Categorie: Hall of Famer

The Others – Šarūnas Marčiulionis, o “from Russia with Love”

Kaunas è una città lituana di circa 370.000 abitanti, la seconda più grande della nazione, situata alla confluenza dei fiumi Nemunas e Neris. È principalmente una città industriale e un centro commerciale di una certa importanza, vanta una storia ricca e complessa che risale fino al 1361 e un castello, centro propulsore della crescita della città stessa. Ma soprattutto Kaunas è una di quelle (rare) città d’Europa dove il basket è vissuto come un’esperienza a suo modo religiosa. Se sei un ragazzo e nasci a Kaunas, è più che probabile che il tuo sogno più grande sia quello di andare a giocare nello Žalgiris Kaunas e di portarne i colori sul tetto di Lituania e, possibilmente, d’Europa. Sarà proprio questa città appena descritta (per sommi capi) il primo palcoscenico della storia che stiamo per raccontare. Una storia che inizia il 13 giugno del 1964, quando Kaunas non è ancora una città lituana, ma solo uno dei numerosi centri abitati dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (in arte nota con il più famoso e scenografico nome di URSS). In quel 13 giugno a Kaunas nacque un bambino, che venne battezzato con un nome tipicamente lituano: Šarūnas. Era un bambino attivo, che amava lo sport. Cominciò con il tennis, con l’intenzione, forse, di andare a ingrossare le fila di quella prolifica scuola sovietica che avrebbe prodotto campioni come Andreij Čerkasov, Marat Safin, Anna Kurnikova ed Elena Dement’eva, ma, all’età di 10 anni, qualcosa lo fermò. Crebbe di 11 cm nel corso di una singola estate, diventando troppo alto per gli standard dello sport, e venne respinto. Ma Šarūnas a fare sport ci teneva veramente, così decise di dedicarsi a qualcosa in cui non solo la sua stazza fisica non fosse un problema, ma potesse rivelarsi addirittura un punto di forza. Ed essendo un bambino di Kaunas, la scelta non poteva che essere quella. Basket. Fu subito abbastanza chiaro che era un ragazzo dotato. Aveva un mancino morbidissimo, sposato a una tecnica davvero molto buona e a una fisicità che, per una guardia/ala come lui, non poteva che essere un punto a favore. Caratteristiche che lo avrebbero reso giovane più che appetibile in qualsiasi squadra d’Europa. Ma lo Žalgiris dell’epoca era la fucina dei più grandi talenti lituani, e, quindi, di alcuni dei più grandi talenti dell’URSS, e persino un ragazzo con le indubbie capacità di Šarūnas poteva trovare difficoltà a farsi largo in quella selva di promesse e predestinati. C’era un bivio di fronte a lui: rimanere un giocatore nella media in una squadra stellare, o mettersi in gioco, cercando un’avventura nuova, spingendosi fino ai suoi limiti con l’obiettivo ultimo di oltrepassarli.

L’amore per il gioco era troppo forte, il suo carattere troppo combattivo, e lui non era privo di estimatori. Così, dopo averne parlato con i suoi genitori, Šarūnas scelse l’avventura. Nel 1981, appena diciassettenne, Šarūnas Marčiulionis si trasferì a Vilnius ed entrò a far parte delle file dello Statyba, la grande rivale dello Žalgiris, una squadra che dal 1997 è nota con il più familiare nome (almeno per gli spettatori dell’Eurolega) di Lietuvos Rytas. Il suo esordio nella lega professionistica sovietica fu niente di meno che una folgorazione. Per lui, per lo Statyba che lo aveva ingaggiato, per lo Žalgiris che se lo era lasciato scappare, per tutto il movimento cestistico russo, che si vide apparire davanti un Profeta, benché grezzo e ancora perfezionabile.

Nel 1982 Šarūnas era già parte della nazionale sovietica che, il 28 agosto, in quel di Haskovo, Bulgaria, giocò le finali della decima edizione di EuroBasket juniores contro la Yugoslavia (sempre juniores, è chiaro) di un certo Drazen Petrovic. Una finale che ricalcava perfettamente quella dell’EuroBasket dei “grandi” del 1981, giocata a Praga. Una finale chiaramente vinta (97-87) da quell’armata sovietica nella quale Šarūnas svolgeva (ancora) soltanto un ruolo di contorno. Soltanto l’anno dopo, nel 1983, l’URSS juniores affrontava i pari età degli Stati Uniti nella finale della seconda edizione dei mondiali di basket junior a Palma de Mallorca. Quella partita si risolse in una sconfitta (78-82), ma vi si cominciarono a intravedere i pilastri sui quali l’URSS avrebbe costruito uno dei più grandi overthrow della storia sportiva. Uno era un centro di nome Arvydas Sabonis, l’altro proprio Šarūnas Marčiulionis.

Ma ogni cosa a suo tempo. Dal 1981, quindi, la crescita di Marčiulionis come giocatore fu poderosa e straordinaria, e la cosa doveva rendere molto felici i dirigenti dello Statyba. Nell’estate del 1987 ci fu la scontata convocazione nella nazionale maggiore sovietica per la venticinquesima edizione di EuroBasket, ad Atene. Giunta alla finale, l’URSS avrebbe affrontato i padroni di casa, forte dei favori del pronostico e della presenza di quei due pilastri di cui si parlava poche righe più in su. Ma la Grecia non si dava assolutamente per spacciata: guidata da un Nikos Galis da 40 pts, riuscì a vincere quella partita per due punti (103-101) dopo i supplementari. Fu una delusione e un duro colpo, inutile negarlo. Per questo Šarūnas si gettò subito su nuove esperienze. E la prima di queste, la più grande ed emozionante, lo raggiunse, quasi inaspettata, soltanto otto giorni dopo quella triste partita. Il 22 giugno 1987, infatti, a New York City, si svolse il Draft NBA. Fu un Draft storico: segnò l’ingresso nella lega di David “the Admiral” Robinson, Horace Grant, Reggie Miller, Muggsy Bogues e Mark Jackson, e dimostrò la lungimiranza dell’establishment dei Seattle Super Sonics, che scambiò Scottie Pippen, appena draftato con la scelta #5, con il centro Olden Polynice, scelto dai Chicago Bulls alla #8. Ma qui ci interessa soprattutto che al sesto giro (era un epoca di grandi eventi quella), con la scelta #127, i Golden State Warriors decisero di draftare Šarūnas Marčiulionis, figlio di quella Grande Madre Russia che, non più di quattro anni prima, uno scintillante Presidente degli Stati Uniti che di nome faceva Ronald Reagan, aveva definito “Impero del Male”. Ma in realtà l’unica cosa di cui stupirsi su quella chiamata è che sia arrivata tanto avanti nel Draft. Šarūnas Marčiulionis era un giocatore fondamentale per il suo Statyba e stava dimostrando grandi cose in ambito internazionale con la nazionale sovietica, aveva numeri, tecnica e fisico, oltre a un’incrollabile etica del lavoro e una grandissima lealtà. Ad esempio, sembrava provare per lo Statyba, quella squadra che per prima aveva creduto in lui e gli aveva reso possibile il grande salto nel basket professionistico, un giusto, ma raro, senso di riconoscenza e rispetto. Li ricambiava delle possibilità che gli erano state offerte dando il massimo, per la squadra e per i tifosi, ogni singola volta in cui scendeva in campo.

Ma dopotutto Šarūnas era un ragazzo di Kaunas, e ricordate cosa abbiamo detto sui sogni dei ragazzi di Kaunas? Nel settembre di quello stesso 1987, dopo che i Warriors avevano deciso di ritardare il suo approdo in NBA di un altro paio d’anni, Šarūnas Marčiulionis ebbe finalmente l’occasione che stava aspettando da anni. Arvydas Sabonis, la stella dello Žaligiris, si infortunò gravemente poco prima della FIBA Club World Cup, e il club decise di puntare su di lui per migliorare il roster in vista di un appuntamento tanto importante. Finalmente avrebbe vestito quella maglia che, da bambino, aveva visto muoversi al ritmo delle azioni concitate dei suoi idoli. Finalmente il bianco verde avrebbe accolto il suo #13 e il suo cognome. Ma purtroppo la fiaba non era destinata ad avere un lieto fine. L’assenza di Sabonis pesò moltissimo sulla squadra, che concluse ultima il suo girone e che andò a giocare la sfida per il settimo posto contro i Washington NCAA All-Stars (unica rappresentativa statunitense della competizione), perdendola ingloriosamente per 126-122, mentre la Tracer Milano di un incredibile Mike D’Antoni e di Bob McAdoo andava a vincere la finale sul grande Barcelona di Juan-Antonio San Epifanio per 100-84. Ma prima di lasciare l’Europa Šarūnas voleva stupire, ammaliare, far impazzire d’attesa quelli che dovevano essere i suoi nuovi tifosi. Trovò l’occasione perfetta ai Giochi Olimpici del 1988, a Seul. L’URSS ci arrivava come una delle favorite, ma c’era un lungo cammino da intraprendere, e la prospettiva, sempre scoraggiante, di dover incontrare i Maestri, gli Stati Uniti. In quell’edizione le stelle (rigorosamente ancora non professioniste) della squadra erano Danny Manning, Mitch Richmond, Dan Majerle e, soprattutto, David Robinson, che, sebbene fosse stato draftato come prima scelta già nel 1987, non avrebbe fatto il suo esordio in NBA prima del 1989, per finire l’accademia militare. Gli USA si presentarono ai nastri di partenza freschi e scalpitanti, pronti a dominare. E così fecero per sei partite consecutive, impressionando gli avversari con prestazioni sopra le righe, a volte umiliandoli con più di 40 pts di scarto. Ma poi… Il 28 agosto 1988 il sorteggio mise l’una di fronte all’altra in semifinale le due “superpotenze”: gli Stati Uniti di Robinson contro l’URSS del “quartetto lituanoMarčiulionis-Sabonis-Kurtinaitis-Chomičius.

La riedizione della controversa finale olimpica del 1972 stava per avere luogo in quello sperduto palazzetto di Seul. Nelle teste a stelle e strisce doveva esserci solo l’idea di umiliare gli avversari, di vendicare quella débâcle clamorosa di sedici anni prima. L’URSS rispose con una partita ai limiti della perfezione. Il poderoso attacco statunitense venne arginato e limitato, Robinson fu pedinato da Sabonis in modo metodico, quasi maniacale, l’applicazione offensiva dei sovietici fu straordinaria. Si andò all’intervallo sul 47-37 a favore dell’URSS. Dieci semplici punti di vantaggio sulla carta, una voragine incolmabile per gli statunitensi nella realtà. L’URSS vinse quella partita (82-76), guadagnandosi l’accesso alla finale contro la Yugoslavia di Drazen Petrovic, Vlade Divac e Toni Kukoc, gli Stati Uniti vennero estromessi per la prima volta nella storia dalla finale olimpica. Fu un momento drammatico e bellissimo. Ma c’era un’Olimpiade da vincere, e la missione non era certo più facile ora che i maggiori pretendenti al trionfo finale erano stati eliminati. La finale fu tirata, dura, ma ad un certo punto, l’URSS riuscì a prendere il largo e a vincere, 76-63, quell’oro olimpico. Marčiulionis fu top scorer di quella partita, 21 pts ottenuti con un ottimo 7/11 dal campo, 3/6 da tre e 4/4 ai liberi, il tutto condito da 6 ass e 3 rbd. Questo fu il biglietto da visita con il quale Šarūnas Marčiulionis si volle presentare alle porte della sua avventura in NBA.

Il suo talento non poteva più essere messo in attesa. I Warriors lo portarono oltreoceano e lo inserirono in un roster già molto competitivo, che poteva vantare una stella come Chris Mullin, il rookie, futuro All-Star, Tim Hardaway, il già citato Mitch Richmond e non ultimo quel grattacielo di Manute Bol. In una squadra tanto forte, Šarūnas venne destinato alla panchina, circondato anche da una certa diffidenza per il ruolo che aveva ricoperto nell’eliminazione olimpica della nazionale USA, oltre che per alcune problematiche di natura linguistica (Don Nelson fu costretto ad assumere suo figlio Donnie come interprete, dal momento che Šarūnas non parlava una parola di inglese). Ma aveva qualità impossibili da mettere in discussione, oltre a una personalità magnetica, fatta di disponibilità e generosità, e fin dal training camp si capì che si sarebbe ritagliato il suo spazio. Il 3 novembre 1989, davanti al caldo pubblico dell’Arizona assiepato sugli spalti dello US Airways Center di Phoenix, Šarūnas Marčiulionis fece il suo esordio in NBA, segnando 19 pts in 26 min, partendo dalla panchina in quella che si rivelò una rovinosa sconfitta dei suoi Golden State Warriors 106-136 contro i Phoenix Suns. Il suo gioco incantò, nonostante il risultato finale, e lanciò le sue quotazioni all’interno della lega. All’epoca era davvero difficile per un europeo guadagnarsi spazio all’interno di una franchigia NBA, figurarsi per un sovietico come Šarūnas. Ed è proprio in questo che sta la sua grandezza: il suo talento, la sua abilità, il suo gioco reclamavano quello spazio, uno spazio che non gli venne concesso con facilità, ma che lui seppe andarsi a prendere, lavorando sempre più di tutti, dando il massimo ogni sera, come aveva fatto ai tempi dello Statyba, e come faceva, ogni volta che veniva chiamato, per la sua nazionale.

Già, proprio la sua nazionale. Un cambiamento epocale stava per stravolgere quel punto fermo della vita di Šarūnas. L’URSS era in piena e completa crisi, e la sua caduta come entità politica era ormai prossima. Nel 1989 la nazionale di basket dell’Unione Sovietica si riunì per l’ultima volta sotto il segno di un’unica bandiera (rossa) per lanciare l’assalto alla ventiseiesima edizione di EuroBasket. Il nucleo di quello nazionale era ancora il “quartetto lituano” che a tante gioie e medaglie aveva portato già negli anni precedenti. E di quel quartetto, il giocatore più in forma si dimostrò essere proprio Marčiulionis. Ma il torneo era più arduo adesso, le squadre che vi partecipavano sempre più organizzate e forti. Quando in semifinale l’URSS incontrò la Grecia, si prospettò per Marčiulionis e compagni la possibilità di vendicare la rocambolesca sconfitta del 1987. Ma di nuovo i sovietici non riuscirono a superare gli ellenici, che la spuntarono di un punto per 81-80. La sconfitta mandava l’URSS a giocarsi la finale per il terzo posto contro l’Italia, una finalina lontana dagli standard di quella che era stata una delle più grandi nazionali di basket della storia, l’unica in grado di sconfiggere, per ben due volte, gli Stati Uniti, ma pur sempre una finalina valida per il podio. L’Italia venne letteralmente umiliata, 104-76, e l’URSS, poco prima della sua dissoluzione, vinse la sua ultima medaglia di bronzo.

La carriera NBA di Šarūnas Marčiulionis prese piede velocemente. Dopo un secondo anno martoriato da problematiche fisiche e al di sotto dei suoi standard, nella stagione 1991-92 il lituano (adesso legittimamente tale, dopo l’ottenimento dell’indipendenza da parte della Lituania nel 1990) tirò fuori delle prestazioni straordinarie, viaggiando a 18.9 pts, 2.9 rbd e 3.4 ass di media, e finendo nella lista per il premio di Sixth Man of the Year. Ai play-off però vide il suo percorso interrompersi a causa dei Seattle Super Sonics, che sconfissero Golden State per 3-1.  Poi quell’estate, la gioia probabilmente più grande di tutta la sua carriera.

Fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, Šarūnas aveva lavorato alla creazione di una nazionale lituana che portasse in alto i colori di quella nazione appena rinata e che continuasse quella tradizione vincente che era stata dell’URSS. Aveva convinto giovani prospetti e grandi giocatori (primi tra tutti Sabonis e Kurtinaitis) a sposare il progetto, si era occupato della scelta delle maglie e degli accordi pubblicitari per finanziare la nazionale. Si era comportato, insomma, da vero manager, tutto solo per amore della propria nazione. Di questo amore venne prontamente ricompensato. Alle Olimpiadi di Barcellona del 1992, le Olimpiadi del Dream Team per intenderci, c’era anche la Lituania, al suo esordio internazionale post-URSS. Non vi furono altro che soddisfazioni. Certo ci fu la sconfitta in semifinale, con 51 pts di scarto, ma erano pur sempre gli Stati Uniti gli avversari in quella partita. E poi, nella finale per il bronzo, la Lituania incontrò la “Squadra Unificata”, una squadra nata dalle ceneri di quella che era stata l’Unione Sovietica. Una partita del cuore per quasi tutti i gli uomini in campo, che si vedevano per la prima volta contrapposti. I lituani la spuntarono per 82-78 e portarono a casa la loro prima medaglia internazione, un bronzo olimpico che moltissimi ritenevano irraggiungibile alla vigilia. Per tutto il torneo Marčiulionis aveva tenuto una media di 34.4 pts. Un bel viaggiare, come minimo.

Dalla stagione 1992-93, però, le cose cominciarono ad andare molto male per Šarūnas. In estate era di nuovo con la sua creatura, quella Lituania che aveva così fortemente voluto. Ma Sabonis, compagno di mille avventure, non c’era, infortunato, e nemmeno lui era al 100%. La nazionale intera ne risultò compromessa e non riuscì a qualificarsi a EuroBasket, non andando oltre la fase preliminare giocata a Wroclaw, il “peggior momento della mia carriera” ha avuto modo di confessare lui stesso. Durante la stagione NBA, poi, riuscì a giocare solo 30 partite, fermato da un grave infortunio alla gamba, che non gli impedì di ammassare comunque 17.4 pts di media e di rientrare di nuovo nelle votazioni per il Sixth Man of the Year. Ma l’infortunio era più grave del previsto e lo costrinse a saltare tutta la stagione 1993-94. Quando fu pronto a tornare in campo, i Warriors pensarono di non avere più bisogno di lui. Lo mandarono ai Seattle Super Sonics, in cambio di poco più che niente prima dell’inizio della stagione 1994-95. In quel dello stato di Washington, Šarūnas vide il suo minutaggio enormemente limitato, e quindi, di conseguenza, anche il suo impatto in campo, e non riuscì a dare ai Sonics la spinta in più che sarebbe servita a portarli oltre il primo turno dei play-off (dove vennero sconfitti dai Los Angeles Lakers). L’avventura al fianco di Shawn Kemp e Gary Payton si sarebbe conclusa dopo quella sola stagione, non prima però che Šarūnas Marčiulionis compisse il suo capolavoro assoluto.

La location: Atene. L’occasione: la finale di EuroBasket 1995, tra la sua Lituania e la Yugoslavia. Una partita che si concluse con un fantasmagorico 96-90 a favore dei balcanici, dopo uno show offensivo senza precedenti nel basket europeo. Uno show propiziato dal numero straordinario di stelle che calcavano il parquet dall’una e dall’altra parte. Se la Yugoslavia vinse quella partita fu soprattutto merito di un Sasha Djordjevic in stato di grazia (41 pts per lui, con un quasi irreale 9/12 al tiro pesante), o di un Predrag Danilovic in grado di schiacciare in testa a Sabonis, o di un giovane Dejan Bodiroga da 12 pts, 4 rbd e 3 ass. Ma dall’altra parte la Lituania non si dette mai per sconfitta, guidata dal suo alfiere Marčiulionis, autore di 32 pts, con 11/14 dal campo e da un Sabonis da 20 pts e 8 rbd. Fu una partita frizzante e straordinaria, destinata a restare impressa nelle retine degli appassionati per molti anni ancora, e alla fine della quale, nonostante il trofeo più ambito andasse agli avversari, Marčiulionis ebbe l’onore di alzare la coppa di MVP del torneo.

Ma la sua carriera era agli sgoccioli. Nella stagione NBA 1995-96 giocò per i Sacramento Kings, per i quali mise a segno 10.8 pts di media in 53 partite. Si guadagnò soltanto l’ultima convocazione nella sua nazionale, quando, alle Olimpiadi di Atlanta 1996 la Lituania riuscì di nuovo nell’impresa di conquistare il bronzo.

Poi per Šarūnas Marčiulionis, vi fu solo un ultimo anno di professionismo, la stagione 1996-97, quando giocò 17 partite con i Denver Nuggets, tormentato dagli infortuni, mettendo a segno 6.8 pts di media. Alla fine di quella stagione, capì che era il momento da allontanarsi dal basket giocato. Ma il suo amore per lo sport e per la sua nazione non accennarono nemmeno lontanamente a svanire. Già nel 1993 aveva fondato la Lithuanian Basketball League (e ne era diventato il presidente). Nel 1999 ampliò questo esperimento, fondando la North European Basketball League, una competizione che sarebbe poi stata assorbita dalla Baltic Basketball League.

Nel febbraio del 2014, finalmente, il ruolo straordinario ricoperto da Šarūnas Marčiulionis nell’aprire la strada all’arrivo dei talenti europei nella NBA e i suoi meriti sportivi (e in parte sociali) nei confronti della Lituania e del suo movimento cestistico, sono stati premiati con il più alto riconoscimento possibile per un giocatore di basket: l’8 agosto infatti, insieme a Alonzo Mourning, David Stern e altri personaggi di eccezionale caratura, Šarūnas Marčiulionis è stato inserito nella Niasmith Basketball Hall of Fame. La più degna delle conclusioni per una simile carriera e per un simile uomo, un uomo di una tale determinazione e con un tale amore per il basket che ancora oggi gestisce una scuola di basket per bambini in Lituania e contribuisce a continuare a diffondere quella dolce malattia cestistica che affligge gran parte dei lituani.

Chiudiamo parafrasando, teatralmente e un po’ impropriamente, le parole di V:

Ricorda per sempre Šarūnas Marčiulionis, uno dei primi e più grandi europei in NBA. Non vedo perché di quest’uomo il ricordo nel tempo debba essere interrotto.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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