La cosa più straordinaria della NBA è, probabilmente, la sua capacità di adattamento. Non è un mistero infatti che il tempo, e le circostanze, abbiano apportato dei profondi cambiamenti al modo di giocare a basket, soprattutto nella lega più spettacolare del mondo. L’NBA del 2015 non è più quella dei Nineties, che era già molto diversa dall’NBA degli anni ’70-’80, quelli che fecero la fortuna della lega. Tra questi cambiamenti, i più vistosi riguardano, forse, il ruolo di big man. Se le prime grandi superstar della NBA infatti avevano ricoperto proprio il ruolo di centro (pensiamo ai vari George Mikan, Bill Russell, Wilt Chamberlain e Nate Thurmond), al giorno d’oggi, dei circa 450/500 giocatori che militano nelle trenta franchigie NBA, soltanto tre o quattro possono essere considerati dei centri dominanti (o potenzialmente dominanti) nel vero senso del ruolo (pensiamo, chiaramente, a Dwight Howard, e con lui a DeMarcus Cousins, Andre Drummond e Marc Gasol). Un’inversione di tendenza che è andata di pari passo all’aumento dell’importanza del gioco perimetrale e del tiro pesante, e quindi, degli “specialisti” (uno tra tutti, solo per fare un esempio, Kyle Korver). Ma, nonostante questo, il ruolo di centro ha vissuto la sua epoca d’oro tra gli anni ’80 e i ’90, quando sui parquet made in USA si davano battaglia giganti del calibro di Patrick Ewing, David Robinson, Hakeem Olajuwon, Shaquille O’Neal, Alonzo Mourning, Dikembe Mutombo e Yao Ming. In questa lunga schiera di nomi, centimetri e gioco duro si inserisce a pieno titolo anche uno dei più grandi rappresentanti del basket europeo. Un rappresentante di 220 cm per 130 kg di muscoli, rispondente al nome di Arvydas Sabonis.
Arvydas era nato a Kaunas, Unione Sovietica (poi Lituania), il 19 dicembre del 1964, durante un inverno rigido e freddo, di quelli che colpiscono le sponde del Baltico e la Scandinavia, e di quell’inverno portò sempre il marchio. Fu inesorabile, imponente, incontenibile, colossale come solo le nevi e i ghiacci e il freddo siberiano sanno essere. Aveva personalità, un’aria intimidatoria, un fisico straordinario e innate capacità di leadership. Ma stranamente, nonostante quel fisico, nessuno pensò di mettergli in mano una palla a spicchi prima che compisse tredici anni. Il colpo di fulmine e il talento innato fecero tutto quello che qualche anno di pratica non aveva fatto. In poco meno di due anni Arvydas Sabonis divenne l’anima e la guida della nazionale juniores dell’Unione Sovietica. All’epoca non sapeva quanto grande sarebbe stato il suo futuro con quella maglia, e che impresa avrebbe realizzato alle Olimpiadi del 1988. Ma la sua carriera professionistica doveva ancora incominciare. Nel 1981 venne ingaggiato dallo Žalgiris Kaunas, la più grande tra le squadre del campionato sovietico, del quale divenne sin da subito uno degli uomini simbolo, giocando stagioni sontuose, vincendo tre titoli sovietici consecutivi e segnalandosi agli occhi di tutti gli osservatori europei e anche di alcuni di quelli oltreoceano. Durante un tour d’esibizione contro alcune squadre di college americane nel 1982, a 17 anni, un Arvydas Sabonis indiavolato sottomise nel vero senso del termine Ralph Sampson, centro titolare di Virginia, uno dei prospetti più quotati dell’epoca e futura prima scelta assoluta al Draft 1983, oltre che raro caso di uomo più alto di lui (224 cm a 220). La prestazione incantò allenatori collegiali (Dale Brown cercò di fare pressione per averlo a LSU) e osservatori. Bob Knight lo consacrò, dichiarando che “potrebbe essere il miglior giocatore non Americano che io abbia mai visto”. Nonostante le evidenti difficoltà politiche, l’incondizionata stima di tanti “addetti ai lavori” convinse anche l’establishment degli Atlanta Hawks che, nel Draft del 1985, al quarto giro, utilizzarono la loro scelta #77 per ingaggiare il giovanissimo centro sovietico. Ma Arvydas aveva ancora vent’anni, e all’epoca nella NBA vigeva una regola (ferrea) che imponeva un limite minimo d’età di ventuno per poter essere draftati. Per questo motivo la lega cancellò d’autorità il trasferimento di quel prospetto stellare tra le accoglienti braccia della capitale della Georgia. Arvydas se ne fece velocemente una ragione, con l’umiltà e la forza di spirito che da sempre lo caratterizzavano e continuò a macinare comodamente gioco, punti e rimbalzi nel suo amato Žalgiris, finché un giorno…
La sua stazza importante non aveva mai fatto il paio con una particolare resistenza fisica, e le sollecitazioni e i contatti a cui, per il ruolo in cui giocava, era continuamente sottoposto gli avevano sempre causato dei piccoli infortuni, ma poi, sul finire della stagione 1985-86 venne fermato da un dolore lancinante al tallone, mentre lo Žalgiris raggiungeva la finale di Eurolega. La diagnosi? Rottura del tendine d’Achille. Molti pensarono che la sua carriera fosse finita, che le sue luminose possibilità fossero state stroncate impietosamente. Abbiamo detto “molti”, non tutti. Tra i pochi che ancora ci credevano c’era il GM dei Portland Trail-Blazers, tal John Spoelstra (il padre di Erik Spoelstra, oggi al timone dei Miami Heat), che, ottenuta via trade l’ultima scelta (la #24) del primo giro del Draft 1986, decide di rischiare tutto e fece chiamare il nome di Arvydas Sabonis from the Soviet Union. Quello di quell’anno non fu un Draft particolarmente fortunato, e si cominciò a capire abbastanza presto, quando Len Bias, draftato dai Boston Celtics con la scelta #2, morì per overdose due giorni dopo quella chiamata. Un dramma personale, anche se molto meno tragico di questo, lo stava vivendo anche Sabonis. Vista infatti la situazione politica non del tutto idilliaca tra la natia Unione Sovietica e i destinatari Stati Uniti d’America, con Gorbaciov fresco di ascesa alla Segreteria del Partito, la Perestrojka lontana persino dal concepimento e il muro di Berlino graniticamente in piedi, a nessuno venne in mente di concedere ad Arvydas di andarsene serenamente a giocare a casa dei rivali di sempre. Le richieste per un permesso di trasferimento vennero sistematicamente rifiutate, ma a Sabonis venne comunque concesso un viaggio a Portland. L’obiettivo era quello di cercare di recuperare la sua gamba (e la sua carriera) da quel tremendo infortunio. In Oregon Arvydas venne praticamente ricostruito da zero dal sapiente medical staff dei Trail-Blazers, ma la sua importanza all’interno del roster dello Žalgiris e dell’Unione Sovietica era troppa, la tensione che circondava le partite sempre più alta, anche a causa del clima di una Guerra Fredda sulla via del tramonto, e proprio per questo ancora più aspra. La federazione sovietica spingeva per riavere la sua stella in meno tempo possibile, i Trail-Blazers protestavano vibratamente, senza ottenere risultati. Alla fine Sabonis rientrò in Unione Sovietica, e giocò, a ritmi serratissimi per tutto il 1987 e il 1988, procurandosi una quantità infinita di piccoli e grandi infortuni alla caviglia, al ginocchio e all’inguine. Infortuni che non fecero che minarne la mobilità e la resistenza, finendo per rovinargli la carriera.
La misura raggiunse il colmo nell’estate del 1988. Arvydas aveva rimediato un nuovo infortunio al tendine d’Achille, talmente preoccupante che gli fu permesso di andare a operarsi a Portland. Dopo l’intervento chirurgico lo staff dei Trail-Blazers cercò di imporre al giocatore uno stop abbastanza lungo per permettergli di recuperare. Ma le Olimpiadi di Seul erano vicine e l’Unione Sovietica voleva portare una squadra stellare, fondata sui centimetri e le morbide mani di Arvydas Sabonis. Fu costretto a un rientro forzato, e giocò per tutte le Olimpiadi sul dolore, senza mai essere al 100%.
E non era al suo massimo nemmeno quella famosa notte in cui l’URSS sconfisse in semifinale e senza appello o sospetti di complotto, la corazzata statunitense. Sabonis dominò per l’intera partita il suo pariruolo americano, un tipo grosso, appena uscito dall’accademia militare. Un tipo che poi sarebbe stato conosciuto come “the Admiral”. L’impresa era storica ed eroica, ma come tutte le imprese eroiche richiese un prezzo altissimo. L’URSS, in crisi e in progressivo disfacimento, fu infine costretta a cedere e ad accordare alla sua star la possibilità di andare a giocare fuori dai confini nazionali. Ma la sua tenuta fisica era ormai un’incognita e la prospettiva di una lunga stagione di 82 partite non era incoraggiante per le sue gambe martoriate.
Fu lui stesso a decidere di intraprendere un’avventura in Spagna e firmò, nel 1989, un contratto con il Forum Valladolid. Per tre anni fu l’anima e il cuore pulsante della squadra, ma il basket è un gioco di squadra, e anche una roccia come lui non avrebbe potuto molto da solo contro i roster profondissimi di squadre come Barcelona e Real Madrid. Così, dopo tre anni di orazioni nel deserto, nel 1992, Arvydas Sabonis giunse nella capitale spagnola, fresco acquisto del Real Madrid. Fu l’innesto giusto, per se stesso e per la squadra. Nei tre anni successivi, con più maturità tecnica e tattica e meno infortuni sulle gambe, Sabonis vinse due titoli nazionali spagnoli e, nel 1995, quell’Eurolega che con lo Žalgiris aveva solo sfiorato. La stagione regolare del campionato spagnolo in quello stesso 1995 lo aveva visto registrare medie spaventose, che parlavano di 22.8 pts, 13.2 rbd, 2.4 ass e 2.6 blk a partita. L’Europa ormai gli stava stretta.
Bob Withsitt era diventato GM dei Portland Trail-Blazers nel 1994, trasferendosi dai Seattle Super Sonics. Non aveva avuto nulla a che fare con la scelta di Spoelstra di draftare quel giovane e imponente centro dalle gambe di cristallo, ma, dopo averlo fatto osservare per tutto l’anno, vedendo i numeri e la mole di gioco che era stato in grado di produrre in quei sei anni spagnoli, Bob decise di arrischiare una negoziazione per la firma di un contratto. Ma, da buon GM, prima di tutto, decise di chiedere al medical staff dei Blazers di valutare le lastre delle gambe di Sabonis, per capire il suo stato di salute. La risposta degli specialisti fu dura, inclemente. Withsitt la ricorda ancora oggi, e ogniqualvolta qualcuno gliela chieda risponderà sempre allo stesso modo:
“[The doctor] said that Arvydas could qualify for an handicapped parking spot, based on the X-rays alone”
“[Il dottore] disse che Arvydas avrebbe avuto diritto a un parcheggio per disabili, basandosi solo sulle lastre”
Nulla di incoraggiante, insomma. Bob Withsitt si prese del tempo per riflettere. Probabilmente non fece altro, giorno e notte. Era arrivato a Portland da poco e gli era stato dato il compito, complesso e delicato, di ricostruire un roster e renderlo competitivo per le Finals NBA. Da questo punto di vista l’ingaggio di Sabonis, che aveva già visto i suoi giorni più verdi, che era passato dal rango di promessa a quello di stella del basket internazionale e il cui stato di salute era essenzialmente un’incognita, era fortemente sconsigliabile. Inoltre a Portland non si sapeva quale fosse il reale interesse di Arvydas nell’intraprendere l’avventura NBA. Già una volta aveva clamorosamente rifiutato l’opportunità di andare negli USA. Cosa gli impediva di fare lo stesso adesso? Alla fine Withsitt decise cosa fare. Prese un aereo per Madrid e raggiunse Sabonis, invitandolo a cena per poter parlare finalmente a quattr’occhi con quello che, a nove anni dal Draft nel quale era stato scelto, era diventato a tutti gli effetti un oggetto misterioso in quel dell’Oregon. Nessuno, a parte i diretti interessati, saprà mai cosa si dissero precisamente i due in quel ristorante spagnolo. Fatto sta che, tornato a Portland, Withsitt avviò le trattative per offrire un contratto ad Arvydas Sabonis, che lo accettò e appose la sua firma. Finalmente, dopo anni travagliati, e un lungo inseguimento fatto anche di ospedali e interventi chirurgici, le strade del trentenne centro lituano e dei Blazers presero a correre insieme.
L’inserimento di Sabonis nei meccanismi di Portland si rivelò più che azzeccato. Nella sua stagione da rookie (1995-96, aveva trentun anni) giocò 73 partite, un’enormità per le sue gambe malandate, assommando 14.5 pts, 8.1 rbd e 1.8 ass, distinguendosi per il gioco inventivo e immaginifico e per la sua straordinaria adattabilità: letale sotto le plance grazie alla sua stazza, ottima opzione anche dalla media e dalla lunga distanza, grazie a mani molto morbide e allenate al tiro pesante, passatore dalla eccellente visione di gioco, rimbalzista accanito. Sembrava non ci fosse limite all’arsenale offensivo e difensivo delle sue qualità. Chiuse la sua prima regular season come parte dell’All Rookie First Team, oltre che come candidato molto credibile ai premi di Rookie of the Year e Sixth Man of the Year. Al primo turno dei play-off Portland incontrò gli Utah Jazz e, nonostante la sconfitta, subita in cinque gare, Arvydas alzò in modo strabiliante le sue medie, mettendo insieme 23.6 pts e 10.2 rbd per partita. L’Hall of Famer Bill Walton, leggendario centro dei Balzers e dei Celtics, arrivò a definirlo un “Larry Bird di due metri e venti”. Bob Withsitt, l’uomo dell’azzardo, rideva sotto i baffi.
Le prestazioni di Arvydas Sabonis rimasero su livelli alti anche nelle stagioni seguenti, soprattutto nel 1997-98, quando fece segnare i suoi career-high in punti (16 pg), rimbalzi (10) e assist (3), e la squadra, sempre competitiva, arrivò ogni anno ai play-off, dove però non riuscì mai a superare un singolo turno fino alla stagione 1998-99, quella che, non a caso, fu la stagione della svolta. Dopo i sanguinosi abbandoni, tra 1995 e 1997, di giocatori come Terry Porter, Jerome Kersey, Buck Williams e Cliff Robinson, Withsitt decise di stupire di nuovo, ricostruendo la squadra intorno al solo punto fermo che conoscesse, quel gigante lituano, ormai comunemente soprannominato “il principe del Baltico”, che considerava un po’ il suo uomo. Il traffico di giocatori si fece intenso in quel dell’Oregon. Il roster dei Trail-Blazers fu quasi completamente rivoluzionato con gli arrivi di Isaiah Rider (guardia prelevata dai Minnesota Timberwolves in cambio di una scelta al Draft, tanto estroso e talentuoso quanto problematico, venne arrestato per possesso di cannabis due giorni prima dell’esordio in maglia Blazers), Rasheed Wallace (una leggenda che si presenta da sola, preso dai Washington Bullets in cambio del playmaker Rod Strickland) e di Damon Stoudamire (ottenuto nel febbraio del ’98 dai Toronto Raptors in cambio del playmaker Kenny Anderson). Il cambio di rotta ebbe gli effetti sperati. La squadra compilò un record importante in regular season e riuscì a tornare alle Western Conference Finals, dove venne però spazzata via dai San Antonio Spurs (futuri campioni NBA). Withsitt non si arrese. Sapeva che la via era quella giusta, che bisognava battere il ferro finché era caldo e cavalcare gli ultimi anni buoni di Sabonis a livello NBA. Nella offseason il GM dei Blazers spedì il sempre intemperante Isaiah Rider, in compagnia di Jim Jackson, agli Atlanta Hawks in cambio di Steve Smith, ma soprattutto si portò a casa la firma di tal Scottie Pippen, mica uno così… Di nuovo la scommessa sembrò azzeccata. La squadra continuò a macinare risultati e raggiunse di nuovo le Finali di Conference, contro i Los Angeles Lakers del duo Shaq-Kobe. Fu una serie memorabile e tirata. I Lakers si portarono sul 3-1, ma Portland, sapientemente guidata da coach Mike Dunleavy e dalla sua torre lituana, seppe reagire, vincendo due partite di fila e forzando i giallo-viola fino a gara-7. In quella partita decisiva la franchigia dell’Oregon arrivò alle soglie dell’ultimo quarto con 15 punti di vantaggio in uno Staple Center indemoniato, solo per diventare i testimoni dello scatenarsi di due forze della natura come erano Kobe e Shaq, in grado di recuperare quello svantaggio in un solo quarto. Di nuovo il sogno dei Blazers e di Arvydas Sabonis si infranse sull’altare della Western Conference, mentre i Lakers si andarono a prendere il primo di tre titoli consecutivi.
Dopo quell’anno una serie di movimenti che si sarebbero rivelati sbagliati (come, ad esempio, l’ingaggio di Shawn Kemp) fece uscire la franchigia dal palcoscenico delle contenders al titolo NBA. Arvydas giocò nel 2000-01, ma, ormai trentaseienne, il suo apporto alla squadra non poteva che essere limitato. Alla fine della stagione Sabonis, “stanco mentalmente e fisicamente” scelse di tornare nella nativa Kaunas, per unirsi di nuovo al suo primo grande amore cestistico, quello Žalgiris che, tra polemiche e infortuni, lo aveva cresciuto e lanciato sul grande palcoscenico del basket internazionale. Nonostante avesse siglato un contratto annuale, non giocò in quella stagione, ma rimase fermo, recuperando dai mille infortuni che stavano funestando, come d’altronde era sempre stato, anche il suo finale di carriera.
La sua avventura in NBA non era ancora finita, però. Quando, nella stagione 2002-03, i Blazers ebbero bisogno di lui come centro di riserva, rispose immediatamente alla chiamata, dimostrando tutta la sua riconoscenza per la franchigia che tanto fortemente aveva creduto in lui, nonostante tutti gli infortuni e le difficoltà. In quella sua ultima stagione, trentottenne e stoico, segnò, uscendo dalla panchina, 6.1 pts per partita, conditi da 4.3 rbd, in 78 match giocati (questo il suo vero career-high). Dopo questa breve parentesi, tornò di nuovo a Kaunas, dove, nel 2003-04, condusse lo Žalgiris alle Top 16 di Eurolega, vincendo anche il titolo di MVP, per poi ritirarsi soltanto nel 2005, a quarantun anni. Dopo questa straordinaria e avventurosa carriera, il suo inserimento nella Hall of Fame risultò quasi un atto dovuto. Entrò a farvi parte nel 2011, primo tra tutti i sovietici a ricevere un simile onore. Primo, tra l’altro, anche per altezza all’interno della prestigiosa e gloriosa sala, almeno finché anche Ralph Sampson non vi venne inserito, nel 2012.
È difficile capire quanto diversa e più grande potesse essere l’esperienza di Arvydas Sabonis nella NBA se avesse potuto farvi ingresso durante il suo culmine tecnico e atletico. Probabilmente avremmo avuto a che fare con la figura di un centro dominante, in grado di esercitare un impatto sulla lega non minore di quello che poi avrebbe avuto Shaq. Opinioni ben più autorevoli della mia, che me ne sto qui davanti allo schermo a scrivere ammirato la vita di quest’uomo straordinario, possono confermare questa visione delle cose. David Thorpe di ESPN, per esempio, ha dichiarato che Sabonis, se avesse giocato per tutta la carriera in NBA, sarebbe stato il miglior centro passatore, e uno dei quattro migliori big man di sempre. Titoli altisonanti, che si sposano perfettamente alla visione di un ex Blazer di lusso, Clyde Drexler, che durante una “chat interview” sul sito di ESPN ha risposto alla domanda “se Arvydas Sabonis fosse arrivato immediatamente dopo essere stato draftato, nel 1986, pensi che avresti vinto un titolo con i Blazers?” in questo modo:
“We would have had four, five or six titles. Guaranteed. He was that good. He could pass, shoot three pointers, had a great post game, and dominated the paint. And he would have been younger. He was very effective in the NBA ad an older player who had suffered an ankle injury”
“Avremmo avuto quattro, cinque o sei titoli. Garantito. Era così forte. Poteva passare, tirare triple, aveva un grande gioco in post e dominava il pitturato. E sarebbe stato più giovane. È stato veramente efficace in NBA anche come giocatore più vecchio che aveva avuto un infortunio alla caviglia”.
Al giorno d’oggi Arvydas Sabonis vive una vita ancora un po’ frenetica, divisa tra gli impegni istituzionali con la federazione lituana, quelli che lo coinvolgono in eventi di beneficenza e la sua famiglia, con la quale vive in Spagna. Ma il talento cristallino deve essere evidentemente localizzato da qualche parte nella doppia elica di acido desossiribonucleico (alias DNA) di quest’uomo, dal momento che i suoi tre figli, Tautvydas, Domantas e Žygimantas, sono tutti straordinari giocatori di basket: Tautvydas gioca nel campionato spagnolo, nell’Unicaja Malàga e nel 2011, ha vinto i Campionati del Mondo FIBA Under-19 con la sua Lituania, mentre Domantas, dopo aver ben figurato in tutte le nazionali giovanili, con il fratello Žygimantas, ha giocato per qualche tempo per Malaga, e, dalla stagione sportiva 2014-15 milita tra le file di Gonzaga, nell’NCAA.
Questa la storia del gigante che avrebbe potuto dominare l’NBA. Questa la storia del principe del Baltico, di Arvydas Sabonis. E quando qualcuno vi dice che con la Rivoluzione d’Ottobre in Russia caddero gli Zar, non credetegli: l’ultimo Zar che conosciamo ha dominato i parquet a Portland.