Immaginate di essere il GM di una squadra NBA. Di una di quelle squadre che non è andata poi tanto bene nell’ultimo anno. Non avete raggiunto i play-off, anzi, tutto al contrario, il vostro record ha lasciato parecchio a desiderare. Sapete di esservi “guadagnati” pienamente quel posto nella Lottery, che vi dà la possibilità di avere la scelta #1 al prossimo Draft. I vostri giorni trascorrono in un mix di emozioni e dubbi, tra nomi che si susseguono sul vostro taccuino (sempre che ancora si usino i taccuini…), rapporti degli scout e interviste con ESPN e TNT. Probabilmente state rischiando l’esaurimento nervoso, perché sapete che larga parte del futuro della franchigia dipende dalle scelte che farete proprio in quella notte. Ma per vostra fortuna ci sono alcune regole di base a cui vi potrete appigliare: in primo luogo, se c’è la pallina con il loro nome, la prima scelta sarà dei Cleveland Cavaliers. Seconda poi, prendere un giocatore infortunato è un buon modo per giustificare il fatto che il prossimo anno continuerete a perdere. Terzo, prendete sempre il tizio più grosso. L’ultima linea guida è forse la più interessante. Perché potrebbe anche sembrare logico, in uno sport che ha per obiettivo quello di far passare il pallone all’interno di un canestro posto a più di tre metri dal suolo, ingaggiare sempre il tizio più grosso, ma è pur vero che questo “modello” non è più vincente. Sono rarissime, se non uniche, le franchigie NBA che ancora basano i loro schemi di gioco su un lungo dominante, e anche in questi casi, spesso, si tratta di un giocatore a tutto tondo, dotato di buonissime capacità balistiche dalla media e dalla lunga distanza oltre che di muscoli e centimetri. Quest’anno, ad esempio, il record migliore nella Western Conference è detenuto da quegli stessi Golden State Warriors che, con due guardie come Steph Curry e Klay Thompson come back-court titolare, sono il simbolo più luminoso dell’importanza del tiro pesante e di un modo nuovo di giocare a basket. In contraddizione a questa tendenza, però, la linea guida che impone ai GM di prendere il “tizio più grosso”, rimane e si impone sempre più forte, forse proprio per il fatto che i lunghi di qualità siano tanto rari. Sembra che anche quest’anno la logica che spinse i Blazers a preferire Sam Bowie a Michael Jordan, o Greg Oden a Kevin Durant e che portò personaggi come Michael Olowokandi, Raef LaFrentz, Kwame Brown o Darko Milicic ad essere scelti prima di stelle assolute come Vince Carter, Joe Johnson, Dwyane Wade o Carmelo Anthony, la farà da padrone, con i nomi dei migliori lunghi collegiali sempre più alla ribalta. E tra loro vedremo oggi uno dei più promettenti.
Karl Anthony Towns
Nel 2012 ESPN, nell’atto di stilare la classifica dei migliori venticinque giocatori liceali dello stato del New Jersey, inserì, come numero uno, un freshman che era stato in grado di condurre la sua St. Joseph High School al titolo statale. Quel freshman era un ragazzone nato a Piscataway, New Jersey, il 15 novembre del 1995, da padre afroamericano e madre dominicana e rispondente al nome di Karl Anthony Towns. Quel riconoscimento non giungeva del tutto inaspettato per lui: dopo aver ricevuto una solida educazione di stampo religioso prima alla Lake Nelson Seventh-Day Adventist School e poi alla Theodore Schor Middle School (dove dovette ripetere il 7th grade, equivalente al nostro ultimo anno di scuola media, per essersi trasferito dalla Our Lady of Fatima School), a 16 anni viene selezionato nella nazionale di basket della Repubblica Dominicana (grazie alle ascendenze materne), dove gioca agli ordini di John Calipari, che è anche coach dei Kentucky Wildcats, nei FIBA American Championship del 2011 e nel FIBA World Olympic Qualifying Tournament for Men del 2012, aiutando la squadra a raggiungere rispettivamente il terzo e il quarto posto (purtroppo non abbastanza per qualificarsi alle Olimpiadi di Londra 2012). Abbagliato dalle capacità del ragazzo, Calipari gli offre una borsa di studio per raggiungere la Kentucky University, motivo per cui Towns, nel dicembre 2012, annuncia che si diplomerà con un anno di anticipo.
Se John Calipari si è costruito la reputazione di leggenda che lo accompagna ancora al giorno d’oggi, ci devono essere almeno un milione di motivi. La sua capacità di riconoscere a colpo d’occhio il talento fa probabilmente parte dell’elenco. E nemmeno Karl Towns lo smentisce. Il 6 gennaio del 2013 fa registrare una straordinaria quadrupla doppia, mettendo a referto 16 pts, 17 rbd, 11 ass e 11 blk. L’anno successivo, il 5 gennaio 2014, per la precisione, decide di dimostrare che quella prestazione non è stata solo un colpo di fortuna, e ammassa cifre che gli valgono una nuova quadrupla doppia: 20 pts, 14 rbd, 12 blk e 10 ass. Roba da mandare in tachicardia il povero Calipari, che non vede l’ora di trovarselo in squadra.
Quando finalmente arriva, però, Kentucky adotta un inusitato platoon system, ossia un sistema che permette a un allenatore (nella fattispecie a Calipari) di gestire i minuti in maniera più “equa” e di concedere a tutti i giocatori a roster il loro spazio in partita. Al di là delle valutazioni favorevoli o contrarie, che non sono di nostro interesse al momento, è importante spiegare che questo tipo di approccio ha limitato il minutaggio (e di conseguenza l’impatto statistico) dei giocatori di Kentucky e, tra di loro, anche di Towns, che, in 18 match giocati nel torneo NCAA, ha messo insieme 8.3 pts, 6.9 rbd, 2.6 blk, 1 ass con il 49.5% dal campo in 19.8 minuti di utilizzo medio. Numeri certo non altisonanti, ma che, contestualizzati nell’ambiente Wildcats, danno il senso di un giocatore solido, utile e, sostanzialmente, NBA ready.
Punti Forti
La prima cosa che colpisce guardando questo ragazzone dominicano è il suo fisico poderoso. 7 piedi d’altezza, 248 libbre e 7.3 piedi di apertura alare. Numeri che si traducono, in sistemi di misurazione più comunemente europei, in 2.13 m, 112 kg e 2.22 m. Un corpo impressionante, soprattutto se ci fermiamo a riflettere sul fatto che Karl Anthony ha solo 19 anni e che il suo processo di crescita non si è ancora del tutto fermato. Misure del genere non danno certo l’idea di un tipo scattante e veloce. Al contrario, nonostante la sua corsa e alcuni movimenti siano ancora macchinosi e dinoccolati, questo giocatore ha una agilità sorprendente e un’ottima mobilità. Non ci deve sorprendere quindi la velocità con cui è in grado di attraversare, con le sue ampie falcate, il parquet, o l’abilità con cui si muove nel pitturato. Offensivamente il suo arsenale è molto, molto ampio. La mobilità e la struttura fisica a cui abbiamo appena accennato ne fanno, innanzitutto, una buonissima opzione di pick ‘n roll, in grado di portare blocchi rocciosi e farsi trovare velocemente sotto canestro, pronto a trasformare l’assist del compagno o a proteggere la sua penetrazione a canestro. Una seconda, importante, freccia al suo arco è il post game offensivo dove, ancora una volta, i doni fattigli da Madre Natura, possono completamente scatenarsi. È la sua stazza infatti, che gli permette di avere “comodamente” (almeno in NCAA) ragione dei pariruolo, di conquistare la posizione sotto le plance e di andare a concludere a canestro con una grande varietà di opzioni, che vanno dal sottomano a un hook shot in costante via di miglioramento e che diventa sempre più preciso ed efficiente. Un miglioramento frutto anche di mani morbide, educate. Come moltissimi centri moderni infatti, anche Karl Anthony non disdegna i tiri dalla media distanza, nei quali, grazie pure a una meccanica di tiro da manuale, benché macchinosa, è più che una buona opzione (51.4% dal campo nel torneo NCAA, percentuale che sale al 53% se si prendono in considerazione solo le conclusioni dall’interno dell’arco dei 6.30 m, che, nel basket collegiale, rappresenta la linea del tiro pesante). Quelle stesse mani morbide lo rendono anche un ottimo tiratore di liberi (77.8%) e gli danno la sicurezza per tentare anche qualche tiro da tre (anche se con percentuali non esattamente esaltanti, 28.6%). Atleticamente non ha doti impressionanti, non è cioè quello che negli Stati Uniti tengono tanto a definire “freak athlete” e che nella lega va ormai tanto di moda, ma, se gli si concede il giusto tempo e lo spazio necessario, non esita a concludere al ferro, con schiacciate a volte anche devastanti. In quel campo bisogna registrare, però, un miglioramento sensibile già dalla fine dell’anno passato, con gli osservatori che hanno notato come l’elevazione di Karl Anthony sia aumentata fino ad arrivare quasi ai livelli fatti registrare da atleti come Cody Zeller o Joakim Noah nel loro ultimo anno di college.
Anche dal punto di vista difensivo il suo fisico costituisce sempre il punto di partenza principale. I suoi centimetri, le sue braccia lunghissime e le mani grandi, amalgamati a un timing quasi perfetto, lo rendono un ottimo stoppatore. Sotto la guida di coach Calipari sta sviluppando anche la sua difesa in post, sfruttando tutta la sua stazza e la sua forza per mantenere la posizione e costringere l’attaccante a pessime scelte di tiro. A queste qualità aggiunge il pregevole lavoro a rimbalzo, tanto difensivo quanto offensivo. Da una parte non si sottrae a combattere su ogni pallone, riuscendo a accaparrarsene parecchi anche nel traffico, dall’altra fa di tutto per mantenere vivi anche i possessi meno probabili, ricorrendo anche a efficaci tap-out. Inoltre grazie alla buona mobilità e allo spiccato intuito, si è rivelato capace di ottimi posizionamenti e di buonissimi taglia-fuori.
Due ulteriori, importanti, qualità, sono la sua intelligenza cestistica e la visione complessiva di campo che, combinate, lo rendono un abile passatore. Attenzione, non parliamo di un Jason Kidd di 2.13 m, ma di un centro bravo ad appostarsi in post alto e a leggere i tagli dei suoi compagni per servirli sulle penetrazioni. Anche in questo caso comunque il suo tocco di palla educato si rivela utile, permettendogli di recapitare passaggi anche ad alto coefficiente di difficoltà e persino di alzare qualche alley-oop, che non sono esattamente il pane quotidiano di un centro.
In definitiva però, al di là degli aspetti tecnici, le note più positive riguardo questo ragazzo vengono dal suo approccio e dalla sua personalità. Lavoratore instancabile, umile, intelligente, competitivo e ambizioso, Karl Anthony Towns ha anche il pregio di avere immensi margini di miglioramento, sia dal punto di vista fisico, dove con la crescita e l’inevitabile lavoro in palestra a cui sarà sottoposto una volta raggiunti i professionisti lo porteranno a raggiungere tranquillamente le 260/270 libbre (qualcosa come 118/122 kg) che da quello tecnico, dove deve lavorare sul movimento dei piedi nel post offensivo, anche se ha già mostrato interessanti sprazzi di Dream Shake.
Punti Deboli
Tutto (o quasi tutto) ciò che di negativo possiamo dire del prodotto di Kentucky è relativo a una sola problematica di base, ossia la sua mancanza di esplosività. Un problema a cui, come accennavamo, il ragazzo sta cercando di porre rimedio, lavorando duro sulla sua elevazione. Tuttavia al momento rimane un’opzione poco affidabile nelle situazioni di affollamento sotto le plance e, se marcato abbastanza stretto, non riesce a far valere le sue innegabili qualità fisiche, finendo per andare a sbattere contro la difesa, o per perdere palla. Per lo stesso motivo in difesa non sempre riesce a proteggere il ferro come dovrebbe dalle incursioni degli avversari, arrendendosi ad atleti più esplosivi di lui. In più le sue prestazioni difensive sono minate anche dalla sua scarsa velocità di spostamento laterale, dovuta ad altrettanto scarse reattività ed esplosività, che gli rende impossibile essere un difensore efficace contro centri più veloci che lo fronteggino in 1vs1 o contro le penetrazioni degli esterni. In quelle situazioni rimane infatti un po’ troppo piantato sulle gambe, concedendo punti facili agli avversari.
Un altro aspetto negativo riguarda il suo atteggiamento in campo. Alle volte infatti Karl Anthony sembra un po’ rinunciatario, troppo rispettoso, quasi timoroso dello scontro. Questa “mancanza di cattiveria agonistica” si ripercuote su molti aspetti del suo gioco. Per esempio, dal momento che non combatte sempre e duramente sotto le plance, porta a casa meno rimbalzi di quanti in realtà sarebbe capace di prendere. Allo stesso modo, difese troppo decise sotto canestro lo portano a snaturarsi e ad orbitare sulla linea del tiro pesante in attesa di qualche buon tiro, in un modo che a volte è persino fastidioso. Infine anche il suo gioco in post ne risente, visto che non sempre, nonostante il fisico assolutamente poderoso, riesce a spingere i suoi avversari, tanto in attacco quanto in difesa.
Chiaramente si tratta di aspetti che può tranquillamente correggere se continua ad avere l’etica del lavoro che fino ad adesso l’ha contraddistinto.
Prospettive
In qualsiasi Mock Draft o sito specializzato vogliate andare a controllare, troverete sempre il nome di Karl Anthony Towns molto, molto in alto, tra la posizione #3 e la #6, e queste previsioni dovrebbero essere perfettamente rispettate. Fin dove potrà arrivare è una cosa che probabilmente nemmeno lui stesso sa, ma molto dipenderà anche da quale posizione assumerà una volta entrato nella NBA. Se continuerà a giocare come centro o se si sposterà ad ala forte. Nell’uno e nell’altro i caso i paragoni che sono stati fatti sono più che lusinghieri. Si è parlato di lui come del nuovo Vlade Divac, che è un comparison che farebbe sinceramente piacere a chiunque. Più probabile però che diventi più simile a un LaMarcus Alderidge o a un Pau Gasol, ma meno massiccio fisicamente e con più spiccate capacità balistiche.
Un lungo con queste caratteristiche farebbe comodo sostanzialmente a tutte le franchigie della lega, eccettuati forse i Detroit Pistons che mantenendo la coppia Monroe-Drummond potrebbero avere il frontcourt a posto per i prossimi dieci anni, e i Philadelphia 76ers, che non possono continuare a prendere lunghi per sempre, ma, ragionando più in concreto, tra le squadre che con tutta probabilità avrebbero più interesse e possibilità ad accaparrarselo ci sentiamo di inserire in primis le tre grandi franchigie “decadute” che, tristemente, per il secondo anno consecutivo, rimarranno fuori dai play-off: i New York Knicks, sempre che non riescano a mettere le mani su Jahlil Okafor, i Los Angeles Lakers, che potrebbero così contare sul frontcourt, assolutamente futuribile, Randle-Towns, e i Boston Celtics, che dopo i grandi saldi che hanno portato agli addii di Rajon Rondo e Jeff Green potrebbero permettersi di sviluppare appieno le potenzialità di Karl Anthony senza l’ansia di dover vincere a tutti i costi, sfruttando anche l’indubbia capacità di coach Brad Stevens nel lavorare con i giovani.
Quello che abbiamo descritto è, come dicevamo, un giocatore solido, NBA ready. La lista dei pregi è lunga, i margini di miglioramento spaventosi, i difetti limitati e risolvibili: Karl Anthony Towns ha tutte le carte in regola per entrare nella NBA e giocarsi le sue carte da protagonista, senza timori reverenziali nei confronti di nessuno, magari anche fino a diventare un All Star.