Categorie: Editoriali NBA

Il Maestro e Becky Hammon

“Quando tutto sembra perduto, vado a guardare un tagliapietre che colpisce il masso cento volte senza neppure riuscire a scalfirlo. Eppure al centunesimo colpo la pietra si spacca in due, e io so che non è stato quel colpo, ma tutti quelli che sono venuti prima” (Jacob Riis)

Uno dei sentimenti umani più comuni e diffusi è la frustrante impressione di non essere giudicati e considerati secondo i reali meriti, di essere cioè sottostimati rispetto alle proprie possibilità. Sensazione molto spesso solo in parte giustificata, quando non addirittura generata da ego che tendono a distorcere la visione di sé stessi in chiave eccessivamente positiva, in molti altri casi deriva invece da incontrovertibili dati di fatto, provocando appunto frustrazione, senso d’impotenza, non di rado persino rabbia o svilimento verso le proprie capacità. Ad esserne particolarmente colpite non possono che essere, ovviamente, le fasce più deboli della società, le minoranze di qualsiasi natura, le eccentricità, e in misura ancora maggiore, le donne, costrette quotidianamente, in particolare in ambito professionale, a misurarsi con gli stereotipi, se non addirittura le paure, di una società occidentale che fatica a superare la sua millenaria impostazione patriarcale, e in alcuni casi apertamente maschilista (ed è un uomo a scrivere queste righe, mica la solita attivista femminista, tanto per rimanere sulle immagini stereotipate).

Con ogni probabilità, il South Dakota di fine anni ’70 non era esattamente un’oasi di emancipazione e sperimentazione sociale. Tipico stato della cosiddetta “linea di frontiera” che divide in due gli States, spazi ampi e perlopiù ancora selvaggi, una capitale, Pierre, che coi suoi 14.000 abitanti ricorda più un paesotto di provincia, la parte meridionale del territorio che fu dei Sioux è conosciuta più per l’orgoglio americano incarnato nei faccioni del Monte Rushmore che per il proprio progressismo.

E’ un po’ più a nord del monumentale National Memorial, a ridosso di un parco nazionale vicino a Rapid City (una megalopoli nella zona coi suoi 68.000 abitanti), che Marty Hammon ha posto la sua dimora, dove, con il suo passato di allenatore, non può mancare il classico canestro appeso per i pargoli. L’unico erede maschio, Matt, su cui puntare tutte le fiches, purtroppo non gli pare un fenomeno: gioca allo stesso livello della sorellina minore. Fino a che Marty si rende conto che non è il figlio a essere scarso, ma la piccola Rebecca, per tutti Becky, ad essere particolarmente dotata. E inizia a portarla con lui e Matt agli YMCA di Rapid City a giocare.
C’era da aspettarselo, in effetti: la piccola, classe ’77, è praticamente nata con la palla da basket in mano, e non essendo molto portata per l’altra attività di famiglia, la caccia, fin dalla più tenera età passa le sue giornate davanti a quel canestro appeso, spesso tirando da sola, ma sbagliando sempre meno tiri nonostante la stazza non certo mastodontica. Come spesso accade a chi deve fare di necessità virtù, al fisico da Pollicino Becky ha sempre supplito con un carattere temerario e deciso, che da una parte la spinge a nuotare in mezzo agli squali durante le sue vacanze in Florida, dall’altra a non farsi problemi a giocare con i maschi, spesso amici del fratellone Matt e quindi più grandi, su un playground. Dall’alto del suo metro e mezzo scarso fatica anche solo a scoccare il tiro, e prende pure sonore mazzate dai ragazzi che non ci tengono particolarmente a essere battuti da una ragazzina; ma, considerato anche che le giocatrici qui sono frequenti più o meno come le auto d’importazione, la piccola di casa Hammon si adatta, diventando un eccellente play passatore e imparando a tirare in acrobazia anche contro avversari ben più alti. E non bastano più nemmeno le botte per fermarla.

“Non importa quanto sei brava e quanto lavori duro, non potrai mai giocare nella NBA. Sei una ragazza”. Matt è piuttosto brusco ma ha ragione: una Lega femminile professionistica, a fine anni ’80, in America non esiste. Inoltre, per quanto Becky alla Stevens High School abbia distrutto ogni record in punti, assist e recuperi (con buona pace del buon Eric Piatkowki, il principale prodotto cestistico dello Stato – non esattamente il Rucker Park, insomma), i grandi college femminili la snobbano a causa della sua taglia fisica ridotta. Becky comunque non ci sta ad appendere a nemmeno vent’anni le proverbiali scarpe al chiodo, ed accetta l’unica borsa di studio per meriti cestistici che le viene offerta, a Colorado State University. Applausi alla vice coach Kari Gallegos-Doering, l’unica a notarla a una esibizione per All Stars liceali e a portarla (o meglio, rubarla) tra le Montagne Rocciose: 33-3 il record e giro alle Sweet 16 per un college che in genere in quel periodo è già ampiamente in vacanza. Scontata frantumazione di ogni record d’ateneo in punti, assist e tiri da 3 realizzati, a cui si aggiunge anche la resa di un solido giocatore NBA come Keith Van Horn, che le cede lo scettro come miglior realizzatore assoluto della Western Athletic Conference, a prescindere dal sesso. L’anno, o meglio la stagione, di grazia è il 1998/99, e in barba alla profezia di Matt la WNBA sta emettendo i primi significativi vagiti dopo il primo anno di vita: con un curriculum del genere, impossibile non tentare il grande salto dopo una sola stagione al college.

Nel mitico Draft NBA del 1984, tra i vari Olajuwon, Jordan e Barkley si presentava anche un play bianco e mingherlino, semisconosciuto a livello nazionale, eppure reduce da quattro ottime stagioni a Gonzaga. Complice la ricchezza di quell’annata, e i numerosi dubbi sulle sue possibilità tra i pro, molti lo ignorarono, fino a che gli Utah Jazz ringraziarono e fecero il suo nome alla 16: John Stockton. Un paio di quei dubbi li fugherà in vent’anni di gloriosa carriera e oggi è considerato uno dei più grandi steal of the draft della storia.
Immaginate ora che Stockton non solo andasse così indietro, ma che non fosse addirittura scelto. Pare follia, assurdità in un Draft che vide la chiamata del velocista Carl Lewis al decimo giro (non era decisamente il vostro tipico Draft), eppure nella lega gemella riservata alle donne accadde qualcosa di paragonabile. Una delle migliori giocatrici di college di quell’annata come Becky Hammon, incredibilmente, non sentì mai il proprio nome la notte del Draft WNBA del 1999. Soliti discorsi: piccola, non particolarmente rapida, messa in mostra solo dalla pochezza dell’ateneo di provenienza. Quella notte, ancora una volta, nessuno credette in Becky.
Nessuno tranne le New York Liberty, che le offrono di svolgere con loro il training camp quando già Becky stava sondando le squadre europee. Come Kari Gallegos-Doering, in linea di massima non se ne pentiranno, visto che prima troveranno un ottimo cambio per la veteranissima Teresa Weatherspoon, poi, a partire dal 2003, un play titolare 3 volte All Star, dotata di ottimo palleggio, visione di gioco, tiro mortifero e agonismo fuori dal comune. Eppure, ancora una volta, quando si presentò l’occasione di prendere il giovane centro Jessica Davenport, appena scelta dalle San Antonio Silver Stars, le Liberty non esitarono a sacrificare il loro play nativo di Rapid City. Risultato, Davenport rilasciata dopo una sola stagione, Hammon altri tre All Star giocati e due primi quintetti in Texas: e ormai avrebbe dovuto esser chiaro che sottovalutare Becky Hammon è più controproducente che provare a fregare Marsellus Wallace, a meno ovviamente di non essere la signora Wallace.

Se sei una delle prime 5 giocatrici e sei cresciuta a due passi dal Monte Rushmore, è chiaro che la nazionale sia ben più che una semplice aspirazione. Becky ha già indossato la maglia statunitense in un torneo giovanile, ma le Olimpiadi sono un’altra cosa, soprattutto per chi da ragazzina era convinta che solo in queste competizioni avrebbe potuto giocare in un palcoscenico internazionale, in assenza come detto di una Lega professionistica propriamente detta. Per andare sul sicuro, Hammon chiude la stagione 2007 a 19 punti e 5 assist di media, arrivando seconda nella corsa all’MVP stagionale dietro Lauren Jackson. La bionda ala delle Seattle Storm è però australiana, e questo fa di Becky Hammon, sulla carta almeno, la miglior giocatrice americana in circolazione in quel periodo.

Eppure, quando vengono diramate le convocazioni, le crolla il mondo addosso: il suo nome non c’è, per l’ennesima volta non è stata scelta. Rimanendo sul parallelismo maschile, stavolta è come se Lebron James o Kevin Durant (ai manzoniani posteri l’arduissima sentenza sull’ordine) non venissero considerati per la nazionale americana per scelta tecnica: un’ipotesi non solo inverosimile ma addirittura masochistica.
Probabilmente non correva buon sangue con la coach Anne Donovan. Ma è comunque una pugnalata, totalmente inaspettata. Tanto dolorosa da spingerla a una scelta altrettanto drastica: pur di esserci a Pechino, Becky accetta di prendere il passaporto di un’altra nazione e di rappresentarne i colori. E non esattamente una a caso: la Russia ormai non più sovietica ma certamente non a tutti simpaticissima negli States.

Apriti cielo, come prevedibile: viene accusata di cinismo e avarizia (aveva giocato un paio di stagioni al CSKA quando, in inverno, la WNBA è in off season, e il passaporto le avrebbe permesso di guadagnare molto di più come comunitaria) e soprattutto di tradimento verso la bandiera a stelle e strisce. “Se giochi in questo paese e cresci nel cuore di esso, e poi metti la maglia della Russia, non sei una persona patriottica”, disse proprio l’autrice de lo gran rifiuto Donovan. Becky respinge queste accuse, ma gli americani non restano convinti di questa decisione controversa, peraltro coronata da un bronzo con 22 punti nella finalina con la Cina.

Sta ad ognuno di noi credere o meno che esista un destino, e che le cose accadano per una ragione. Non è questa la sede per discutere di filosofia spiccia, ma quantomeno nella storia di Becky Hammon anche un episodio così controverso risulterà cruciale, perché nel volo di ritorno verso San Antonio dopo le Olimpiadi di Londra con la nazionale russa le capita di scambiare due chiacchere con un signore di mezza età dall’aria burbera ma in realtà affabile, che ama parlare di ottimi vini e, a tempo perso, anche di pallacanestro: ovviamente Becky conosceva già Gregg Popovich e pure i colleghi maschi, con cui le Silver Stars hanno un rapporto informale, ma per la prima volta su quel lungo volo ha modo di discutere di basket e della sua visione dello stesso. Pop, che in carriera ha conosciuto un paio di allenatori di livello, rimane letteralmente folgorato dalla filosofia di gioco e dall’acutezza della 35enne giocatrice, e inizia a pensare che, come moltissimi grandi playmaker, potrà diventare un’ottima allenatrice. E l’occasione si presenta anche prima del previsto: in quella stessa stagione Becky si rompe il crociato, chiudendo in sostanza la propria carriera sul parquet. Durante il recupero, inizia a seguire più spesso gli allenamenti degli Spurs, poi, su invito di Popovich, a dire la sua, a commentare o addirittura dare suggerimenti. Inizia a vedersi sempre più spesso all’AT&T Center, dietro la panchina dei padroni di casa. Fino a che, dopo il ritiro ufficiale qualche mese or sono, Popovich fa ciò che farebbe con qualsiasi giovane coach di belle speranze: la assume come assistente. La ragazza piccola, lenta, che non poteva stare sul parquet e nemmeno rappresentare il proprio paese nativo, ma che puntualmente smentiva tutti, stavolta è stata scelta addirittura per entrare nella Storia, in quanto prima assistente donna di una franchigia NBA. Dopo Nancy Lieberman, prima allenatrice di una squadra professionistica maschile (i Texas Legends in D-League) e la più nota Violet Palmer, primo arbitro di sesso femminile della Lega, un altro muro è stato abbattuto, e molto altri probabilmente lo saranno in breve tempo grazie al suo esempio.

Qualcuno ricorderà ancora bene quell’estroso e controverso (per usare un eufemismo) personaggio che era ed è Luciano Gaucci. Da presidente del Perugia Calcio, l’imprenditore romano non ha mai risparmiato colpi ad effetto, come il giapponese Nakata (peraltro giocatore vero), il figlio di Gheddafi (già meno) nonché più di un tentativo di inserire delle donne nella squadra, in qualità di allenatore (Carolina Morace, forse la miglior giocatrice italiana di sempre, durata una partita) e poi giocatore (Birgit Prinz, non andato in porto). Nakata a parte, in nessuno di questi casi, con pochi timori di smentita, c’era una reale motivazione tecnica dietro la scelta, e anche stavolta non è mancato chi ha sospettato che l’ingaggio di Becky Hammon fosse mosso dalle medesime ragioni mediatiche/pubblicitarie, nonostante la credibilità e la serietà di un’organizzazione come quella degli Spurs. Un giudizio di questo genere è, tanto per cambiare, una sottovalutazione delle capacità dell’interessata, ma qui per la prima volta entra in gioco il suo sesso, discriminante di una valutazione che si ferma appunto ad esso e al suo carattere inusuale, per non dire unico, nella Lega. Ma gli Spurs hanno scelto Becky Hammon esclusivamente per le sue competenze e per ciò che poteva portare alla squadra, perché ha esperienza sul campo come professionista (al contrario dello stesso Popovich) e perché capisce il gioco come pochi uomini; l’impatto mediatico che comunque inevitabilmente ne sarebbe derivato pare addirittura infastidirli, come dimostra la conferenza stampa di presentazione, in cui non si è mai fatto riferimento al suo genere ma solo alla sua persona e alle doti tecniche. Per l’ex dipendente della CIA Becky è “solo” un coach di belle speranze, di cui parlano le doti, il lavoro, le esperienze e nient’altro: “Quando sei nel giro da tempo, capisci subito chi può allenare e chi non può farlo. Becky è quel tipo di persona. E’ Steve Kerr. E’ Doc Rivers. Quel tipo di persone, che hanno feeling col gioco e vogliono continuare a partecipare ad esso”. Massimo rispetto per Carolina Morace e Birgit Prinz, certamente qualificate nel proprio settore ma finite in un contesto che voleva solo sfruttarne l’immagine inusuale: a Becky Hammon questo non accadrà, a patto che porti anche il suo colpo al masso descritto da Riis, la cui citazione capeggia nello spogliatoio degli Spurs in tutte le tante lingue parlate lì dentro. Non sarà un problema, considerato quanti colpi ha dovuto testardamente dare lei stessa al suo prima di riuscire a romperlo ed essere finalmente valutata per le sue doti, e non per qualche stupido pregiudizio.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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