Categorie: Editoriali NBA

Il Lato Debole

«C’è un momento di ordinato silenzio, prima che un’azione di football prenda il via. I giocatori sono in posizione, gli uomini di linea sono fermi, congelati e ogni cosa è possibile. Poi, come in un incidente d’auto, le cose cominciano ad entrare in collisione in maniera casuale. Fra lo snap della palla e lo schiocco delle prime ossa trascorre un tempo più vicino ai quattro secondi che ai cinque.
Un Mississippi: Joe Thiesmann, quarterback dei Redskins riceve lo snap e consegna la palla al suo compagno.
Due Mississippi: è una finta, uno specchietto per le allodole e il running back la ripassa al quarterback.
Tre Mississippi: fino a questo momento la giocata è stata definita da quello che il quarterback è stato in grado di vedere; da adesso verrà definita da ciò che NON può vedere.
Quattro Mississippi: Lawrence Taylor è il miglior difensore dell’intera NFL. E lo è stato dal momento in cui ha messo per la prima volta il piede in campo, cambiando anche il modo di vedere il football… Il leggendario quarterback Joe Thiesmann non giocherà mai più nemmeno un down.
Ora tutti voi sapreste indovinare che, nella maggior parte dei casi, il giocatore più pagato in una squadra di NFL sia il quarterback. E avreste ragione. Ciò che invece, probabilmente, non sapete è che, sempre nella maggior parte dei casi, il secondo giocatore più pagato è, grazie a Lawrence Taylor, il tackle sinistro. Perché, come ogni casalinga ben sa, il primo assegno si compila per il mutuo, il secondo però si compila per l’assicurazione.
E il compito del Tackle Sinistro è quello di proteggere il quarterback da ciò che non può vedere. Il suo compito è quello di proteggere il lato cieco, the blind side».

 

 

Questo è il monologo d’apertura di una fortunata pellicola del 2009, che è valsa alla sua interprete principale, Sandra Bullock, la conquista della sua prima statuetta dagli occhi tristi dopo una serie di nominations infruttuose.
Il film racconta la vera storia di Michael Oher (tackle sinistro dei Baltimore Ravens prima e dei Carolina Panthers ora). Una storia in cui sport, cinema e redenzione si fondono in una miscela confortevole e cara all’occhio dello spettatore a stelle strisce, mai pago e dimentico dell’American Dream, sul quale ha fondato in larga parte il proprio retaggio culturale.

Il Blind Side, titolo del film, altro non è che la “zona cieca” che il Quarterback non riesce, per natura, ad includere nel proprio spazio visivo e che necessita pertanto di una protezione in più, esterna, affinchè il tutto si svolga per il meglio.
La metafora è abbastanza chiara: quella zona cieca altro non è che il nostro lato indifeso, che proprio in quanto tale emerge leggermente rimanendo esposto a possibili attacchi.

 

Ora, nella pallacanestro non esiste un perfetto corrispettivo del Blind Side, non essendo un gioco “di linea” in cui la palla viene, generalmente, toccata da non più di tre giocatori per azione, bensì fondato su una frenesia di molecole perennemente in movimento e in reciproca collisione, senza soluzione di continuità fra la fase di offesa e quella di difesa.
Tuttavia è possibile ravvisare all’interno di questa meravigliosa fanfara un concetto, se non uguale, quantomeno simile a quello di Lato Cieco: il Lato Debole.
Molti, se non la quasi totalità, di voi sicuramente sanno di cosa parlo, quando faccio riferimento al Lato Debole, ma esplicitare non ha mai nuociuto a nessuno.

 

Il Lato Debole altro non è che quella porzione di campo che si trova esattamente dirimpetto alla zona in cui staziona il pallone.
Una zona che di primo acchito sarebbe da considerarsi “morta”, ma in realtà estremamente importante, perché spesso, se sfruttata con cura, può consentire parecchie soluzioni alla squadra attaccante che sappia approfittare di indecisioni o deficit d’attenzione degli avversari. Una sorta di gigante, potenziale fucina di “Mosse Kansas City”.
Insomma loro guardano a destra e tu vai a sinistra.

 

E proprio riflettendo su questo concetto, apparentemente molto semplice e fruibile, sono (forse) riuscito a trovare una valida chiave di lettura per quello che, a tutti gli effetti, è il miracolo sportivo di questa stagione NBA: gli Atlanta Hawks.
A 14 partite dal termine della Regular Season il record di 53 vinte e 14 perse parla chiaro: seconda miglior squadra della Lega e primo posto ad Est in saccoccia da tempo ormai.
Se i numeri sono impietosi, nascondersi dietro al proverbiale dito e ad una fasulla schiera di «Io l’avevo detto» è forse pietoso.
Diciamocelo, addetti ai lavori compresi, ad inizio stagione nessuno avrebbe mai potuto immaginare degli esiti così positivi per la franchigia di Peach City, nemmeno quell’inguaribile ottimista di Tonino Guerra.
E d’altronde come dar loro torto, dopo lo sconquasso societario-manageriale a sfondo, velatamente ma neanche troppo, razzista che ha travolto gli Hawks sul finire dell’estate?

I fatti presumo siano ben noti a tutti, ma anche in questo caso, come dicevano persone ben più sagge del sottoscritto, melius abundare quam deficere.

Nel corso della passata stagione pare che Michael Gearon Jr., azionista di minoranza della franchigia, avvicini più volte Bruce Levenson, detentore della maggioranza del pacchetto partecipativo, comunicandogli la sua idea di alienare le proprie partecipazioni e suggerendogli di fare altrettanto con il pacchetto maggioritario, in modo da poter ricavare il massimo dal disinvestimento.
Levenson, tuttavia, nicchia e tira dritto per la sua strada. Questo almeno fino a Settembre 2014, quando emergono delle dichiarazioni a stampo razzista, che sarebbero state rilasciate dal GM Danny Ferry sul conto di Luol Deng, inseguito a lungo dal front-office degli Hawks nel corso della free agency estiva.
A seguito delle parole di Ferry, che, nel frattempo e dopo aver imbastito sostanzialmente il Roster che sta facendo miracoli in questa stagione, viene allontanato a tempo indeterminato dall’organizzazione, Gearon coglie immediatamente l’opportunità di realizzare il proprio piano e chiede a Levenson di far effettuare ad un ente di controllo delle indagini interne, dalle quali emerge l’esistenza di un’e-mail del 2012 inviata da Levenson al resto del front office.
Il testo dell’e-mail riporta alcune considerazioni di Levenson in merito alla composizione etnica del pubblico pagante della Philips Arena, un po’ troppo “abbronzato” a suo dire, e delle indicazioni relative a come poter attirare alla partita un numero maggiore di incarnati chiari, che considera come il target su cui puntare per poter massimizzare alla n le entrate della franchigia.

Sulla natura razzista o meno delle parole di Levenson si sono formati schieramenti e correnti di pensiero diverse. Chi le considera semplicemente le parole di un imprenditore interessato a modificare il novero dei propri consumatori (anche se in maniera discutibile quantomeno da un punto di vista etico), chi invece le ritiene una delle più grette manifestazioni di odio razziale degli ultimi 200 anni; ma tant’è.
Ad ogni modo a seguito di ciò, per la gioia di Gearon, Levenson, conscio perfettamente del clima di sospetto instauratosi in NBA a seguito dell’affaire-Sterling, decide di anticipare le mosse del Commissioner e mette la Franchigia sul mercato, dove si trova dallo scorso settembre.

 

Queste sono le premesse con cui gli Hawks si presentano ai nastri di partenza sul finire di Ottobre. E il contraccolpo, almeno inizialmente, sembra farsi sentire. Nelle prime dieci giornate ammassano 5 vittorie, 5 sconfitte e gettano le basi per un’altra, mediocre stagione.
Da quel momento però si muove qualcosa, arriva il momento della redenzione e, come nel più classico dei film, tutto inizia a girare per il verso giusto.
Nelle successive 41 partite Atlanta infila 37 vittorie, di cui 19 consecutive (17 nel solo mese di Gennaio, chiuso senza nemmeno una sconfitta, record NBA), giocando un basket di livello superiore e candidandosi a contender.
E così arriviamo ad oggi, con il primo, insperato posto ad Est ormai sotto chiave e delle aspettative in ottica Playoffs schizzate alle stelle.

 

Ma la cosa più entusiasmante e bella di questo successo risiede proprio nella sua peculiarità, nel fatto di essere stato costruito andando contro ogni dogma prestabilito dello sport, che vuole i risultati figli esclusivamente di una gestione manageriale attenta e previdente, della presenza di un impianto societario stabile, quasi immanente, e di una squadra compiuta e ricolma di giocatori stellari.
Gli Hawks non hanno nulla di tutto ciò, ma anziché abbandonarsi alle circostanze e a facili, quanto giustificabili, derive sportive, rispettando il clichè che li avrebbe voluti vedere brutti e perdenti (Parma Calcio docet), hanno tenuto la testa bassa, le orecchie dritte e lavorato con quanto, proprio le circostanze stesse, hanno messo a loro disposizione, che era poco e nascosto agli occhi dei più.

 

Hanno trovato una figura di riferimento nel proprio allenatore, Mike Budenholzer, che è assurto a vera e propria faccia plenipotenziaria della franchigia.
Hanno instillato nei giocatori uno spirito di comunione e di squadra inusuale per l’NBA, li hanno mentalmente improntati all’etica del lavoro, costruendo un impianto di gioco corale in grado di massimizzare le qualità degli stessi, mascherandone al contempo i difetti, che restano comunque tanti.
Sono ritornati alle origini del gioco, ben sapendo che cinque sono sempre meglio di uno, due o tre.

Insomma, hanno sfruttato il Lato Debole, lo spazio lontano dagli occhi e dalla nevralgia, contravvenendo a tutto ciò che lo sport e il cinema Americano hanno predicato fino ad ora: la necessità di avere ogni cosa sotto il proprio controllo, l’horror vacui e la volontà di riempire ogni lacuna e sportiva e di showbusiness.
Gli Hawks invece hanno metabolizzato e valorizzato le proprie mancanze e il loro successo è un’ode alle stesse.
Hanno consegnato agli occhi del mondo un modello di pallacanestro moderno e al contempo primigenio, data la sua semplicità, un’impalcatura imperniata attorno ad interpreti “apolidi” da un punto di vista cestistico.
Giocatori che 15-20 anni fa non avrebbero avuto un ruolo e invece adesso giocano, vincono e vengono nominati giocatori del mese (tutto il quintetto degli Hawks), proprio perché appunto sono Cestisti in grado di eseguire, segnare, passare e difendere come un’entità sola. E chissenefrega dei ruoli!

 

La strada che porta alla gloria e al ricordo sempreverde è ancora lunga, ma la prima pietra è stata posata. E ciò è stato fatto proprio laddove nessuno poteva vedere. È stato fatto sul Lato Debole.
Mentre tutti stavamo guardando a destra, loro, ad Atlanta, avevano già deciso che sarebbero andati a sinistra.

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Pubblicato da
Simone Errante

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