All’interno del proprio ufficio a Belgrado Josip Broz è ogni giorno che passa più irrequieto. Da sempre uomo d’azione, tanto da essere ricordato più con il nome di battaglia di Tito assunto durante l’attività sovversiva nel regno di Alessandro I (il primo monarca a riunire le varie identità slave nell’unico Regno di Jugoslavia) e mantenuto durante la Resistenza, ha ormai ampiamente superato i 70 e si rende sempre più conto di quanto lo Stato da lui riunificato sotto il proprio controllo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale sia al proprio interno ogni giorno più instabile e irrequieto. Sul finire degli anni ’60 parole come libertà, autonomia e autodeterminazione dei popoli si rincorrono sempre più da una parte all’altra del mondo: iniziato con la decolonizzazione, in particolar modo dell’Africa, all’inizio del decennio, questo nuovo, inarrestabile corso mondiale è proseguito con le lotte civili negli Stati Uniti, la strenua resistenza vietnamita alle occupazioni francesi e americane, e ora, in quel 1968, le proteste giovanili e la Primavera di Praga repressa nel sangue dalle forze sovietiche. Non può far certo eccezione quel “suo” Stato tanto eterogeneo, quasi una proprietà privata tenuta insieme proprio dalla sua carismatica figura, che limita forze centrifughe sempre meno controllabili tra etnie e popoli profondamente diversi, nonché spesso in conflitto tra loro. E’ anziano, ma non è mai stato stupido, Tito, e capisce che il centralismo da lui imposto non ha più ragion d’essere in uno Stato con le caratteristiche della Jugoslavia: da lì fino alla morte, concederà sempre maggiori autonomie alle sei Repubbliche locali nate dalla suddivisione di stampo federale che avverrà di lì a pochi anni da quel fatidico 1968. Non basterà certo questa mossa a scongiurare l’ultimo, violentissimo conflitto del Secolo Breve in terra europea.
Proprio in quell’anno storico, mentre Tito presumibilmente rifletteva sulle problematiche insite al composito stato nazionale slavo, in una delle calde zone di confine tra una regione e l’altra, vedeva la luce un neonato di considerevoli dimensioni; quasi un avvenimento, in un paesino come Prijepolje, dove la Serbia sfocia in quel Montenegro che quasi quarant’anni dopo sarà uno degli ultimi Stati ad emanciparsi dalla grande nazione degli Slavi del Sud.
Comprensibile dunque quanto la famiglia Divac fosse così orgogliosa di quel ragazzino, tale solo per l’anagrafe, di nome Vlade. Tanto più che il pargolo dimostra subito un certo feeling per uno sport da sempre sentito a queste altitudini come la pallacanestro, e non solo per la stazza eccezionale: già alle prime esperienze in campo viene spesso impiegato da guardia, affinandone tecnica e velocità anche lontano dall’area, ed a 15 anni è già un professionista con la KK Sloga della vicina Kraljevo, giocando peraltro da veterano nella massima serie jugoslava prima ancora di prendere la patente. Sloga riesce a trattenerlo tre anni, poi il ben più prestigioso Partizan di Belgrado apre il portafogli e porta nella capitale il golden boy di Prijepolje, che va ad aggiungersi all’invidiabile collezione di talenti comprendente Aleksandar Dordevic, Zarko Paspalj e i più navigati Zeljko Obradovic e Dusko Vujosevic nelle rispettive versioni sul parquet. Vujosevic a parte, che è nato nell’attuale Montenegro, il Partizan è il team che raccoglie i migliori talenti serbi, in contrapposizione e in accesa rivalità della croata Jugoplastika, che vanta invece i migliori giovani locali, guidati da Dino Rada e Toni Kukoc, in una trasposizione sportiva della tensione ancora per poco latente tra le regioni unificate Alessandro I: rivalità che però rende le squadre slave le regine dell’Europa, e che si ricompone nella Nazionale, che sul finire degli anni ’80 presenta dunque uno dei roster più talentuosi della storia, coronato dalla guida di un talento che da Cibona prima e Madrid poi sembra già poter equivalere da solo a quello, pur notevolissimo, di tutti gli altri messi insieme: l’orgogliosamente croato Drazen Petrovic.
Se sulla penisola balcanica soffiano venti di attriti forti quasi quanto quelli che a inizio secolo finirono con lo scatenare il primo conflitto mondiale, nel resto del mondo il clima è ben più sereno e all’insegna del disgelo dopo oltre quarant’anni di tensione globale: non fa eccezione la pallacanestro, che vede la prima decisa apertura della NBA agli internationals, tra i quali non possono mancare i talenti di quella Jugoslavia. Sbarcano insieme nella Lega nel 1989 Vlade e Drazen, nel frattempo diventati ottimi amici dopo le vittorie con la Nazionale, il serbo ai Lakers dell’ultimo Showtime, il croato ai Blazers del Glide: eppure, nonostante l’ambientamento non facile in una metropoli del tutto agli antipodi dalla sua Prjiepolje e la conoscenza pressoché nulla della lingua, nonché il leggerissimo peso di ereditare il ruolo di centro dall’appena ritirato Kareem Abdul-Jabbar, è Vlade ad avere l’impatto migliore, entrando nel primo quintetto dei rookie, mentre Drazen fatica a trovare spazio e fiducia in quel di Portland: in 2 anni giocano (e perdono) entrambi le Finals NBA, l’uno da titolare, l’altro da comprimario, sostenuto, in una non facile transizione da superstar riconosciuta a gregario a tratti addirittura osteggiato dai compagni, sempre dal compare d’avventura a stelle e strisce. Meno male che c’è la nazionale a ridare fiducia a entrambi, se non fosse che ormai le tristi sorti politiche di quella Jugoslavia si riversano anche nello sport: e così, dopo la vittoria del Mondiale del 1990 in Argentina, ottenuta peraltro eliminando proprio gli States in semifinale, tra i tanti tifosi riversatisi in campo a festeggiare ve n’è uno che sventola energicamente la bandiera di quella Repubblica di Croazia che meno di un anno dopo si sarebbe espressa in modo plebiscitario per la secessione. Vlade non gradisce, per lui quella vittoria è dell’intera Jugoslavia e non deve finire per essere strumentalizzata, ma si fa prendere dalla foga e strappa dalle mani dell’uomo la bandiera, gettandola poi a terra. Sotto gli occhi dei suoi compagni e amici croati, Petrovic compreso.
Divac strappa la bandiera croata a un tifoso. Sosterrà che avrebbe fatto lo stesso anche con una bandiera serba, in quanto infastidito dalla strumentalizzazione, non dal colore.
Gesto voluto o istintivo, il rapporto tra i due non sarà più lo stesso. Ai Lakers i numeri di Vlade, passato titolare già nella seconda stagione tra i pro, migliorano assestandosi oltre la doppia cifra e gli 8-9 rimbalzi a gara, con il picco dei 16+10.4 nel ‘94/95; quelli di Drazen, complice la cessione da Portland al cestisticamente derelitto New Jersey, aumentano ancor di più, visto che coi Nets Petrovic riesce finalmente ad affermarsi come eccellente realizzatore e tiratore mortifero, scollinando subito i 20 di media. Ma la sua patria è messa a ferro e fuoco dalle ostilità coi serbi ormai degenerate in aperto conflitto, e col vecchio amico non c’è più alcun dialogo: e non ce ne sarà fino al tristemente noto 7 giugno 1993, quando un tir invaderà la corsia in cui Drazen viaggiava con la compagna. Per Vlade il colpo sarà durissimo: non solo la perdita di quello che per lui rimaneva un amico, ma anche il senso di colpa per non essere riuscito a ricucire un rapporto strappato, forse, per una semplice incomprensione.
Nella drammatica e controversa situazione attraversata dal proprio paese, in cui il nazionalismo intransigente dilagante riusciva a confondere anche i rapporti umani con persone fino a poco prima amiche e ora distanti, se non ostili, solo in ragione di una sfumata etnia e diversa appartenenza, Vlade si rifugia nella Los Angeles degli anni ’90, che in ambito cestistico sta attraversando a sua volta un momento di transizione, di gran lunga comunque meno drammatico della situazione dei Balcani. Ma nella spensierata e forse un po’ frivola L.A. uscita dallo yuppismo degli 80s il ritiro di Magic Johnson per sieropositività risulta comunque traumatico, e i risultati in campo ne risentono, specie dopo il successivo abbandono dell’ultimo eroe dello Showtime, James Worthy, che porta alla prima, a sua volta traumatica stagione senza playoff dagli anni ’70 a questa parte (‘93/94). Nonostante il pronto ritorno nella stagione successiva, questa squadra non è certo una contender, e non può bastare il clamoroso quanto fugace rientro di Magic nel ‘95/96 a renderla tale; serve una svolta, urge rischiare, e ad agire sarà un GM tanto visionario quanto vincente come Jerry West.
Nell’estate del 1996 Shaquille O’Neal entra nella free agency ed è fortemente attratto da una metropoli che possa massimizzarne l’enorme impatto mediatico. West lo sa bene e ha tenuto lo spazio per potergli offrire il massimo salariale; nel contempo però vorrebbe affiancargli un ragazzino che nei provini pre Draft l’ha letteralmente folgorato. Il vecchio Jerry, che di talento se ne intende eccome, capisce subito che quel Kobe Bryant non è un semplice liceale di talento, ma sa che non arriverà mai alla 24, quando scelgono i Lakers; e così, senza avere la certezza che O’Neal avrebbe firmato la sua faraonica proposta (comunque minore di quella offerta da Orlando, tra l’altro), si accorda con gli Charlotte Hornets affinché chiamino il prodotto di Lower Merion High School e lo girino poi ai Lakers in cambio di Vlade Divac. Gli Hornets probabilmente pensano a un attacco di arteriosclerosi quando West offre loro il proprio centro titolare per un ragazzino bravo ma dal futuro comunque oscuro, mentre la storia darà decisamente ragione a Mr. Logo (il quale peraltro completa l’opera usando la famosa pick numero 24 per chiamare Derek Fisher).
Non va poi così male al nativo di Prijepolje, visto che da un punto di vista cestistico Charlotte è una città in grande ascesa: guidata da tiratori come Glen Rice e quel Dell Curry oggi famoso più per le gesta del primogenito che per la propria comunque non indifferente pericolosità dal perimetro, dal folletto Mugsy Bogues e dal recentemente compianto Anthony Mason, con l’innesto del serbo gli Hornets iniziano a coltivare ambizioni importanti nella pur competitiva (pare una barzelletta, visto il presente) Eastern Conference: e in effetti per due anni consecutivi scollinano le 50 vittorie, salvo venire eliminati prima dai Knicks di Pat Ewing al primo turno nel ‘97 e poi dai Bulls in procinto di ultimare il secondo threepeat dell’era Jordan al secondo turno dei playoff ‘98. Divac gioca due discrete stagioni, mantenendo all’incirca le proprie medie (che si impenneranno proprio nel duello ai playoff con Ewing), ma il sole della California rimane un’altra cosa: e così, divenuto free agent, prima sonda il mercato e poi accetta la proposta dei Sacramento Kings, concedendosi anche un breve ritorno in Europa durante il lockout nella sua Belgrado, sponda però Stella Rossa, per la prevedibile gioia degli ex tifosi del Partizan (con cui si riconcilierà assumendo la presidenza della società nel 2000 assieme a Sasha Danilovic).
Intanto però il lockout è terminato, e i Kings da barzelletta itinerante della Western sono ora una squadra vera, che vince, diverte e si diverte con gli approdi dello stesso Divac, di una riconosciuta star come Chris Webber e di due rookie di buonissime speranze come Jason Williams e un connazionale di Vlade giunto da Salonicco, dove è fuggito con l’esplodere del conflitto nella terra natia: Predrag Stojakovic. Il nuovo coach Rick Adelman vince le stesse partite stagionali del predecessore Eddie Jordan, 27, ma stavolta su 50, non su 82, e i Kings tornano ai playoff, dando anche parecchio filo da torcere ai favoritissimi Jazz di Stockton e Malone (fuori 2-3 al primo turno). Copione che si ripete la stagione successiva, stavolta per mano dei Lakers, ma sarà con gli approdi di Doug Christie, Bobby Jackson e soprattutto Mike Bibby che i Kings non solo esprimeranno un gioco spettacolare, ma diventeranno anche una delle migliori squadre dell’intera Lega. Divac, dal canto suo, trova giovamento dalla ritrovata aria oceanica della California, nonché dal vivace gioco offensivo dei Kings, e chiude la prima stagione a oltre 14 punti e 10 rimbalzi; numeri che calano leggermente nelle stagioni successive, non rendendo quindi efficacemente la presenza e la leadership portata dall’ormai esperto lungo, chioccia di un gruppo relativamente giovane ed esuberante, oltre che elemento fondamentale con la sua visione e il suo gioco fronte a canestro di quella Princeton Offense che farà le fortune di Sacramento.
Ad essere precisi, più che farne effettivamente le fortune, il sistema offensivo di Pete Carril li porterà a un passo da esse, senza però riuscire a chiudere il cerchio: nel 2001 sono di nuovo i Lakers a mandare in vacanza i cugini della capitale californiana con un perentorio 0-4 nel secondo turno, ma sarà nel 2002 che i Kings vedranno distintamente le Finals e il successivo probabile Larry O’Brien senza riuscire ad acciuffarli, in una finale di conference tuttora ricordata come una delle più belle e combattute serie dell’intera storia NBA. Lakers e Kings sono ugualmente squadre di livello altissimo, e si danno battaglia per 7 incredibili gare in cui succede di tutto: episodi fortunosi, buzzer beater incredibili da parte di chi da questo momento sarà meritatamente ricordato come Mr. Big Shot, trash talking continuo tra lo stesso Divac e Shaq, rimonte difficilmente pronosticabili, polemiche sfociate talvolta addirittura in sospetti di favoritismi istituzionali verso la franchigia più glamour. Ma a parlare alla fine è sempre il campo: sono i Lakers a uscire vincenti dalla serie, è Shaq a poter canticchiare un motivetto canzonatorio nei confronti di Divac, e saranno lui e Kobe ad alzare il citato Larry O’Brien.
Sono giovani, avranno modo di rifarsi, il rapporto tra Kobe e Shaq sembra sempre più difficoltoso e allora, Spurs permettendo, saranno loro a regnare su Western e NBA. Tutti discorsi plausibili e comprensibili all’epoca, ma quando perdi per tanto così il treno che poteva cambiarti la vita non è scontato che sarai pronto per i successivi: può essere che rimarrai invece a crogiolarti guardando il primo sbuffare in lontananza. Qualcosa insomma si rompe in quei Kings, psicologicamente e poi, ineluttabile come una maledizione, anche fisicamente, visto che dopo un’altra ottima stagione nei playoff Webber subisce quell’infortunio al ginocchio che ne limiterà definitivamente la carriera, portando al secondo 3-4 consecutivo nel secondo turno coi Mavs e poi anche al terzo, l’anno successivo coi Wolves, in cui proprio il rientro di Webber scombussolerà gli equilibri trovati con uno Stojakovic in versione macchina da punti. Divac continua imperterrito a portare il proprio importante contributo, ma le primavere sono ormai ampiamente oltre il triplo decennio e nel 2003 il GM Geoff Petrie inizia già a pensare alla sostituzione, affiancandogli un centro dalle caratteristiche simili, e quindi adatto alla Princeton Offense, come Brad Miller. E così, ormai 35enne e free agent, Vlade decide di tornare la dove la sua carriera NBA era iniziata e dove, ironia della sorte, era finito quell’anello andato tanto vicino alle sue dita: la Los Angeles sponda Lakers, dove si è infine consumato il divorzio tra Kobe e Shaq e c’è quindi necessità di un lungo esperto per la nuova e più giovane squadra. Anche il canto del cigno non andrà come sperato: tormentato da un’ernia, Divac salta quasi tutta la stagione e anche quando riesce a giocare fatica a stare in campo in quei mediocri Lakers targati Tomjanovich e poi Hamblen (ma comunque migliori di quelli attuali, ed è tutto un dire). Nonostante il pronto ritorno di Phil Jackson in panchina dopo un anno sabbatico, per Vlade, ormai anziano e acciaccato, è ora di dire basta.
11.8 punti, 8.2 rimbalzi e 3.1 assist. Visti così sembrano numeri da comprimario, da sommarsi all’unica convocazione all’All Star Game (nel 2001, quando peraltro a chiamarlo fu lo stesso coach dei Kings, Rick Adelman) e ovviamente all’assenza di argenteria alle dita, forse il suo più grande cruccio sportivo. Ma non è coi numeri, o meglio non con questi, che si può valutare l’impatto di Vlade Divac nel mondo NBA: il centro formatosi nel Partizan infatti è forse il caso più emblematico, assieme ad Arvydas Sabonis, di lungo europeo, in grado di abbinare a una struttura fisica imponente una tecnica e un trattamento del pallone degno di un esterno, comprendente un’ottima visione di gioco e capacità di passaggio. Non è un caso che Divac faccia parte dell’esclusivissimo club (comprendente solo lui e qualche nome di poco impatto come O’Neal, Abdul-Jabbar e Olajuwon) dei giocatori in grado di chiudere la carriera con almeno 13.000 punti, 9.000 rimbalzi, 3.000 assist e 1.500 stoppate, e sono in particolar modo i 3.000 assist a stupire, vista la sostanziale assenza di grossi raddoppi o accortezze difensive che invece toccavano regolarmente gli altri tre. Con la sua capacità di uscire dall’area e trovare puntualmente i compagni liberi Divac è stato un elemento perfetto per la Princeton Offense e ha aperto la strada a una concezione di lungo più mobile e tecnico, figura ormai quasi sempre indispensabile nelle squadre NBA moderne (almeno uno dei due giocatori interni), in grado di dare maggiori soluzioni e possibilità tattiche. Nonostante i numeri citati, si può dunque intuire perché Sacramento l’abbia onorato del ritiro della maglia numero 21 nel 2009, riconoscimento che condivide con Chris Webber e Peja Stojakovic, tre elementi di una squadra che rimarrà nella storia pur senza aver vinto. E scusate se è poco, per un ragazzo che, nato nella Jugoslavia dell’ultimo periodo dell’era Tito, ha vissuto le drammatiche conseguenze di quella politica accentratrice, venendo toccato anche personalmente dagli effetti di quel conflitto, ma non perdendo mai la propria giovialità e affabilità.