Tra le squadre non esattamente esaltate dai rispettivi avvii di stagione, ce n’è una in particolare i cui tifosi avevano in mente ben altri scenari di gloria dopo 2 mesi di regular season. Sì, perché a Cleveland i sostenitori dei Cavaliers si erano prefigurati ben altro andamento dei propri beniamini nella stagione NBA 2014-15. Soprattutto, dopo le arci-note acquisizioni estive di LeBron James e Kevin Love.
Le cose, a dispetto di un roster molto intrigante, non sono andate per il verso giusto sinora nel Nord Ohio. Già in sede di pronostici pre-stagionali avevamo ipotizzato, come worst case scenario di questa squadra, una falsa partenza alla ricerca dei giusti meccanismi e che avrebbe potuto compromettere il record finale e relativo seed nei Playoffs. La realtà dei fatti, allo stato attuale, è forse però peggiore di quanto si potesse prevedere.
Infortuni, chimica di squadra, fase difensiva, rapporti all’interno dello spogliatoio, lunghezza della rotazione: tutti questi fattori, combinati tra loro, hanno portato ad un andamento sinora molto rapsodico, impedendo di fatto ai Cavs di trovare una giusta continuità. Strisce di 4 ed 8 vittorie (coincise col momento migliore, a cavallo tra Novembre e Dicembre) e di 4 e 3 sconfitte consecutive, che hanno portato al record attuale di 19-17, valevole per il quinto posto nella non sempre irreprensibile Eastern Conference. Cleveland attualmente è nel mezzo di una striscia di 7 battute d’arresto nelle ultime 9 gare giocate, con un minaccioso viaggio ad Ovest che si profila all’orizzonte.
James e soci sono stati in grado di portare a casa qualche scalpo eccellente, battendo i Bulls (senza Butler), 2 volte i Raptors, Washington, Atlanta e Memphis (senza Randolph), subendo però clamorosi manrovesci anche tra le proprie mura (-17 contro i Raptors, -29 contro gli Hawks, -23 contro i Pistons) e palesando una cronica incapacità a gestire vantaggi in doppia cifra, spesso e volentieri smarrendoli anche contro formazioni non sempre di primo piano.
Le motivazioni, come accennato in precedenza, sono molteplici e di non facile risoluzione.
Sul banco degli imputati, in primo luogo, troviamo la difesa implementata da coach Blatt in questa sua avventura nell’Ohio. Cleveland subisce in media 99,5 punti ad incontro, diciassettesimo valore della Lega, e si trova alla posizione numero 23 per defensive rating, con quasi 108 punti incassati su 100 possessi. Gli avversari, in generale, tirano con quasi il 47% contro i Cavs (fanno peggio solo Minnesota, Lakers e Miami), salendo addirittura ad un esorbitante 56% al ferro, penultimo valore NBA e superato, di un pelo, solo dai soliti T-Wolves. Se si nota come la squadra sia ultima anche per percentuale concessa nella fascia di campo tra i 5 ed i 6 metri e che da 3 si subisca col 35% di realizzazioni, si capisce come la coperta sia corta, molto corta. Sarebbe molto riduttivo attribuire il tutto all’assenza di un vero big man, uno stoppatore che respinga al mittente i tiri avversari ed intimidisca con una certa regolarità. Sicuramente un elemento del genere viene a mancare guardando il roster attuale, aspettando l’inserimento di Mozgov, ma è altrettanto vero che i difensori sugli esterni non fanno certo un lavoro egregio, consentendo il più delle volte facili penetrazioni che forse manco il Russell dei bei tempi avrebbe potuto arginare. E’ tutto il sistema di Cleveland a difettare nella propria metà campo, con meccanismi tutt’altro che collaudati e che portano a conseguenze nefaste in termini di importanti stop difensivi, soprattutto nei momenti chiave. Spesso la difesa dei Cavs viene messa in crisi già dai primi passaggi degli attacchi avversari, rincorrendo per tutti i 24 secondi in situazioni di scramble e lasciando buoni tiri in varie zone del campo, sia per pigrizia che, per paradossale, per eccesso di attività. La stessa letargia ha sconsigliato l’uso della zona, marchio di fabbrica di coach Blatt, troppe volte eseguita con superficialità e subito bucata con troppa facilità.
In attacco le nubi si schiariscono per Cleveland, anche se si è ben lungi dall’aver trovato la definitiva quadratura del cerchio. La squadra ha il sesto valore per offensive rating della Lega, segnando inoltre quasi 101 punti per gara (posizione numero 17). Le percentuali di tiro sono discrete, non eccezionali, ma a queste sopperisce una buona copertura a rimbalzo offensivo (undicesimi per percentuale), specialità in cui è emerso con prepotenza Tristan Thompson, vero demonio sotto le plance avversarie. Abbandonata in fretta e furia ogni velleità di Princeton Offense, sostanzialmente intravista solo nell’opener contro i Knicks, l’attacco di Blatt, col solito pace factor basso (valore numero 26 in tutta la NBA), riesce ad esprimere il suo meglio, abbastanza lapalissianamente, quando la circolazione del pallone raggiunge i massimi livelli. Quota 30 assist, la soglia minima dichiarata, è l’ambizione di questi Cavs sin dalla prima palla a due stagionale; quando è stata raggiunta, si è vista una fase offensiva molto fluida, basata sulla continuità e avvalendosi di buoni/buonissimi trattatori del pallone. Viceversa, in tante occasioni, l’attacco è stato stagnante, ricorrendo più a 1vs1 e ricerca dei mismatch, non sempre con l’esito sperato. In post basso, soprattutto nelle prime settimane, Love usufruiva di tante ricezioni per attaccare il proprio avversario, anche se i compagni stavano per lo più a guardare, senza effettuare tagli o muoversi sul lato debole. D’altro canto, confrontandolo agli anni in maglia Heat, si sono rarefatte le stesse situazioni che però coinvolgono James, una delle chiavi dei successi di Miami e valida analisi di lettura per spiegare il 48,8% dal campo del numero 23, peggior dato dalla stagione 2007-08. Certo, con i nuovi Big Three era preventivabile qualche momento di “down”, considerando che il saper coesistere in un attacco strutturato, senza dover “aspettare il proprio turno” o fare la conta di quanti tiri vengono presi, sono situazioni che verranno assimilate solo con esperienza e col prosieguo della regular season, soprattutto per Love ed Irving. Se il secondo è stato qualche volta accusato di esser stato troppo realizzatore e poco assistman, per quanto il facilitatore massimo non può che essere LBJ, il primo non sta tirando particolarmente bene dalla distanza ed a volte il suo coinvolgimento è un filino monotematico. In generale, comunque, il talento è tanto ed è stato più o meno confermato in questi due primi mesi di stagione.
Per quanto riguarda la voce infortuni, Cleveland non è stata particolarmente fortunata sin qui. L’assenza più pesante è quella di Anderson Varejao, la cui stagione è stata bruscamente conclusa da un problema al tendine d’Achille. Senza il medusone brasiliano la squadra ne ha perso sia in difesa che in attacco. Nel primo caso, per la mancanza di un vero corpaccione nei pressi del canestro, in grado di metterci stazza, voglia di subire sfondamenti e di difendere in post contro i centri avversari. Nella metà campo offensiva, invece, l’assenza di Varejao si farà sentire non soltanto per i rimbalzi offensivi catturati, quanto per la maestria nell’eseguire il roll dopo il blocco, dando profondità all’attacco con ricezioni profonde spesso innescate da James con passaggi laser e frutto dei tanti anni di reciproca conoscenza. Anche LBJ sta vivendo una situazione particolare, raramente verificatasi nel suo decennio di permanenza nella Lega, ossia il dover restare fermo per settimane a causa di problemi a ginocchio e schiena, stesse situazioni attraverso cui sta dovendo passare anche Irving. Senza il numero 23 la franchigia dell’Ohio ha compilato un record di 1-6. Infine, anche il generoso australiano Dellavedova, ha dovuto saltare un mese per un infortunio al ginocchio.
Capitolo Blatt: è chiaro che qualcosa non stia funzionando e che lo spogliatoio non sia concorde col nuovo allenatore. Troppi gli spifferi trapelati sulla stampa, troppe le chiacchiere su possibili dissensi interni, troppi i riferimenti a come i giocatori siano più ricettivi nell’ascoltare le direttive di Tyronn Lue, l’assistente più pagato nella Lega. Anche nel suo esordio a Treviso Blatt aveva vissuto momenti sul filo del rasoio, finendo poi col vincere lo scudetto al termine della stagione. Il compito qui è ovviamente più arduo, ci vuole ancora pazienza e tempo prima di poterne valutare appieno l’operato, ma, tralasciando le dichiarazioni di facciata, potrebbe essere plausibile che non siano tutte rose e fiori, a cominciare proprio dal rapporto con LeBron. A Miami, nei primi mesi, analoga situazione era, con ogni probabilità, avvenuta anche con coach Spoelstra, ma lì c’era il lavoro dietro le quinte di Pat Riley a tenere tutti uniti, figura che parrebbe mancare al momento in Ohio.
Prima ancora delle statistiche avanzate, delle nuove analisi numeriche, della sequenza di infortuni e dei possibili risvolti in fase di mercato, c’è un aspetto di questi Cavs che non è stato particolarmente positivo in questa stagione: l’atteggiamento. A questa squadra, sin dall’esordio contro New York, è mancato un quid, un qualcosa che va al di là delle fredde cifre e calcoli ma che è stato particolarmente evidente osservando le partite. Non è mai scattata sinora, tranne in qualche rara occasione e/o per spezzoni di gara, una scintilla vitale, un volersi divertire e voler giocare assieme che invece era stato lampante, per tornare ad altri recenti esperimenti di terzetti All-Star, nella Miami prima edizione o nei Celtics campioni del 2008. Questi Cavs, tralasciando il record e le sconfitte, assai di rado hanno fatto vibrare i cuori del pubblico, sempre numerosissimo, della Quicken Loans Arena o sputato sangue per tutti i 48 minuti di un incontro. Al contrario, tante volte sono state osservate situazioni diametralmente opposte, con rientri inesistenti in difesa, occhi bassi, incapacità di reagire o cambiare passo, giocando spesso con l’atteggiamento tipico delle contender che si amministrano in vista dei Playoffs. Il problema è che questa squadra, per la maggior parte del roster, non ha manco lontanamente il pedigree per permettersi un approccio simile alle partite, ed avrebbe bisogno, tra le varie cose, di una scossa e di una consistente dimostrazione di leadership da parte dei veterani più stagionati, a partire dallo stesso James.
Dopo tante voci di mercato, susseguitesi sin dalle prime settimane, la prima “bomba” è stata sganciata: in un giro a tre via Dion Waiters, finito ad OKC, e dentro dai Knicks Iman Shumpert e JR Smith. Cleveland così lascia andare un talento puro ma tante volte bizzoso, con la colpevole aggravante di far arrestare la circolazione del pallone spesso e volentieri. La squadra ora è più profonda, ma bisognerà vedere sia come si inseriranno i nuovi arrivati, sia sciogliere alcuni dubbi di carattere fisico in un caso (Shumpert è fuori da metà Dicembre per un infortunio alla spalla) e comportamentale in un altro. Dal versante big man, sfruttando due prime scelte (di OKC e Memphis), dai Denver Nuggets è in arrivo Timofey Mozgov, a garantire tonnellaggio e consistenza sotto canestro. Non da escludere, tuttavia, anche qualche altro movimento in tal genere sempre per un big man, magari raccattando qualche taglio da altre formazioni. Sta ora a Blatt, con questo nuovo rimodellamento del roster, trovare, finalmente, la quadratura del cerchio.
A fragile team: con queste parole, pronunciate da James, si può esemplificare quanto fatto vedere sinora dai Cleveland Cavaliers 2014-15. I lavori sono ancora in corso, vanno più a rilento di quanto ci si potesse aspettare ma ancora di palloni da rincorrere ve ne sono parecchi. E’ importante che, una volta trovata la salute degli attori principali ed effettuati gli aggiustamenti del roster, tutti, da LBJ in giù, diano un’ulteriore scossa a questa squadra, anche per recuperare terreno contro le rivali della Eastern Conference. La giuria è ancora in camera di consiglio, tra qualche mese avremo un responso più accurato.
Alessandro Scuto