22 Maggio 1995, Alamodome, San Antonio, Western Conference Finals, Gara-1
Un’irripetibile edizione degli Houston Rockets si è trovata catapultata alle Finali dell’Ovest, contro i San Antonio Spurs. Nella prima partita i padroni di casa si trovano in vantaggio di un punto ad una ventina di secondi dal termine. L’attacco di Houston fa circolare la sfera, la difesa nero-argento riesce sempre a metterci una pezza in quello che è il possesso decisivo. Hakeem Olajuwon prova la penetrazione ma è costretto a scaricare in emergenza. Il ricevitore fa una finta di passaggio, effettua un palleggio e si eleva per il più classico dei long-two, indisturbato.
26 Maggio 2002, Staples Center, Los Angeles, Western Conference Finals, Gara-4
I Los Angeles Lakers bi-campioni in carica stanno soffrendo le pene dell’inferno. I loro avversari, i Sacramento Kings, hanno passeggiato allo Staples in gara-3 e nel primo tempo della quarta partita. Assecondando il tanto spesso abusato brocardo del cuore dei campioni, i giallo-viola piazzano un tremendo piazzale, ma sono sotto di 2 a meno di dieci secondi dal termine. Kobe Bryant penetra deciso, ma l’aiuto di Vlade Divac lo costringe all’errore. A catturare il rimbalzo offensivo è però Shaquille O’neal, il quale, tuttavia, inopinatamente sbaglia il più classico degli appoggi da mezzo metro. La palla viene smanacciata fuori dove si trova un altro Laker, oltre l’arco solo perché scivolato un attimo precedente, che raccoglie la sfera e si erge per la tripla.
19 Giugno 2005, Palace of Auburn Hills, Detroit, NBA Finals, Gara-5
Dopo 4 partite all’insegna di corse di testa da parte della squadra di casa, i San Antonio Spurs ed i Detroit Pistons danno vita ad un intenso duello, che si protrae sino al supplementare. I Texani sono sotto di due punti a poco meno di dieci secondi dal termine, ma col possesso della sfera. Dalla rimessa laterale sbuca Manu Ginobili che si ritrova nell’angolo braccato da Tayshaun Prince. Rasheed Wallace, vedendo il buco in cui si era inserito l’argentino, decide di staccarsi per effettuare un devastante raddoppio. Il nativo di Bahia Blanca intuisce e trova l’uomo lasciato libero da Rasheed, che prende il pallone e scocca un tiro da tre punti contro i difensori tardivamente in aiuto.
Tre istantanee, tre attimi cristallizzati per sempre a sublimare una delle carriere più vincenti che si possa ricordare. Michael Jordan? Nada. Magic Johnson? Nisba. Larry Bird? Non scherziamo. Tutti lasciati alle spalle, con uno scatto da maglia rosa in un tappone dolomitico. Già, perché il soggetto in questione ha fatto delle vittorie un vero e proprio marchio di fabbrica, spesso e volentieri griffato da una personalissima prova d’autore. Sette titoli NBA possono tranquillamente testimoniare a favore, un numero da capogiro e che davvero una ristrettissima cerchia di persone nella Lega è riuscito a raggiungere. E le tre situazioni accennate nel prologo? La conclusione la sapete già. Naturale, quasi banale, quando a prendersi quei tiri era Robert Horry, il Signore degli Anelli.
La storia di uno dei più grandi protagonisti dei finali caldi della Lega prese inizio nell’Agosto del 1970 nel sud degli Stati Uniti, in particolare nell’Alabama. Trasferitosi dal natio Maryland, il piccolo Robert iniziò a prendere confidenza con la palla a spicchi. Dopo la trafila dell’high school, Horry frequentò, insieme ad un certo Latrell Sprewell, la locale università. Con la maglia dei Crimson Tide si fece notare per la solidità e la buona attitudine difensiva (soprattutto alla voce stoppate), fattori che gli schiusero le porte ambite della NBA. Con la undicesima chiamata del Draft 1992, infatti, gli Houston Rockets decisero di selezionare Robert, inserendolo all’interno di una squadra che aveva decisamente bisogno di una scossa, nonostante la presenza di Olajuwon.
Nonostante il posto in quintetto da ala piccola titolare, ed una stagione da rookie chiusa in doppia cifra di media, l’amore tra Horry e Houston non fu proprio a prima vista. A dispetto, anche, di un primo, temibile segnale lanciato agli avversari, con un jumper vitale per mandare all’overtime gara-7 delle WCSF a Seattle. La ritrosia a tirare, soprattutto da fuori, non aprendo di conseguenza il campo alle operazioni nell’area pitturata di Olajuwon, avevano fatto saltare più di una mosca al naso nel front office Texano. Nel Febbraio 1994 le due parti sembrano pronte a separarsi. I Rockets, infatti, trovarono un accordo con i Pistons per uno scambio che avrebbe portato a Houston Sean Elliott, mandando contestualmente Robert nel Michigan. All’ultimo momento, improvvisamente, l’accordo saltò, complici le già precarie condizioni dei reni di Elliott, che lo avrebbero poi portato poi ad un precoce ritiro. Solo per uno strano caso del destino nacque quindi la leggenda di Big Shot Rob.
Il ragazzo da Alabama iniziò a riscuotere alla cassa già pochi mesi dopo. In una Lega orfana di MJ, c’era molta attesa e curiosità su chi si sarebbe instaurato sul trono vacante. Le squadre di Houston non avevano una gran fama nella postseason, meritandosi l’infausto nomignolo di Choke city, per le tante occasioni perse nei finali tirati. Nelle Semifinali dell’Ovest il cliché sembra ripetersi: Phoenix Suns corsari due volte su due in Texas e serie che appariva ormai andata. Questa volta però i Rockets avevano poca voglia di déjà-vu: tre vittoria di fila e serie portata a termine con successo in gara-7. Domati in 5 partite i Jazz, per Houston ecco l’ambito accesso alle NBA Finals 1994 contro i New York Knicks. La serie fu un’epica battaglia, con Olajuwon a salvare capra e cavoli sul tiro di Starks in gara-6. In un cruento corpo a corpo nella settima e decisiva partita, Horry non si tirò assolutamente indietro. Nel quarto quarto si rese protagonista prima di una spettacolare schiacciata in alley-oop, con annesso urlo in faccia a Charles Oakley, quindi di un difficile layup nel traffico, tutti punti utili alla causa di Houston che strinse i denti, aggiudicandosi partita, serie ed anello. Per Horry, da starter conclamato, era arrivato il primo titolo NBA. Non sarebbe stato l’ultimo.
Nell’annata seguente i Rockets, forse con un po’ di pancia piena, ebbero un avvio balbettante, a dispetto delle 9 vittorie con cui iniziarono la stagione. Neanche l’arrivo a Febbraio di Clyde Drexler contribuì ad un sostanziale cambiamento di rotta, che vide i Texani chiudere solamente col sesto seed della Lega e fattore campo avverso per tutti i Playoffs. Ma “Never underestimate the heart of a champion”, come soleva ripetere la guida tecnica della squadra, Rudy Tomjanovich. Le avvisaglie furono chiare già al Primo Turno contro gli Utah Jazz. Sotto prima 1-0 e poi 2-1, Houston ebbe la forza di reagire, espugnando Salt Lake City in gara-5, rimontando nell’ultimo quarto. In Semifinale contro i Phoenix Suns, i campioni riuscirono a superarsi. Rockets subito sotto per 2-0 e poi per 3-1 e con lo spettro dell’eliminazione vivo davanti ai propri occhi. Horry e compagni non si persero d’animo e diedero vita ad una delle più clamorose rimonte di sempre. Vittoria in Arizona in gara-5, pareggio della serie nella sesta ed incredibile vittoria di un punto in gara-7 a Phoenix, con la tripla vincente di Mario Elie suggellata dal Kiss of Death contro la panca avversaria.
Opposti ai San Antonio Spurs, la zampata di Horry in gara-1 già descritta, che avrebbe dato il la all’interminabile sequela di canestri vincenti del prodotto di Alabama. Superati in 6 gare i nero-argento, con 5 partite decise da vittorie esterne, Houston approdò, quasi inaspettatamente alle NBA Finals 1995 contro gli emergenti Orlando Magic di Shaq&Penny. Big Shot Rob avrebbe fatto capire al mondo intero, una volta per tutte, di che pasta fosse fatto. 19 punti, 8 rimbalzi, 5 stoppate, 3 assist, altrettanti recuperi nell’importante vittoria esterna in gara-1, condita da alcune giocate difensive di immenso valore. Nell’incontro successivo, doppia doppia e, soprattutto, il record ogni epoca per palloni recuperati in una gara di Finale, 7, tuttora imbattuto. Nella terza partita poi, ecco un’altra gemma. Rockets avanti di 1 e col possesso. Olajuwon, a pochi secondi dallo scadere dei 24 e della gara, riapre per Horry, che insacca la tripla della sostanziale vittoria, da cui i Magic non sapranno più riprendersi. Pochi giorni dopo, infatti, Robert festeggiava assieme ai compagni il secondo titolo NBA conquistato.
Passata un’altra stagione poco fruttifera in Texas, Horry venne ceduto ai Phoenix Suns nell’ambito della trade che portò Charles Barkley in Texas. La permanenza in Arizona fu tutt’altro che idilliaca: dopo pochi mesi, infatti, il giocatore ebbe durante una gara un diverbio particolarmente acceso col proprio allenatore, Danny Ainge, ben pensando di lanciargli l’asciugamano in faccia. Ovvia sospensione ed ancor più ovvia cessione. Nel Gennaio del 1997 Robert venne ceduto quindi ai Los Angeles Lakers, ritrovando l’antico rivale Shaq ed un giovane Bryant. Le prime annate in California furono frustrate nei Playoffs da uscite premature e brucianti, due volte per mano dei Jazz ed una per merito degli Spurs. Horry, che in una gara di postseason nel 1997 contro Utah fece 7/7 da tre, altro record intatto, gradualmente iniziò a scivolare nel secondo quintetto, non apparendo però più in grado di poter risolvere le gare come ai tempi belli di Houston. Poi arrivò, per fortuna sua e dei Lakers, Phil.
L’insediamento di coach Jackson nella Città degli Angeli portò ad un rapido cambiamento culturale in seno all’organizzazione. Triple Post Offense, riorganizzazione della difesa, qualche acquisto mirato e tanta convinzione infusa dalle pratiche Zen di Phil. Robert, ormai retrocesso stabilmente in panchina, era sempre chiamato a dare un contributo fondamentale, tanto in attacco che in difesa, dove aveva affinato arti sopraffine che gli sarebbero venute buone contro le altre ali grandi della Lega. Nei Playoffs, dove i Lakers avevano i favori dei pronostici, il suo apporto non poteva mancare, soprattutto nel momento di maggior difficoltà della squadra. In gara-7 delle Western Conference Finals 2000, in casa, contro i Portland Trail Blazers, i giallo-viola si trovarono sotto di 15 lunghezze all’inizio dell’ultimo quarto e con le spalle al muro. Fu lì che prese piede la Dinastia Lakers, con quel parziale devastante dei padroni di casa in cui Horry ci mise lo zampino, con la solita tripla spacca-partita ed una difesa magistrale su Rasheed Wallace. Nelle Finals contro gli Indiana Pacers Shaq fu troppo per la difesa avversaria. Robert, di par suo, giocò una grandissima gara-4, guarda caso quella decisiva ai fini della serie. La resistenza dei coriacei Pacers venne piegata in 6 partite ed Horry potette così fregiarsi del terzo titolo personale.
L’armata giallo-viola raggiunse livelli di assoluta perfezione nel giro di 12 mesi. Dopo aver spazzato la Western Conference nel 2001, qualche grattacapo lo crearono i Philadelphia 76ers di Allen Iverson, capaci di espugnare lo Staples nella prima partita. In Pennsylvania, in gara-3, era giunto nuovamente il turno di Big Shot Rob. Lakers avanti di un punto ad un minuto dal termine ma O’Neal in panca con 6 falli. Horry, appostato in angolo, riceve da Shaw e, senza esitare, insacca la bomba della vittoria, suggellata poi da 4 tiri liberi nel finale concitato. I Sixers non riuscirono più a riprendersi, e pochi giorni dopo arrivava così per lui il titolo numero 4 di una bacheca che iniziava a farsi ormai prestigiosa.
I Playoffs del 2002 rappresentarono l’apice della fama di Robert Horry come giocatore vincente a cui affidare l’ultimo tiro. Nel Primo Turno, contro la solita Portland, in gara-3 nell’Oregon, Los Angeles si trovava sotto di due punti. Bryant, dopo aver battuto dal palleggio Ruben Patterson, scaricò nell’angolo, dove appostato stava il solito sospetto, che segnò così la tripla della vittoria e del passaggio del turno. Superata di slancio San Antonio, la già citata serie contro i Kings. 20 rimbalzi in gara-2, doppia doppia di media, e l’imperitura bomba di gara-4, uno dei momenti sicuramente più esaltanti nella storia recente del gioco. Dopo aver sudato le proverbiali sette (è proprio il caso di dirlo) sette camicie contro Sacramento, i Lakers ebbero decisamente vita più facile nelle Finals contro i New Jersey Nets. Sweep, dominio pressoché assoluto e per Horry, che per sovrammercato aveva difeso in maniera straordinaria per tutta la postseason su Wallace, Duncan, Webber e Martin, la soddisfazione immensa del quinto titolo personale.
Il matrimonio tra Big Shot Rob e Los Angeles si interruppe bruscamente nell’estate 2003, dopo la cocente eliminazione per mano degli Spurs nelle Semifinali dell’Ovest. In gara-5, sul 2-2, proprio Horry ebbe la potenziale tripla della vittoria, ma un beffardo in&out nel ferro ballerino suggellò la fine di quell’incredibile cavalcata, “suggellata” anche da un impietoso 0/18 da tre nella serie. In estate il passaggio proprio ai nero-argento gli permetteva comunque di proseguire la carriera in una squadra con tutti i crismi della contender. Il ritorno in Texas ebbe un sapore dolce-amaro, con l’ironia del destino lesta a bussare alla prima occasione. Stessa altezza nella postseason, stesse squadre ad incontrarsi e stessa quinta partita risolta in modo drammatico. Sfortunatamente per Robert, per il secondo anno di seguito, se ne sarebbe tornato a casa con la parte sbagliata del referto. 0.4 e Derek Fisher furono sufficienti ad estromettere i Texani dalla corsa al titolo, in una delle partite più emozionanti che si ricordi.
Col trascorrere dell’età ed il passare delle stagioni, il minutaggio di Horry, giocoforza, durante la regular season andava diminuendo. Sonnecchiando per interi mesi, Big Shot Rob sembrava quasi disinteressato dalle partite giocate in periodo invernale, “riapparendo” solo coi primi tepori primaverili. In postseason, poi, il suo apporto si faceva sentire ancora in maniera preponderante sugli avversari. Nella stagione 2004-05 San Antonio partiva, come al solito, tra le favorite, anche per il clamoroso passaggio di O’Neal sulla costa orientale. Nei Playoffs della Western Conference Robert aveva battuto qualche colpo, chiudendo diverse partite in doppia cifra per punti o rimbalzi ed aiutando gli Spurs a raggiungere le NBA Finals 2005 contro i Detroit Pistons. Nei primi 4 episodi della serie, tutti blowout a favore della formazione di casa, il prodotto di Alabama aveva inciso in maniera alterna sugli esiti degli incontri, non registrando numeri particolarmente interessanti. Anche nei primi 3 quarti di gara-5 l’andazzo sembrava essere lo stesso, col nostro a quota zero dopo 36 minuti di gioco. Ma in una gara finalmente tirata, era giunto nuovamente il momento di Big Shot Rob. Forse l’equilibrio a stimolarlo, forse gli avversari, forse la situazione di reale pericolo in cui si trovava San Antonio. Fatto sta che Horry esplose letteralmente dall’ultimo parziale in poi. 21 punti, con 5/6 dalla lunga distanza tra quarto quarto ed overtime, con tutte le giocate decisive per salvare capra e cavoli. Nel supplementare fu protagonista di una tremenda schiacciata di mano sinistra subendo il fallo di Rip Hamilton, ma il meglio doveva ancora venire. Come descritto in apertura, Spurs sotto di 2 e Ginobili che sembra essersi cacciato in un buco senza via d’uscita. L’errore, è vero, fu nettamente di Rasheed, che di testa propria optò per il raddoppio, lasciando libero il rimettitore che, ancor peggio, rispondeva al nome di Robert Horry. Il numero 5, col suo stile unico di tiro, sembrò quasi sghignazzare al momento di scoccare la tripla della vittoria, in uno degli ormai “classici” momenti alla Big Shot Rob. Pochi giorni più tardi Horry ne metteva altri 15 in gara-7, dando una consistente mano alla vittoria del titolo per i Texani. In questo modo, saliva a quota 6 anelli, diventando contestualmente, l’unico giocatore della storia NBA (assieme a John Salley) a vincere un titolo con tre squadre diverse.
A 35 anni suonati, e con tale vissuto professionistico alle spalle, le occasioni per dare un ultima pennellata al proprio personalissimo affresco nella Lega si erano fatte ancor più rarefatte. San Antonio, estromessa da Dallas 12 mesi prima, era considerata ormai troppo vecchia per poter far molta strada e rivincere un altro Larry O’Brien Trophy. Eppure, a dispetto di tali scetticismi, i nero-argento avrebbero venduto nuovamente cara la pelle nei Playoffs 2007. Al Primo Turno contro i Denver Nuggets, Horry salì nuovamente alla ribalta. In gara-4 San Antonio è in vantaggio al Pepsi Center di un punto ad una trentina di secondi dal termine e col possesso chiave dell’incontro. Lo schema è chiaro, tutti sapevano chi sarebbe stato il tiratore designato. Big Shot Rob riceve oltre l’arco e, allo scadere dell’azione, segna la tripla della vittoria dalla quale le Pepite del Colorado non seppero riprendersi. Nella serie successiva ecco gli arci-rivali del periodo, i Phoenix Suns di Nash e D’Antoni. La sfida è presentata come la Finale della Western Conference anticipata, equilibrata e senza esclusione di colpi. Negli ultimi momenti di gara-4, coi Suns corsari in Texas e serie ormai sul 2-2, Horry salì nuovamente sul proscenio, con la giocata che avrebbe cambiato l’andamento della contesa. Non con una tripla, una stoppata, una spettacolare sequenza difensiva, bensì con un fallo. Duro, sporco, sleale, mandando Nash a rovinare contro i tabelloni. Il problema, per Phoenix, fu che sia Stoudemire che Diaw abbandonarono l’area tecnica della panchina, nella quale sedevano comodamente con la gara in ghiaccio, ricevendo l’automatica squalifica di una partita, proprio la cruciale gara-5. Pur con Robert sospeso dalla Lega per due incontri, San Antonio riuscì ad avere la meglio in una serie infuocata, pur tra mille polemiche. Superando poi di slancio Utah al turno successivo, i Texani si ripresentavano così all’ultimo atto della stagione, alle NBA Finals 2007 contro i Cleveland Cavaliers di un giovane LeBron James. Nonostante il tanto anticipato incontro tra le vecchie volpi e la nuova superstar, in quella che doveva essere una sorta di passaggio di consegne, la serie non fu proprio uno spettacolo memorabile. 4-0 secco per San Antonio e nuova parata dalle parti di Riverwalk. Horry ebbe un impatto ai minimi termini, ma riuscì comunque a migliorare il personale record di triple messe nelle Finals, con 53 complessive. Ancor più importante, aveva conquistato il settimo anello di una carriera ormai priva di aggettivi, diventando così il giocatore con più titoli vinti nella storia NBA senza aver mai militato nella Dinastia Celtics degli anni’60. Unico.
Un’altra stagione nella Lega, la 2007-08, senza glorie particolari ma buona per fargli superare Kareem Abdul-Jabbar per partite giocate nei Playoffs, record poi perfezionato successivamente da Derek Fisher, prima di appendere definitivamente al chiodo la canotta.
Mai più di 12 punti di media in una stagione (’95-’96), mai oltre i 7,5 rimbalzi a gara (’97-’98), solo una volta sopra il 40% da tre su singola annata (nel 1999, contrassegnato dal lockout). Eppure la carriera di Robert Horry è stata, senza mezzi termini, leggendaria. Solo Michael Jordan e Reggie Miller, forse, hanno segnato più tiri di lui decisivi in postseason, ma il solo vederlo appostato dietro la linea dei tre punti, e col cronometro prossimo allo zero, ha terrorizzato per anni i difensori avversari. E’ vero, ha sempre saputo approfittare degli spazi e delle marcature e/o raddoppi di cui erano vittima ben più quotati compagni, ma il sangue freddo e la glacialità, nonché le grandi qualità difensive, hanno fatto di Robert Horry uno dei giocatori più importanti di sempre nella storia dei Playoffs.
Alessandro Scuto