Categorie: Editoriali NBA

Lo strano caso del Dr. Jason Williams e di Mr. White Chocolate

Non ti pagano milioni di dollari per un passaggio a due mani dal petto. (“Pistol” Pete Maravich)

Lamar Odom guarda verso le tribune, un po’ spaesato. L’espressione sul suo volto è tra l’interrogativo e lo sbalordito. Ha intuito che, esattamente di fronte a lui, a un metro di distanza, è successo qualcosa di non facilmente spiegabile, ma nonostante la posizione privilegiata non è certo che gli occhi non l’abbiano ingannato. Lui, nativo del Queens, cresciuto nei leggendari playground della Mela, a dispetto della giovane età ne ha già viste parecchie su un campo da basket, più di quante la maggioranza dei bipedi ne vedrà mai. Questa però gli mancava. E ancor più gli mancava che l’autore della prodezza possa essere uno che pare capitato alla Oakland Arena per caso, dopo una giornata passata a cavalcare le onde del Pacifico. Come Lamar, anche il pubblico ha intravisto qualcosa di pazzesco ed è in piedi ad applaudire quella specie di surfista prestato, con discreti risultati, alla pallacanestro. Espn deve controllare molte delle sue innumerevoli telecamere per trovare un replay che fughi ogni dubbio: il passaggio dietro la schiena in corsa con la mano sinistra non ha colpito il gomito opposto per errore, e la palla non è finita docilmente nelle mani di Raef LaFrentz, che arrivava a rimorchio e peraltro sciupa l’assist stampandosi contro il difensore, per una casualità. Perché niente di quello che fa quel ragazzino, che da un anno e mezzo sta stupendo una Lega abituata ai talenti più cristallini, è casuale; è quasi sempre molto azzardato, spesso visionario, talvolta, come in questo caso, non immediatamente intelligibile. Casuale o fortuito, neanche per sogno.

“Jason, mi raccomando, ci giochiamo la partita!” “Sì sì coach, vai tranquillo”.

Passaggio di 20 metri dietro la schiena per avviare il contropiede. Palla nelle mani di Otis, che inchioda.

Mentre i mille abbondanti della stipata palestra di DuPont esultano, coach Jim Fout sorride serafico. Che gli vuoi dire a uno così? E’ da quando è un freshman che è titolare inamovibile facendo questi numeri, figuriamoci… Terry Williams è un vigilante. Non è semplice fare questo mestiere nella West Virginia dei ‘70, dove il razzismo e le disuguaglianze sono ancora cruda realtà, le tensioni altissime, le micce sempre pronte a esplodere. Ma a lui tutto sommato è andata bene: ha trovato impiego e abitazione presso la scuola locale, nel quartiere bianco di Belle, per prevenire episodi di vandalismo. E’ qui che nascono e crescono i suoi due figli: Sean, il maggiore, più posato, e Jason, molto più vivace ed esuberante, per non dire iperattivo.

Che non sia il tipico ragazzino bianco del West Virginia, è abbastanza palese fin dalla tenera età. Il fisico gracilino non lo supporta, ma il talento è lì da vedere, accresciuto da un estro, una creatività e una faccia tosta che ricordano più il protagonista di un film di Spike Lee che il figlio di un vigilante. Se la cava egregiamente anche con la palla ovale, dove non può che fare il quarterback, ma è con quella a spicchi che dà il meglio: a 4 anni mostra già un invidiabile ball-handling, a 7 decide che giocherà in NBA. Ancora prima, presumibilmente, si trasferisce in pratica nella palestra della scuola, di cui papà Terry possiede le chiavi, e da cui lo tira fuori quasi a forza a mezzanotte. Passa le giornate a palleggiare con i guanti per migliorare la sensibilità, oppure va al campetto affermando che gli avversari “sembrano Superman”: prima li batte dal palleggio, finta di arrestarsi per tirare, quando loro escono forte con il braccio alzato fa un crossover e appoggia. “Vedi? Proprio come Superman”.

Con i Nineties e i 15 anni il figlio del vigilante inizia a provare quel sottile ma impagabile piacere nello sfidare l’autorità che lo accompagnerà per il resto dell’esistenza, cominciando con il rientrare apposta in ritardo la sera solo per far arrabbiare il padre. E’ solo al liceo (inteso come Dupont Panthers di basket, un po’ meno come percorso di studi) che non si scherza, nonostante uno stile di gioco sempre meno convenzionale che fa un po’ rabbrividire il vecchio e pragmatico Fout: sta perfezionando il suo marchio di fabbrica, il passaggio dietro la schiena, e in campo aperto è letteralmente imprevedibile, anche per i compagni. Solo uno riesce a stargli dietro e ad intuire puntualmente i suoi passaggi immaginifici, e diverrà il suo wide receiver di fiducia, e non solo il suo: è l’Otis di cui sopra, al secolo Randall Moss, che come Super Cracker, com’è soprannominato qui Jason, si diletta sia col basket che col football. Cambia lo sport, non la musica: è sempre Jason to Randy, concluso uno con la schiacciata, l’altro con un touchdown. Se Randall finirà per scriverne un paio anche in NFL, sapete chi ringraziare.

Nell’anno da senior Super Cracker è attorniato da 4 compagni del quintetto in grado di schiacciare, Moss compreso: si vedranno decisamente partite liceali peggiori. Si divertono e divertono, tanto da attirare l’attenzione di media nazionali e un pubblico da college basket: Jason chiude a 18, 10 assist e parecchi atenei sulle sue tracce. La corsa dei Panthers invece termina in finale, mentre maggior fortuna avrà l’amicizia tra Jason e Randy, che prosegue tuttora.

Ma il genio, si sa, è per sua stessa natura di precursore destinato a non essere immediatamente compreso, e il solo approdo al college diventa un mezzo parto, nonostante lo scontato Player of the Year statale e riconoscimenti liceali vari. La scelta iniziale ricade su Providence, non tanto per la qualità comunque buona del programma di pallacanestro, quanto perché Super Cracker avverte un certo feeling cestistico e umano con coach Rick Barnes, che per lui conta più di qualsiasi ambizione di Final Four o Draft. Ma dopo averlo reclutato Barnes riceve la sostanziosa offerta di Clemson, e anche Williams finisce col ritrattare la propria borsa coi Friars, scegliendo di andare per almeno un anno a Fork Union, un’accademia militare sita nella sua Virginia. Non occorre un bookmaker per immaginare quanto possa durare: tre giorni netti, un quiz-vocabolario con 300 parole di cui definire il significato e con l’accademia in linea di massima può bastare così.

Meglio la Division II, dove la visibilità sarà minore ma con essa anche i controlli anti-marijuana, di cui Jason ha sviluppato una discreta passione. Non tale comunque da impedirgli, dopo l’anno sabbatico di rito post cambio di ateneo, di tornare a inventare letteralmente basket in quel di Marshall, sempre in West Virginia, in cui chiude l’anno da freshman con 13.4 punti e 6.4 assist; Barnes è presto dimenticato, sostituito nelle grazie del figlio di Terry dal giovane e dinamico Billy Donovan, soprattutto quando, a sua volta ingaggiato dalla ben più prestigiosa Florida, quest’ultimo offre a Jason le chiavi della regia dei suoi nuovi Gators. Altro anno sabbatico, a provare con scarsi risultati a migliorare un po’ i propri voti, e poi via all’O’Connell Center di Gainesville, a iniziare a costruire le fondamenta di quei Gators che con Donovan finiranno di smerciare solamente bevande energetiche e inizieranno a vincere anche qualche Torneo NCAA, e pure in repeat. I tempi non sono ancora così maturi, ma un contributo inizia a darlo anche Williams, viaggiando a 17.1 punti e 6.7 assist prima di essere sospeso per la citata passione per l’erba. Ha giocato solo 20 gare in Division I, sufficienti però per far uscire a mezza voce il nome di un altro play bianco che a suo tempo sconvolse il mondo del college dal profondo sud della Louisiana. Non sarà l’ultima volta che verrà scomodato come (pesante) paragone del play di Florida.

“Ok pa’, ho capito che vorresti il figlio laureato e cavolate così, ma io sono un giocatore di basket, non certo uno studente”.

Terry dovrà mettersela via: con gli anni persi per strada ormai Jason non è più un teenager, e il treno NBA va preso in età se non puerile, quantomeno verdeggiante. Inoltre la squalifica per il consumo di qualcos’altro di verdeggiante gli impedisce di tornare al college basket, così il figlio del vigilante si dichiara per il Draft 1998, quello in cui i Clippers, i mitici Clippers di Sterling a cavallo dei due secoli, pensano bene di usare la prima scelta assoluta per Michael Olowokandi. Su Williams i dubbi non sono pochi, a cominciare dall’età (quasi 23 anni) per arrivare ai limiti fisici e difensivi e alle perplessità sul suo stile tanto spettacolare quanto stravagante e forse non adattabile alla Lega, ma la Draft class è piuttosto povera di point guard e i Kings, a cui ne serve una come il pane, fanno il suo nome alla numero 7.

Considerato un azzardo, finiranno per pentirsi maggiormente della propria scelta i Clips, visto che dopo il lockout Williams prende subito la regia dei nuovi, giovani Kings di Webber, Divac e coach Rick Adelman, chiudendo l’anno da rookie con oltre 12 punti e 6 assist e riportando la squadra ai playoff, dove riescono pure a portare i favoritissimi Jazz degli ultimi Stockton-to-Malone alla decisiva gara 5. La strada è quella giusta, con l’arrivo dei vari Stojakovic e Christie Sacramento migliorerà inesorabilmente il proprio record fino al 55-27 e secondo turno playoff del 2000/2001, in cui arriva anche la celeberrima copertina di Sports Illustrated; il play di quel grandissimo show sul parquet ormai non è più Jason Williams, è White Chocolate, il ragazzo bianco che gioca come un afroamericano al Rucker. La sua intesa con Webber è se possibile ancora migliore di quella che aveva al liceo con Moss, il behind back è di nuovo usato e abusato da tutti e in generale i suoi passaggi immaginifici lo rendono uno dei giocatori con più hype della Lega intera, l’Arco Arena e i suoi campanacciari stravedono per quelle giocate sempre al limite ma in grado di infiammare pubblico e giocatori in un secondo.

Ma i Kings iniziano a considerare il fatto di avere veramente un gruppo che può vincere l’anello, e le giocate di White Chocolate, per quanto esaltanti se portate a compimento, generano anche non poche palle sul classico muro (o nelle prime file, in questo caso). Proprio nel 2000/2001, col più ordinato Bobby Jackson a premere per i minuti in regia, Williams chiude con numeri sensibilmente in calo (9.4 punti e 5.4 assist), e non si aiuta certo con un’altra sospensione di 5 gare per consumo di erba e soprattutto con un diverbio con un tifoso, apostrofato con pesanti insulti verso la propria origine asiatica e la propria sessualità: nella Lega attuale e il suo clima talvolta tendente alla caccia alle streghe avrebbe rischiato grosso, all’epoca se la cava con 25.000 dollari di multa, ma l’episodio rimane poco edificante e i Kings scelgono quindi di privare i propri tifosi del loro beniamino, per prenderne peraltro un o che qualcosa di buono farà pure come Mike Bibby da Vancouver.

L’esilio canadese non arriverà per White Chocolate, perché proprio in quel 2001 i Grizzlies si spostano a Memphis, ma l’esilio tecnico rimarrà invece tale, col passaggio da una delle squadre emergenti della Lega a una delle più disastrate, solo in parte risollevata dal vecchio Hubie Brown. Peccato che l’anziano coach, e ancor di più il figlio assistente Brendan, non stravedano per la gestione non certo tradizionalista del play da Florida: prima arrivano le panchine, poi le litigate in diretta nazionale, e la situazione non migliorerà neanche con il nuovo coach Mike Fratello, peraltro noto sergente di ferro e dunque non propriamente la figura ideale per Jason. In pochi anni il fu White Chocolate, il giocatore più esaltante della Lega nonché ottimo prospetto di una squadra emergente, è diventato un comprimario bizzoso di cui anche Memphis ormai si vuole liberare.

Quando nel 2005 Williams finisce sul mercato, a farsi avanti inizialmente è Boston. I Celtics sono nel pieno di una ricostruzione in seguito bruscamente accelerata dai colpi Allen e Garnett, ma White Chocolate in quel momento ha un brivido lungo la schiena, perché si rende conto che i biancoverdi vogliono prenderlo solo per vendere qualche biglietto in quegli anni di vacche magre: il suo gioco entusiasma ancora i tifosi, ma l’ha reso ormai una sorta di fenomeno di baraccone della Lega, buono solo per il divertissement del pubblico, non certo per vincere. Ne ha abbastanza, e a soccorrerlo arriva un vecchio e prestigioso amico: nel 1998, al pre-draft camp di Orlando, leggenda vuole che la star dei Magic Penny Hardaway abbia avuto l’ardire di sfidare quel play della locale Florida dal gioco tanto rivoluzionario in uno contro uno, e ne sia uscito con le ossa rotte, complice peraltro un ginocchio che stava iniziando a fare crack sul serio. Con lui presenziava un ex compagno dei Magic che rimane folgorato dal bianco che gioca come un afroamericano: da lì in poi, divenutone anche amico nonché vicino di casa nelle off season a Orlando, Shaquille O’Neal avrebbe più volte richiesto l’arrivo di Jason, prima ai Lakers (in cui GM era proprio Jerry West che in effetti lo prenderà, ma ai Grizzlies) e poi, dopo il suo ritorno in Florida sponda Heat, a Pat Riley. L’ex timoniere dello Showtime non può certo tirarsi indietro, e nell’estate del 2005, tramite un maxi scambio a 5 squadre e 11 giocatori coinvolti, il Diesel è finalmente accontentato.

La sola presenza di O’Neal all’epoca rendeva ogni squadra in cui giocasse automatica contender, e il supporting cast di veterani quali Gary Payton, Antoine Walker, James Posey e Alonzo Mourning non faceva che rafforzare quest’ipotesi, come pure la presenza di un fenomenale terzo anno come il Dwyane Wade dal fisico ancora integro. All’interno di un gruppo del genere non erano dunque pochi i dubbi sul ruolo di Williams e sulle possibili ripercussioni che il suo carattere non sempre semplice avrebbe potuto avere; ma l’ex Gator ha ormai trent’anni, e sa che potrebbe essere l’ultima occasione concreta di assalto al titolo. Si mette dunque al servizio della squadra, diventando più disciplinato, evitando numeri troppo azzardati e limitandosi a servire Wade o Shaq in post: il risultato è, contro ogni aspettativa considerando la sua natura, un perfetto role player, di quelli fondamentali come se non di più delle stelle designate per chi vuole vincere. E lo dimostra pienamente nei playoff del 2006, quando pur non piazzando numeri pazzeschi (9 punti e 4 assist in poco meno di 30 minuti di utilizzo) gioca con una solidità mai vista prima, tenendo benissimo anche con mostri sacri come Jason Kidd e Chauncey Billups. Dopo questi clienti il povero Devin Harris è quasi una passeggiata, e il suo contributo risulta preziosissimo anche in una Finale che Miami a un certo punto aveva sostanzialmente perso (sotto di 13 nell’ultimo quarto di gara 4 con la serie sul 2-1 per i Mavs), raddrizzata di peso da un Flash stratosferico, i cui scudieri si chiameranno però Zo, Glove e White Chocolate: con quest’ultimo che, al sospirato anello, aggiunge la soddisfazione di togliersi la fama di Globetrotter prestato alla Lega.

Finirà col trascorrere gli ultimi anni di carriera nella calda Florida, tra gli Heat velocemente azzoppati dai problemi fisici di Wade e Shaq e gli emergenti Magic di Dwight Howard, nello Stato del più tipico svernamento americano. Proprio lui, che era sempre stato l’antitesi della convenzione e dell’uso comune, ma che in fondo aveva già riportato il suo gioco su binari più legati alla norma condivisa per un fine superiore come il titolo. Dopo la meteora del ritorno a Memphis (11 gare nel 2011), i numeri finali diranno 10.5 punti e 5 assist di media in carriera. Numeri da comprimario qualsiasi in NBA, tipici di un giocatore che, in effetti, non ha mai giocato nemmeno l’All Star Game, e che non sarà certo un Hall of Famer.

Ma quello degli ultimi anni non era il vero Jason Williams, il giocatore idolatrato dall’ARCO Arena in grado di passare la palla con il gomito; o meglio, lo era, ma non era più White Chocolate, il play che intendeva il basket nella sua componente più dionisiaca. E che non può essere giudicato con i freddi numeri: la creatività non è quantificabile, non esiste alcuna statistica che misuri l’estro. La pallacanestro è tecnica, tattica, fondamentali, ma talvolta può essere, forse deve essere, anche spettacolo, istinto, rischio, singola giocata: altrimenti sarebbe uno sport praticato da automi senza alcuna componente d’imprevedibilità a rendere le partite veramente degne di essere seguite. Lo sapeva J-Will, lo sapeva prima di lui “Pistol” Pete Maravich, scomodato quando Williams era a Florida per un paragone che chiaramente non può reggere, se non sul piano della pura personalità creatività, di un modo di intendere il basket che va ben al di la di schemi e numeri (peraltro non proprio da buttare per quanto riguarda il play di Louisiana State).

Oggi Williams il titolo l’ha vinto, e si gode la pensione lontano da sirene di rientro in qualche Lega straniera o addirittura di ruolo tecnico/dirigenziale che poco gli si addice. Ma ogni tanto torna in campo per qualche partita d’esibizione: e nonostante l’età, il passo evidente da quasi 40enne, gli avversari talvolta da YMCA, non è Williams ad andare in campo, è di nuovo White Chocolate, quello di Sacramento. A ricordarci, in una Lega sempre più dominata da tattica e playbooks, che il basket non è certamente l’And One Mixtape o gli Harlem Globetrotters, ma nemmeno equazione matematica fatta unicamente di freddi e vuoti numeri.

Sono i tipi eccezionali a far girare il mondo. Loro fanno miracoli, mentre noi ce ne stiamo con il culo ammollo. (Charles Bukowski)

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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