Nella notte tra l’11 e il 12 novembre, l’NBA ha avuto la fortuna di assistere a uno (altro) dei suoi momenti storici. Nello specifico, un’ala grande bianca, bionda e barbuta, proveniente dalla Germania (da Würzburg, per la precisione) e rispondente al nome proprio di persona, tipicamente germanico, di Dirk, ha segnato 23 punti nel match tra i suoi Dallas Mavericks e i Sacramento Kings. Fin qui nulla di particolare, non fosse che all’ala grande tedesca di cui sopra bastassero “solo” 17 punti per superare, nella classifica marcatori NBA di tutti i tempi, un certo Hakeem Olajuwon, a.k.a. “the Dream”. Questo ha resto Dirk Nowitzki, o Wünder Dirk se preferite, il nono marcatore di sempre nella storia dell’NBA e, soprattutto, il primo per punti segnati tra gli international players. Ma chi sono gli international players di cui tanto si è parlato dopo questo traguardo? Bhe, in maniera anche un po’ banale, possiamo dire che si tratta di tutti quei giocatori non statunitensi che militano in una lega sportiva professionistica statunitense. Ma se la nozione di “international player” non fa più notizia nell’NBA globalizzata del post-Stern (quest’anno sono un vero e proprio battaglione da centouno giocatori di trentasette nazionalità diverse), non sempre la lega più bella del mondo è stata così aperta e accogliente. Diffidenza e una certa gelosia hanno regnato per anni in NBA (come negli Stati Uniti in genere) nei confronti di chiunque provenisse da uno stato appena un filo più esotico del Delaware, figlie di una dottrina Monroe mai del tutto abbandonata e di una ostentata chiusura, ai limiti dell’indifferenza, verso tutti i paesi che battessero una bandiera diversa da quella a stelle e strisce. Eppure, infine, anche l’NBA si è aperta all’esterno, regalandoci alcune storie straordinarie. “The Others” nasce per raccontare queste storie, le storie degli altri, europei, africani, asiatici o australiani. Certo non tutte, ma le più significative, le più tragiche o le più divertenti, per poter capire come sia caduto il mito della superiorità americana, e come noi “altri” siamo riusciti a fare breccia nel cuore di general manager, coach e, soprattutto, tifosi della lega più bella di tutte.
L’archetipo, l’origine e il modello principale di ogni international player, anche ai nostri giorni (non per le cifre o per la mole di gioco, sia chiaro, ma per gli aspetti pionieristici della sua esperienza), è un ragazzo spesso dimenticato, proveniente da quel grande e freddo paese a nord delle cascate del Niagara. Un ragazzo che di nome faceva Henry Arcado Biasatti. Il che tradisce la sua origine italiana: nato infatti a Beano, microscopica frazione di un’altrettanto microscopica Codroipo, in provincia di Udine, il 14 gennaio 1922, Henry mosse più tardi con la famiglia verso Windsor, in Ontario, la più meridionale delle città canadesi. Fu proprio nella “città delle rose” (questo l’aulico soprannome di Windsor) che Henry Biasatti, per gli amici Hank, fece conoscenza con la palla a spicchi, anzi, con lo sport più in generale: fu una vera e propria star del parquet, giocando come guardia alla Gordon McGregor Continuation School e all’Assumption College High School, il tutto mentre giocava anche a baseball per gli East Windsor Cubs. Poi, però, la Seconda Guerra Mondiale si mise sul suo cammino. Il Canada fece il suo ingresso nel conflitto il 10 settembre 1939 al fianco degli Alleati, e reclutò, tra le fila del suo esercito, anche un appena diciottenne Hank Biasatti. All’epoca il ragazzo si divideva tra l’Assumpion College di Windsor, dove continuava la sua carriera cestistica, e i Toronto Maple Leafs, dove iniziava quella di giocatore di baseball.
Nel 1942, a guerra ancora in corso, entrò a far parte dei London Army, con i quali vinse il Canadian Congress Baseball Championship. Nel 1943 giocò quindi le Ontario Baseball Association (o più semplicemente OBA) Championship Series. La stagione successiva, però, passato ai London Majors della Intercounty Baseball Association (o IBA), Biasatti fu al centro di un piccolo scandalo: il fatto che giocasse nei “Sunday games” a Detroit spinse la OBA a vietargli di partecipare alle proprie competizioni e a costringere i Majors a rigiocare le semifinali dell’anno precedente contro Windsor. Biasatti poi, condusse la sua squadra alla vittoria del titolo OBA nel 1945, per poi cambiare sport e concedersi al basket tra il 1945 e il 1946. Con l’inizio della stagione regolare di baseball che si approssimava, però, Hank decise di mettere da parte la palla a spicchi ancora una volta, per aggregarsi ai Toronto Maple Leafs. La sua avventura nella città più multiculturale di sempre fu, però, travagliata: dopo aver perso il posto da titolare per le sue scarse prestazioni, venne spedito a Savannah, praticamente dall’altro lato d’America, per giocare negli Indians, ma vi rimase solo poche settimane. Affetto da una rara forma di saudade nordamericana, fece ritorno a Toronto, ma non riuscì comunque a riconquistarsi il posto perduto. Chiese così di essere mandato in una lega inferiore e raggiunse i Sunbury Yankees della Class B Interstate League. Era luglio.
Qualcosa intanto si stava muovendo nel mondo del basket. Erano anni importanti per lo sport americano, quei ’40. Proprio nel 1946, infatti, veniva fondata la Basketball Association of America (o BAA), una nuova lega professionistica di basket pronta a battagliare con la National Basketball League (o NBL) e che riuniva, in quell’anno inaugurale, undici franchigie. Tra queste c’erano anche i Toronto Huskies, una franchigia nata per volontà e ispirazione di un piccolo gruppo di uomini: Eric Cradock, Harold Shannon e Ben Newman (che ne fu anche il coach… per una partita), che erano riusciti a ottenere il supporto economico di alcune personalità della Bay Street (il cuore pulsante della downtown finanziaria di Toronto). La squadra, in realtà, non aveva pretese eccessive: fondarla era costato circa 150.000 dollari, e il pubblico canadese non sembrava particolarmente eccitato dell’idea (tanto che gli owners si dovettero inventare delle strategie di marketing quantomeno improbabili per convincere la gente a venire alle partite, come si può notare nella foto).
“Puoi superarlo? Chiunque sia più alto di Nostrand, 6 piedi e 8 pollici (2.07 m), entrerà gratis all’opening game”
Eppure, mentre si lavorava alacremente per allestire un roster, gli occhi dell’establishment degli Huskies (se così lo vogliamo chiamare) erano caduti su Hank Biasatti. E perché rinunciare a una simile opportunità? Raggiunto il training camp d’apertura della franchigia insieme a svariati giocatori statunitensi e altri cinque canadesi, Hank superò tutte le scremature e entrò a far parte del roster di Toronto per quella stagione 1946/47. Era l’unico canadese ad avercela fatta. Un momento storico, uno dei primi della storia NBA, era vicino, e Hank ne era l’ancora inconsapevole protagonista. Il 1 novembre 1946 gli Huskies fecero il loro esordio nella BAA (dando in realtà inizio alla BAA stessa) con una sconfitta 68 a 66 contro i New York Knickerbockers, e mandarono in campo anche Hank Biasatti. Era la prima volta che un giocatore non statunitense metteva piede sul parquet durante una partita di una lega professionistica USA. Persino la NBA, che generalmente non riconosce punteggi e record conseguiti in BAA, a meno che il detentore non abbia giocato per una o più stagioni anche nella rinnovata NBA (nata nel 1949 dalla fusione tra BAA e NBL), considera Hank Biasatti il primo international player della storia.
Ma, come accennavamo, Hank Biasatti non può essere certo considerato un modello per il gioco espresso o per i numeri che mise su in quel 1946. Nonostante infatti fosse stato raggiunto da Gino Sovran, un altro canadese, già suo compagno di squadra all’Assumption College, dopo soltanto sei partite giocate, in dicembre, Hank andò dritto dalla dirigenza degli Huskies, chiedendo di essere tagliato, in vista dell’inizio della stagione di baseball, alla quale avrebbe preso parte con i Philadelphia Athletics. Hank Biasatti aveva fatto una scelta: la sua priorità era il baseball. Ma se lui aveva rinunciato al basket, non altrettanto il basket aveva fatto con lui.
Fu così che nel Draft BAA del 1947, quando fu il turno dei Boston Celtics, saltò fuori proprio il suo nome. C’erano buone speranze in quel del Massachusetts di vedere il canadese in maglia bianco-verde. Una maglia che, però, Biasatti non indossò mai. La scelta che aveva compiuto l’anno precedente era definitiva, irrevocabile, e gli avrebbe portato anche qualche soddisfazione. Trasferitosi di nuovo a Savannah, infatti, nel 1947 finì secondo nella lega di baseball per home run. Nel 1948, tornato ai Toronto Maple Leafs in prestito dagli Athletics, condusse la squadra con ben 21 home run. E poi finalmente, nel 1949, ebbe la sua chance nella Major League. 21 partite giocate con gli Athletics, con prestazioni, a dir la verità, non proprio esaltanti, ma che fecero di lui il primo e unico canadese a competere ai massimi livelli sia nel basket che nel baseball. Venduto ai Buffalo Bisons, giocò in quel dello stato di New York tra il 1950 e il 1951.
Una nota a parte merita la sua carriera di allenatore. Dopo aver cominciato, nel 1953, appena trentenne, come allenatore-giocatore dei Waterloo Tigers (si tratta di Waterloo, Iowa, prima casa, tra l’altro, degli Hawks), nella Intercounty Baseball League, aveva poi ricoperto ruoli dirigenziali in alcune piccole squadre che facevano parte del sistema di scouting dei Philadelphia Athletics. Nel 1956 però qualcosa cambiò, e Hank tornò alla sua vecchia passione. Raggiunse la sua alma mater, la nel frattempo rinominata Assumption University, e qui ricoprì il posto di coach della squadra di basket per sei stagioni consecutive, conducendo la squadra al titolo dell’Ontario-Quebec Intercollegiate Basketball League per ben due volte: la prima nella sua stagione d’esordio (1956/57), la seconda nel 1958/59.
Hank Biasatti morì il 20 aprile 1996, a Dearborn, stato del Michigan. È quasi ironico notare come, nonostante avesse dedicato la maggior parte delle sue energie al baseball, Hank sia passato alla storia per quanto fatto nel mondo del basket. Le sue vittorie come coach alla guida dell’Assumption University gli guadagnarono l’elezione nella Windsor/Essex County Sports Hall of Fame (1982), nella University of Windsor Alumni Sports Hall of Fame (1986) e nella Canadian Basketball Hall of Fame (2001), qualcosa che il baseball non riuscì mai a dargli. Ma soprattutto, da giocatore, Hank seppe abbattere una barriera invisibile, una barriera che aveva impedito a chiunque non fosse statunitense, prima di lui, di gareggiare contro gli statunitensi in quello sport meraviglioso col pallone a spicchi e col canestro. Della sua esperienza hanno beneficiato innumerevoli giocatori, di ogni parte del mondo, a partire da Gino Sovran per arrivare a Dirk Nowitzki e al battaglione di centouno international players che, quest’anno, rappresentano il nuovo record dell’NBA globalizzata.
Tutti noi dovremmo ringraziare Hank Biasatti, perché forse, senza di lui, non avremmo avuto i Dirk Nowitzki, i Drazen Petrovic, gli Yao Ming o gli Steve Nash, in grado di illuminare i parquet dell’NBA quanto, i Karl Malone, i Tracy McGrady, i Shaquille O’Neal o i John Stockton di questo mondo. Quel 1 novembre 1946, nel momento in cui Hank Biasatti ha poggiato i piedi sul parquet e ha preso in mano il pallone, qualcosa è cambiato in un modo che non è stato subito comprensibile. Le prime crepe sul muro della “superiorità americana” le ha tracciate lui.