Categorie: Hall of Famer

The Others – Predrag Stojakovic, o “the Chronicles of Peja”

Prendete una bella giornata di giugno, soleggiata ma non afosa. Una di quelle belle giornate in cui le farfalle si librano leggiadre tra le corolle gialle e turchine dei fiori appena sbocciati, la brezza spira leggera, tiepida e fragrante sul vostro viso e la luce si diffonde calda e allegra su tutta la città, tanto da farvi venir voglia di caricarvi un pallone, un paio di birre ghiacciate e di andarvene con gli amici al parco a godervi il sole. Probabilmente era una giornata così quel 9 giugno del 1977 quando, a Požega, Repubblica Federale di Yugoslavia, la signora Branka, moglie di un certo Miodrag Stojakovic, diede alla luce un bambino, che i due decisero di chiamare Predrag. Erano anni difficili e complessi. Per tutto un decennio la tensione tra i vari gruppi etnici che componevano quella repubblica diversificata e variegata non fece che salire, complice anche il nazionalismo imperante, spinto alle estreme conseguenze, tipico di ognuno di questi gruppi etnici. La morte di Tito, l’unica figura abbastanza carismatica da poter ricomporre tutte quelle istanze nazionalistiche, nel 1980 non fece che complicare ulteriormente la situazione. Con i suoi successori sostanzialmente incapaci di gestire la situazione, sul finire degli anni Ottanta e con l’inizio dei Novanta si giunse al punto di non ritorno. Tutto iniziò in Croazia e Slovenia. Il 19 maggio del 1991 venne convocato un referendum popolare per votare l’indipendenza croata dalla Yugoslavia. Ci fu il 94% di voti a favore. Una percentuale bulgara che diede coraggio agli indipendentisti. Il 25 giugno tanto la Croazia quanto la Slovenia dichiararono l’indipendenza. La reazione serba fu violenta. Il 27 giugno, in Slovenia, scoppiò la Guerra d’Indipendenza Slovena, nota anche come Guerra dei Dieci Giorni, o Guerra del Finesettimana. Una schermaglia, una prova generale di guerra civile, a cui venne posta fine con l’accordo di Brioni del 7 luglio. In realtà si trattava del primo passo verso quella che è stata, a tutti gli effetti, la più violenta e sanguinosa guerra civile del ‘900. In Croazia, infatti, le ostilità sarebbero continuate, tra efferati massacri e cruenti bombardamenti, fino al 1995, distruggendo un paese, due popoli e centinaia di migliaia di vite.

La particolarità, a suo modo drammatica, di una repubblica federale costruita come lo era la Yugoslavia, cioè di una repubblica federale multietnica e multiculturale, è la compenetrazione reciproca, sul territorio di ogni singola “nazione”, delle diverse etnie, spesso tra loro contrapposte per motivi religiosi, culturali, storici, a volte addirittura razziali. Non era insolito in quel periodo che grandi comunità serbe vivessero in Croazia, così come nutrite comunità croate vivevano in Serbia. E di nazionalità serba erano anche i signori Stojakovic, mentre Požega, la città dove avevano sempre vissuto e in cui avevano cresciuto i loro figli, era una città croata. Lo scoppio della guerra sconvolse la vita di tutte queste comunità, e molte persone, non ultimi i signori Stojakovic, furono costretti a fuggire. Fu così che Predrag Stojakovic, per tutti Peja, non ancora quindicenne, raggiunse Belgrado, la città che lo avrebbe accolto e lanciato sul panorama del basket europeo. Straordinariamente dotato sia fisicamente che tecnicamente, infatti, venne notato, sin da giovanissimo, dagli osservatori della Stella Rossa (nome originale KK Crvena Zvezda, vi capisco se preferite non pronunciarlo) che lo portarono in squadra già nella stagione 1991-1992, quella dell’ultimo campionato yugoslavo propriamente detto. Peja aveva 14 anni. Fu una grande stagione per la squadra, che raggiunse la Finale contro gli eterni rivali del Partizan Belgrado, che, allenati da Željko Obradović, avevano già vinto l’Eurolega. Sulla panchina della Stella Rossa, sedeva invece la leggenda del Partizan Duško Vujošević. Fu una serie appassionante, durante la quale entrambe le squadre mostrarono del grande basket. Alla fine la spuntò il Partizan, ma si trattava solo del prologo del cammino trionfale che la Stella Rossa avrebbe intrapreso l’anno successivo. Nel 1992-1993, infatti, la giovane squadra dei Crveno-beli si fece strada di nuovo fino alle Finali contro gli odiati rivali. Grazie a un grande gioco, la Stella Rossa ebbe la meglio in cinque gare, alla fine delle quali il Pionir Hall, il palazzo storico delle squadre di Belgrado, esplose. Era il tredicesimo titolo della Stella Rossa, il primo dopo ventuno anni. Il primo dopo la secessione. Il primo da quando la Yugoslavia non era più unita.

Il gioco di un sedicenne Peja Stojakovic in quella Finale attirò l’attenzione di alcuni club molto importanti, soprattutto quella del PAOK, che militava nella massima lega greca. A Salonicco, dove arrivava ancora minorenne, Peja divenne una star, guidando il PAOK in alcune delle sue annate migliori. Molti occhi cominciarono ad appuntarsi su di lui, mentre metteva insieme numeri importanti, giocando a un livello straordinario e segnalandosi come uno dei migliori giovani d’Europa. Fu così che, al Draft 1996 i Sacramento Kings decisero di sfruttare la loro scelta #14 per draftare i diritti sulla giovane ala serba, in un’operazione molto simile a quella messa in atto quest’anno dai Philadelphia 76ers con Dario Saric, lasciandolo a svernare ancora per un paio d’anni nel campionato greco. Fu una scelta molto oculata. Quegli anni servirono a Peja per far maturare ancor di più il suo incommensurabile potenziale. Soprattutto gli servirono per armare quel braccio formidabile che lo avrebbe reso il tiratore straordinario che tutti abbiamo avuto il piacere di ammirare. Ma il problema di questa strategia è sempre quello di saper capire quale sia il momento esatto nel quale quella scelta lungimirante diventa “materiale da NBA”. Fortunatamente per Sacramento quel momento si presentò da solo, con naturalezza. Era il 6 maggio del 1998. Gara-5 delle Semifinali dei Play-Off della Lega Greca, tra la superpotenza Olympiakos e il PAOK. La serie è sul 2-2, la partita sul 55 pari. Mancano 19 secondi alla fine. La shooting guard dell’Olympiakos si prende una penetrazione difficile, sbaglia il tiro, rimbalzo difensivo PAOK. La palla viene consegnata alle mani di Peja con 12 secondi sul cronometro nella propria metà campo. Lui avanza. Palleggia per quattro, interminabili secondi, occhi negli occhi del suo diretto avversario, in realtà isolandosi da tutto e da tutti, sia in senso mentale che sportivo. Probabilmente già in quel momento sa quello che succederà. O forse no. Si prende altri quattro secondi, avanzando di un lentissimo passo alla volta. Poi, all’improvviso, accelera. È solo lui contro il suo marcatore. Raggiunge la linea dei 6.75, si alza, imperioso e bellissimo come una sentenza, come il Fato, come il fulmine di Zeus, e lascia andare la palla. Sul cronometro c’è scritto 1.0. La traiettoria è sublime, è il punto di incontro più altisonante e maestoso tra la fisica, la filosofia e l’architettura. È un arco iridescente che congiunge quelle mani direttamente con il ferro, e attraverso esso con la retina. Il tempo finisce, la retina si muove, il risultato cambia. 55-58 per il PAOK. Così Peja Stojakovic vinse quella partita. Era la fine di un regno, la caduta degli dèi. Perché l’Olympiakos era l’indiscusso campione di Grecia da cinque anni ormai. Ma prima o poi tutti i regnanti abdicano.

Era giunto il momento per Predrag Stojakovic, in arte Peja, e tutti lo sapevano. Ma prima bisognava concludere quell’avventura, dare un degno finale a quella storia d’amore tra l’ala serba e la squadra greca, una storia d’amore che durava ormai da cinque lunghi anni. In Finale, di fronte al PAOK, si presentò il Panathinaikos. Di fronte a Peja, per uno strano scherzo di quel Fato che per un attimo aveva impersonato qualche giorno prima, c’era Byron Scott. L’ombra di tre anelli si ergeva tra Peja e il canestro, il terrore della maestà di un uomo che aveva diviso il campo con Kareem, Magic, Worthy, Shaq e Kobe gli legava le mani. Non giocò al suo solito livello, ma lottò per quanto possibile. Alla fine il Panathinaikos si portò a casa il titolo, vincendo la serie 3-2, Byron Scott annunciò il suo ritiro, e Peja Stojakovic si imbarcò sull’aereo che lo avrebbe portato a Sacramento, verso un’altra vita, verso l’NBA.

Quando quell’aereo atterrò, però, la storia sembrò farsi meno idilliaca per la giovane ala serba. In quella stagione 1998-1999 c’era il lock-out, e soprattutto, nonostante un tiro morbidissimo e la struttura fisica tutt’altro che gracile (2.08 m per 104 kg), Peja fece fatica ad abituarsi alla nuova lega. Giocò 48 partite, partendo titolare una sola volta, a 8.4 pts, 1.5 ass e 3 rbd in 21.4 min di media, tirando con il 37% dal campo e il 32% da tre. Numeri molto diversi dai 23.9 pts, 2.5 ass, 4.9 rbd della stagione precedente. E l’anno successivo non sembrò migliorare di molto, con 74 partite giocate, 11 da titolare, a 11.9 pts, 1.4 ass e 3.7 rbd in 23.6 min, con il 44% dal campo e il 37% da tre. Ma i Kings avevano un establishment estremamente competente (non a caso guidato da Geoff Petrie, due volte NBA Executive of the Year) e un coaching staff straordinario, agli ordini di Rick Adelman. In quell’estate del 2000 vennero compiute poche mosse estremamente efficaci per rafforzare un gruppo già di per sé estremamente forte: l’ala piccola Corliss Williamson venne spedita ai Toronto Raptors in cambio di Doug Christie, shooting guard e specialista difensivo. Dal Draft, invece, arrivò un giovane ragazzo turco, tal Hidayet “Hedo” Türkoğlu. Grazie a questi movimenti, Peja venne promosso titolare nella posizione di ala piccola, dove avrebbe dimostrato di completarsi alla perfezione con Chris Webber, la grande star della squadra. Con l’apporto del centro serbo Vlade Divac (già Laker), dell’estroso play Jason Williams (arrivato dal Draft 1998) e dell’esperienza di Nick Anderson (già guardia degli Orlando Magic) dalla panchina, i Kings divennero una delle più serie contender al titolo NBA. Il gioco era frizzante, bello e spettacolare, ma soprattutto era vincente (il record a fine stagione sarebbe stato 55-27, il migliore da quarant’anni).

Nel febbraio del 2001 la squadra si prese la copertina di Sport Illustrated, non esattamente il giornalino parrocchiale, che li definì “the Greatest Show on Court”. Chapeau. I numeri di Peja ebbero una vera esplosione: giocò una stagione da 20.4 pts, 2.2 ass e 5.8 rbd in 38.7 min (il secondo giocatore più utilizzato della squadra), in 75 partite, tutte da titolare, tirando con il 47% dal campo e il 40% da tre. Non fu un caso se finì secondo nelle votazioni per il Most Improved Player. Purtroppo, dopo aver brillantemente eliminato i Phoenix Suns con un secco 3-1 al primo turno (prima serie vinta da più di vent’anni), incontrarono i Los Angeles Lakers di Kobe e Shaq. Una macchina da guerra irrefrenabile, che li spazzò via come una delle insignificanti foglie che stavano sul viale tra loro e il titolo NBA. Ma i successi personali di Peja non erano finiti. Raggiunse la nazionale serba e la condusse all’oro europeo in Turchia. Era il 2001. La sua parabola era in costante ascesa.

L’anno successivo, con l’arrivo di Mike Bibby e Brent Price al posto di Jason Williams e Nick Anderson, Peja continuò sulla stessa lunghezza d’onda, macinando punti (21.2 di media) con percentuali altissime (48% dal campo, 41% da tre, career high a entrambe le voci) e guadagnandosi la convocazione per il suo primo All Star Weekend. E specifico Weekend perché non solo Peja, in virtù dei suoi numeri straordinari, avrebbe giocato l’All Star Game, ma avrebbe anche partecipato a uno degli altri contest, quello assolutamente più adatto a lui: il Three-Point Shooting Contest. Infilò 19 punti, una cifra sufficiente a eleggerlo vincitore di quell’edizione. Era la prima volta in assoluto nella storia che il Three-Points Shooting Contest (istituito nel 1985-1986 e vinto per la prima volta da tal Larry Bird) andava a un international player.

Ma quel successo non lo aveva appagato: Peja voleva di più. Voleva il titolo. La stagione regolare finì con le migliori premesse: il record, 61-21, era il migliore della lega, la Sleep Train Arena era stata violata solo cinque volte. I primi due turni di play-off furono una mera formalità: i Jazz e i Mavericks vennero liquidati facilmente (3-1 e 4-1 rispettivamente). Poi ci furono le Finali di Conference. Quelle stesse Finali che sarebbero state ricordate come il più grande matchup della storia. I Sacramento Kings e i Los Angeles Lakers bicampioni uscenti si massacrarono per sette interminabili sfide ad altissima tensione. Tra colpi proibiti, falli cattivi, difese pesanti e veri colpi di genio, la serie andò avanti in una esclation di tensione agonistica e nervi. Le controverse chiamate arbitrali durante tutta la serie (e in particolare in gara-6) fecero addirittura gridare alcuni a un complotto per avere gli ultramediatici Lakers alle Finals NBA piuttosto che la “Cenerentola” Kings. David Aldridge, NBA analyst allora alla ESPN, commentò così i 27, ebbene sì, 27, tiri liberi concessi ai Lakers nel solo quarto quarto di gara-6:

Non c’è nulla che io possa dire che spieghi 27 tiri liberi per i Lakers nel quarto quarto – una quantità impressionante per il suo volume e per l’impatto sulla partita. Mi ha fatto riflettere. Come puoi spiegarlo? Come puoi spiegare una partita dove Scot Pollard fa fallo quando è a due metri da Shaquille O’Neal, o a Doug Christie viene fischiato un fallo in allungo ridicolo proprio come Chris Webber che blocca la transizione a canestro di Bryant, o a Mike Bibby viene fischiato un fallo nel bel mezzo del quarto dopo che Bryant gli ha dato una gomitata sul naso?

Quella serie avrebbe lasciato i suoi segni sui Kings. Dopo quella sconfitta le loro forze sembrarono spegnersi, e la franchigia uscì velocemente dal giro delle contender. Ma Peja non si arrese. Dopo aver vinto, nel 2002, la medaglia d’oro mondiale con la sua Serbia, continuò a dare il massimo per i Kings anche se gli altri sembravano volersi arrendere. Nel 2003 si guadagnò una nuova convocazione all’All Star Weekend, dove vinse per la seconda volta consecutiva il Three-Point Shooting Contest, siglando 22 punti. Ma fu la stagione 2003-2004 a consacrarlo come uno degli astri più luminosi della lega, quando chiuse secondo per punti di media (24.2 a partita, career high), e quarto nelle votazioni per l’MVP, entrando pure nel secondo quintetto All NBA, giocando il terzo All Star Game consecutivo e guidando la lega per triple segnate (240) e percentuale ai liberi (93%).

Fu dalla successiva stagione 2004-2005 che qualcosa cominciò a incrinarsi. Ogni anno Peja aveva perso qualche partita a causa di piccoli affaticamenti, ma non aveva mai avuto un infortunio serio. Quell’anno invece un problema fisico lo tenne fuori per 16 partite, anche se riuscì ugualmente a mettere insieme 20.1 pts di media, conditi da 2.1 ass e 4.3 rbd. Ma la sua avventura in California stava arrivando al capolinea.

Dopo otto anni di amore incondizionato e ricambiato, Peja Stojakovic venne ceduto con il suo contratto in scadenza agli Indiana Pacers il 25 gennaio del 2006, in cambio di Ron Artest (oggi Metta World Peace). Erano i Pacers del post-Brawl, una squadra in smobilitazione generale, senza ambizioni eccessive. Non fu una sorpresa quando vennero eliminati al primo turno dei play-off dai New Jersey Nets, senza che Peja giocasse una sola di quelle quattro partite.

In estate il suo contratto venne rinnovato, ma solo nell’ottica di una nuova trade, che ebbe luogo già durante l’off-season, quando venne spedito ai New Orleans (che poi sarebbero diventati Oklahoma City) Hornets in cambio dei diritti su Andrew Betts. Qui, per uno strano incrocio del destino, incontrò di nuovo Byron Scott, l’uomo che per primo gli aveva impedito di raggiungere un titolo, l’uomo che l’aveva limitato e fermato quando era ancora un ragazzino incosciente che giocava in Grecia. Meno di dieci anni dopo Byron Scott era il suo coach, e credeva fermamente in lui. Questa fiducia lo portò verso un nuovo record: il 14 novembre del 2006 Peja Stojakovic segnò il suo massimo in carriera di 42 pts contro i Charlotte Bobcats. Ma fu una vacua fiammata in un anno deludente. Ben presto i problemi fisici tornarono a tormentarlo, e le operazioni chirurgiche (tra le quali una delicata alla schiena) lo tennero ai margini del campo per quasi tutta la stagione 2006-2007. Nel complesso gli anni agli Hornets non furono affatto esaltanti, vuoi per la scarsa competitività del roster, vuoi perché gli anni passano per tutti e gli acciacchi vanno e vengono sempre più frequenti.

Alla fine Peja Stojakovic rientrò in una trade a più giocatori che, il 20 novembre 2010 portò lui e Jerryd Bayless ai Toronto Raptors, e Jarret Jack, Marcus Banks e David Andersen, sulla strada opposta. Quella canadese fu, per lui, l’esperienza più triste e fallimentare di tutte. Alle prese con i sempre più gravi problemi al collo e alla schiena, il 19 dicembre 2011, Peja Stojakovic annunciò il suo ritiro dal basket giocato, ma dopo aver saltato 26 partite a causa di un infortunio al ginocchio sinistro venne tagliato dai Raptors il 20 gennaio del 2011.

Ma non era ancora un giocatore finito, e nella lega molti lo sapevano. Lo sapeva, soprattutto, il poliedrico Mark Cuban, il più bizzoso dei proprietari NBA che, solo quattro giorni dopo, il 24 gennaio 2011, offrì a Peja Stojakovic un contratto per far parte dei suoi Dallas Mavericks. Finalmente un roster competitivo (con Dirk Niwitzki a fare da portabandiera, insieme a Shawn Marion, Jason Terry, Tyson Chandler, Jason Kidd e Caron Butler), finalmente un’occasione, dopo quella dei fulgidi anni californiani, per portarsi a casa un po’ di quella gioielleria che conta non tanto per il valore monetario, ma più che altro per la gloria. Peja accettò senza remore, conscio che sarebbe stata, in qualunque caso, l’ultima avventura, l’ultimo viaggio. Giocò 25 partite, 13 da titolare, apportando alla causa 8.6 pts, 0.9 ass e 2.6 rbd con il 42% dal campo e il 40% da tre in 20 min scarsi di media a partita. Fece parte di quella cavalcata emozionante e bellissima che portò i texani a trionfare sui Portland Trail-Blazers, sui Los Angeles Lakers campioni uscenti, sugli Oklahoma City Thunder e poi, infine, a prendersi la gloria definitiva sui Miami Heat dei Big Three, con quelle Finals storiche vinte per 4-2. Così Peja si mise l’anello al dito, nel suo ultimo anno da professionista, per chiudere in bellezza una carriera straordinaria.

Dopo quel ritiro, silenzioso e schivo come era sempre stato, se ne andò dagli States, per starsene con la sua famiglia, a Glyfada, un piccolo centro dell’Attica, chiamato anche la “Beverly Hills” della Grecia, dove vive attorniato dall’odore del mare e degli arbusti aromatici della macchia mediterranea, come un guerriero greco delle antiche saghe eroiche, veterano di troppe battaglie, ma infine vincitore.

L’importanza di Peja Stojakovic nella storia del basket non deve essere dimostrata: si racconta da sola, nei suoi numeri e nei riconoscimenti che gli sono stati tributati. Quarto della storia in percentuale ai tiri liberi in carriera (89%), nono per triple mandate a bersaglio (1.760), primo giocatore nella storia NBA a iniziare una partita segnando 20 punti consecutivi per la propria squadra, tre volte All Star, due volte vincitore del Three-Point Shooting Contest, dal 16 dicembre di quest’anno è anche diventato uno dei pochi international players a vedere la propria maglia ritirata da una franchigia NBA, quando il suo #16 è stato innalzato dai Kings, raggiungendo in questo ristretto ed elitario club l’ex compagno di avventure Vlade Divac (il suo #21 ritirato dagli stessi Kings), il grande e sfortunato Drazen Petrovic (il suo #3 è nell’Olimpo dei Nets) e il roccioso centro Žydrūnas Ilgauskas (la sua maglia #11 ritirata dai Cleveland Cavaliers di cui era stato l’anima).

Così si chiudono le Cronache di Peja, un guerriero sfortunato, un oplita silenzioso, soprattutto un uomo che ha saputo farsi amare da una città intera:

Il mio periodo a Sacramento è stato il più bello della mia carriera, e veramente uno dei migliori della mia vita. Sono fiero di quello che avevamo costruito qui e del rapporto che avevamo con i fan e la comunità. I tifosi dei Kings sono i migliori del mondo ed è stato un onore giocare per loro.

Grazie Peja, da Sacramento, dall’NBA e dal mondo intero, sappi che è stato un onore veder giocare te.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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