortuna (decidete voi), è uno sport in cui l’errore, lo sbaglio ha un peso preponderante.
Solitamente, infatti, vince non chi faccia meglio, ma chi faccia meno peggio.
È una realtà empirica, facilmente verificabile. I numeri parlano chiaro in tal senso, ma facciamo un esempio: la squadra che nella stagione 2013/2014 ha avuto la miglior percentuale realizzativa da 3 punti è stata San Antonio, che da dietro l’arco ha sparato con il 39.7%. Ecco, il 39.7%. Ciò significa che neanche lontanamente la metà dei tiri tentati dall’arco dei 3 punti sono finiti in fondo alla retina.
Stando alla logica da tastiera bisognerebbe dedurre che gli Spurs – peraltro campioni NBA – siano una squadra di pippe mostruose, che non centrerebbero il canestro neanche con un GPS. Eppure non è così.
Inquadrato il campo di gioco si può passare ai singoli. E dio ci aiuti, perchè qui si apre un vaso di Pandora di proporzioni preoccupanti.
Proprio loro, infatti, sono le vittime sacrificali di questo perfezionismo spicciolo e pressapochista. Commenti come “bravo ma non difende”, “fortissimo ma salta poco”, “doppia-doppia di media, però ammassa solo statistiche” sono una costante.
E allora io mi chiedo se fossero esistiti i social media già dagli anni ’60, cosa sarebbe potuto uscire fuori?
«Wilt Chamberlain bravo a far 100 punti, però vincere qualche titolo ogni tanto non sarebbe male #GetARingWilt».
«Fortissimo sto Magic Johnson, però in difesa una chiavica e non salta neppure la Gazzetta #GetBackOnDefenseYouFatass»
«Beh, sì MJ il più forte di sempre, però potrebbe tirare un po’ meglio da 3 punti #EatSomeCerealsMike».
E questa è solo una piccola parte dello scenario possibile. Se infatti si prendesse in considerazione uno qualsiasi fra i giocatori che hanno cambiato la storia del Basket, seguendo questa “logica”, si potrebbe trovare in lui un difetto invalidante:
Pete Maravich – perdeva troppi palloni
Larry Bird – non di certo un atleta olimpionico
Julius Erving – tiratore non eccelso
E così via.
Insomma una situazione ai limiti del ridicolo. Se ci si pensa bene sarebbe come andare da un cardiochirurgo, il più bravo su piazza, e pretendere che ti sistemi il menisco: «Alla fine sei pur sempre un dottore, no?»
Purtroppo nel basket le cose sono un po’ più complicate di così. I fattori da tenere in considerazione sono molti e il contributo che un giocatore può fornire a una squadra va al di là di quanti punti segna, o di quanti rimbalzi prende o non prende, o di quanti possessi difensivi manca. L’importante è cercare di costruire un contesto in cui tutti sappiano rendere e muoversi al meglio al netto dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, esattamente come nella vita, dove non si pretende che chiunque sappia fare o conosca qualsiasi cosa o argomento, anche se poi, alla fine, «siamo tutti esseri umani, no?»
È proprio qui che il Magistero virgiliano si scrolla di dosso la polvere e si svela in tutta la sua magnificenza e dignità.
«A cosa spingi gli appetiti dei mortali, esecranda fame dell’oro?»
In questo caso però non è l’oro, bensì una forma non meglio precisata di perfezione, ciò che suscita l’appetito atavico del fruitore. Appetito — ahilui — destinato a rimanere insoddisfatto, in quanto poggiato su presupposti fallaci.
Anzitutto mi pare di notare la sussistenza di una certa qual confusione fra il concetto di perfezione e quello di perfettibilità.
Questa seconda, intesa come la costante spinta a perseguire un miglioramento del proprio essere e delle proprie capacità, è un qualcosa di virtuoso (non fraintendetemi) e assolutamente condivisibile, se non addirittura doveroso. E pertanto risulta in qualche modo giusto pretenderla.
La perfezione, però, è tutt’altra cosa. E io non sono qui a buttare fumo negli occhi – come spesso hanno fatto nella vita mia, vostra, di tutti – e a dirvi che questa non debba essere perseguita, in quanto inesistente e utopistica. Anzi, il contrario: la perfezione esiste, ma non nelle forme che pensate voi.
Basta spogliarla di ogni sovrastruttura e riscoprirla a partire dal suo significato primigenio e ancestrale, ossia quello latino, quello di Virgilio appunto. Per i Romani “perfectum” era tutto ciò che si potesse definire completo, che avesse raggiunto il proprio scopo. Ed ecco che allora la perfezione torna ad essere possibile, torna ad esistere, ma come condizione temporanea ed estemporanea e avulsa dalla logica del «lavorerà, migliorerà, saprà fare tutto. Sarà perfetto».
La perfezione è un momento, un battito di ciglia, una schiacciata scheggia-ferro di Griffin, un jumper di Ray Allen, un passaggio geniale di LeBron. La perfezione è pop. Perché è in quel momento che quella persona, quel giocatore è completo. Ha raggiunto il suo scopo. Ha rispettato la sua natura e ti ha fatto emozionare, più di quanto qualsiasi numero o statistica possa mai fare.
Tutto il resto non conta ed è limitante, a maggior ragione in una società come quella in cui ci troviamo a vivere. Una società di Talent Show e Social Network, in cui chiunque si sente in dovere, o nella posizione, di individuare e definire il talento e le capacità altrui, esprimendo giudizi di valore quanto mai sindacabili.
Allora, forse, è il caso di fare tutti un bel passo indietro. Lasciamo a queste persone – che a quanto pare smaniano – la facoltà di limitare e limitarsi.
Noi, invece, limitiamoci a sederci e goderci lo spettacolo. Oppure possiamo sempre rollarcene un’altra e continuare a cercare nel proverbiale zaino il quanto-cazzo-ci-frega.