Un sorridente Malone alza il Larry O’ Brien trophy al cielo. Intorno a lui un vortice di colori si amalgama alle sue emozioni. Dal soffitto del Delta Center migliaia di coriandoli danzano leggeri verso il parquet e, riflettendo le luci accecanti dei flash si posano dolcemente sulle teste della marea umana che ha invaso il campo da gioco. Dall’alto del lungo podio situato al centro del campo Karl osserva compiaciuto. William Cunningham e Troy Hudson, rispettivamente panchinaro destro e sinistro, sommergono coach Sloan con il secondo giro della consueta e sacrosanta doccia di Gatorade. Stern dice qualcosa a Hornacek che però non riesce a sentire, c’è troppo fragore. Fragore che in realtà per tutti i presenti è la Nona di Beethoven. Gioia, gioia irrefrenabile. Persino “il muto” si sta facendo sfuggire più parole del solito. E’ il coronamento di un percorso lunghissimo durato anni. E’ l’affermazione di una squadra che getta le sue fondamenta a fine anni ottanta per raggiungere l’apice nel biennio 97-98. Dando l’anima in campo i ragazzi di Salt Lake City erano riusciti a ottenere vittorie importanti. Alla fine però non c’era mai stato un titolo e quell’ambizione era sempre e solo rimasta un sogno. Un sogno che tanto avevano ambito da pensare forse che sarebbe stato meglio soltanto continuare a immaginarlo, perché data la spietata realtà dei fatti sembrava l’unica via percorribile. Adesso invece erano lì, tutti loro: giocatori, coach, staff e gli affezionatissimi tifosi che mai avevano abbandonato la squadra. Ce l’avevano fatta. Bello vero? Ecco, tutto questo non è mai accaduto. Già perché MJ aveva immaginato la serata in maniera un po’ diversa. Perciò, già che c’era, dopo aver strappato la palla delle mani di Malone ed essere arrivato nella metà campo offensiva metteva a sedere Bryon Russell con la stessa naturalezza con cui noi respiriamo e bum. Canestro. Vittoria. Titolo. Tutti a casa. I Bulls incorniciavano un dominio cestistico che imbarazzerebbe anche Carlo V, Utah sprofondava nel baratro. Adesso, Utah avrebbe davvero meritato un anello ma ha avuto la sfortuna di trovarsi a esercitare il ruolo di contender mentre dall’altro lato del paese c’erano i Monstars, o Chicago Bulls se preferite. C’è un proverbio che dice: “ i se e i ma sono il patrimonio dei bischeri”. Queste poche parole servono a ricordarci che la vita, la storia o qualsiasi altra cosa con cui intrallazziamo non si realizza con le congetture. A volte però è bello immaginare come sarebbe stato. Non tanto per dare sfogo alle nostre fantasie. Per quei giocatori che hanno dato tutto, ma proprio tutto, cui si può biasimare davvero poco. Ecco il perché di quel volo pindarico di qualche riga fa. Stiamo per riavvolgere veloce il nastro e tornare all’inizio di un percorso che non è sfociato in uno o più titoli come in moltissimi speravano, ma che vale la pena rivivere perché denso di emozioni che a distanza di anni ci fanno ancora saltare dalla sedia. Mettetevi comodi quindi, è arrivata la posta.
GLI ALBORI
Quel tiro, “The Shot”, non aveva ancora causato nessuna sincope ai tifosi Jazz che anzi guardavano al futuro con occhio lungimirante e speranzoso. Dopo l’arrivo di Karl Malone con la tredicesima scelta al Draft del 1985, le cose stavano andando nel verso giusto. L’acquisizione della franchigia da parte di Larry Horne Miller sempre nel ‘85, decretò la fine dei problemi economici della stessa, facendo crescere le aspettative. Deluse fino allora. La scintilla arrivò dopo la diciassettesima partita di regular season. Coach Lyden fuori per Jerry Sloan. L’ex giocatore e in seguito allenatore dei Bulls fu come una ventata d’aria fresca in casa Jazz e la qualità del gioco dei mormoni cominciò a salire. Andava tracciandosi l’ossatura della squadra e il feeling tra i cinque in campo cresceva. L’asse Stockton-Malone stritolava un avversario dopo l’altro dimostrando un potenziale offensivo enorme e inarrestabile. Le chiavi della difesa erano affidate a Mark Eaton e dalla panchina portavano ossigeno sul parquet il veterano Darrell Griffith e Thurl Bailey, si quello che ha giocato in Italia dal ’95 al ’98. Primavera significa giornate più lunghe, il calore estivo che comincia a fare capolino in lontananza, voglia di stare all’aria aperta e playoffs. Tutte cose belle insomma. Non per i Jazz. A discapito di grandi prestazioni nella regular season Utah soffriva di una vera e propria sindrome da post season. Per due anni di fila, infatti, fu sbattuta fuori al primo turno. Da Golden State prima e dai Suns poi. Insomma le incredibili prestazioni di Malone, Stockton e compagni sembravano non bastare per lottare con le grandi. Eppure i ragazzi di Salt Lake City non si risparmiavano affatto, limitando al massimo gli avversari. Tanto che nel 1989 fissarono la migliore prestazione difensiva della storia della franchigia concedendo solamente 99.7 punti a partita.
“don’t even think about it”
LA SVOLTA
Stagione 1990-91. Stockton alzò ancora l’asticella. Non si sa bene con chi stesse gareggiando però. In quel giro di giostra i passaggi trasformati in canestri dai compagni furono 1164, raggiungendo così i mille assist a stagione per il quarto anno consecutivo. Imbarazzante. Malone veniva di nuovo nominato per l’“All-NBA First Team” e di nuovo si piazzava dietro a Michael Jordan nella classifica marcatori con 29 di media. Non sono però queste incredibili prestazioni che indirizzarono il destino dei Jazz verso lidi più felici ma bensì una mossa di mercato. Ci voleva una svolta, la squadra c’era ma mancava quella scintilla che le avrebbe permesso di lottare ad armi pari con tutti. Uno dei problemi più grandi che affliggeva Utah in quel momento era la mancanza di profondità. Senza un organico a tutto tondo era difficile non bruciarsi quando il gioco si faceva tosto. La dirigenza del team se ne accorse e nell’off season intavolò una trade azzeccatissima. “When life gives you lemons, make lemonade”. Un Malone non è abbastanza? Prendine un altro! Ecco quindi che partirono Bobby Hansen, Eric Lekner e due scelte al draft per l’arrivo in città dell’esplosiva shooting guard Jeff Malone e la musica da quel momento in poi cambiò. Nonostante una falsa partenza Utah si riprese bene. Intavolando ottime strisce positive finì la stagione con un ottimo 54-28, pareggiando il record di vittorie casalinghe dei Blazers fissato su 36-5. Non male come ultimo anno al Salt Palace. Eccoci quindi nuovamente ai blocchi di partenza dei playoffs dove erano di nuovo i Suns ad attendere Utah. Stavolta le gambe non tremarono ai ragazzi di coach Sloan che si aggiudicarono la serie in quattro partite. L’anatema del primo turno era sfatato permettendo così ai Jazz di approdare alle semifinali di Conference. Qui trovarono un’altra grande rivale dell’epoca: Portland. Troppo forte e profonda la squadra dell’Oregon. La serie terminò in un secco 4 a 1 per Porter e compagni.
Jeff Malone in azione
NUOVA CASA NUOVA VITA
Con l’arrivo dello specialista difensivo Tyrone Corbin al posto di Thurl Bailey e il trasloco al Delta Center, i Jazz cambiarono pelle. Dopo un avvio di stagione singhiozzante inanellarono una serie vincente nelle ultime sette partite di stagione pareggiando il record di franchigia fissato a 55-27 e prendendo possesso della migliore prestazione casalinga con 37 vittorie a fronte di solo 4 sconfitte tra le mura amiche. Arrivò di nuovo il momento del basket che conta. Utah si fece trovare pronta. Sconfitti i Clippers dell’ostico Mike Schuler in un’avvincente serie terminata 3 a 2, volarono in semifinale per affrontare Seattle. I 20 punti messi a referto in gara 1 da McKey e i 26 di Johnson in gara 2 non bastarono ai Supersonics che finirono sotto 2 a 0. In gara 3 però furono i Jazz a cadere sotto i colpi della squadra guidata dal neo allenatore NBA George Karl. Fortunatamente fu un giro a vuoto momentaneo e i Jazz chiusero la serie in due match. “Western Conference Finals”. Finalmente un palcoscenico che appagava gli sforzi fatti dai mormoni. Si trovarono di fronte alla solita bestia nera che rispondeva al nome di Portland Trail Blazers. La lotta con Clyde Drexler, Terry Porter e affini stavolta non fu impari. Dopo aver visto Portland scappare via nelle prime due gare in trasferta Utah rispose presente e sotto gli occhi dei propri tifosi impattò la serie sul 2 a 2. Purtroppo però quegli stessi occhi dovettero assistere al tracollo dei loro beniamini per 105 a 97 in gara 6. Quell’eliminazione bruciò ai Jazz che nella stagione 1992-93 ne pagarono lo scotto. L’anno del “Dream Team” infatti, fu un mezzo disastro. Chiusero con un record di 47-35. Malone raggiunse i 15.000 punti in carriera, Stockton gli 8.000 asisst. Tutto questo non era abbastanza. Utah non aveva ancora dimostrato di avere quel dinamismo, quello stimolo interiore capace di mettergli un anello al dito. La dirigenza cercò di compensare il calo fisico di Eaton con l’ingaggio di James Donaldosn ma fu una mossa di poca rilevanza. Utah finì di nuovo fuori al primo turno per mano di “The Glove” e i suoi Supersonics. Il ritiro di Michael Jordan dal basket professionistico lasciò un po’ tutti con l’amaro in bocca. Era però anche una grandissima occasione per accaparrarsi un titolo e i Jazz sempre in cerca di rivalsa cominciarono a muoversi in quella direzione. Durante la regular scambiarono Jeff Malone per Jeff Hornacek, una guardia dal talento meno grezzo rispetto all’omonimo di “The Mail Man” e un potenziale di tiro niente male. Venne anche ingaggiato Tom Chambers e il bagaglio d’esperienza che portava con sé. Eliminati gli Spurs per 3 a 1 al primo turno i Jazz erano più fiduciosi che mai. Le ambizioni di Utah furono notevolmente ridimensionate quando nelle semi di conference si scontrarono con una trottola impazzita. I Denver Nuggets. Tutto facile nelle prime tre per i Jazz. Le pepite, che annoveravano tra le loro fila un giovanissimo Mutombo, non avevano niente da perdere e lo dimostrarono nei tre incontri successivi. Serie sul 3 pari e tutto da rifare. In gara 7 ci si giocava tutto. Un altro stop prematuro avrebbe definitivamente sollevato un polverone nell’ambiente già su di giri che era lo spogliatoio mormone. Non andò così e fu di nuovo finale di conference. “My dreams end yours” recita così la scritta stampata su molte t-shirt Nike. Ed è proprio quello che successe in quelle finali. Troppo ghiotta l’occasione per, “The Dream”, Hakeem Olajuwon di agguantare un titolo ora che MJ era fuori dalla scena. I suoi Rockets passeggiarono facile su Utah con un secco 4 a 1 volando poi alla conquista del titolo NBA. La squadra della stagione 1994-95 fu a detta di Karl Malone la migliore in cui abbia mai giocato. Difatti arricchì il suo organico mettendo sotto contratto un giocatore dal talento cristallino: Antonie Carr. Anche la panchina dei Jazz si consolidò. Oltre al già citato Carr arrivarono giocatori di ottimo rango come: Adam Keefe, James Donaldson e Blue Edwards. La squadra, che per molti era una delle favorite al titolo, subì un forte trauma dopo 34 partite quando il tendine d’Achille del centro titolare, Felton Spencer, disse basta costringendolo a fermarsi per il resto della stagione. Nulla poterono contro Houston che lì spedì in vacanza prematuramente eliminandoli al primo turno.
UN PASSO INDIETRO POI SEMPRE AVANTI
Il gioco degli Utah Jazz era fondamentalmente semplice. Stockton to Malone a go go e un contributo costante e prolifico da parte di tutti gli altri giocatori. Questa formula aveva permesso loro di rimanere sempre tra le grandi della lega ma mai di farli sbarcare alle Finals.
Un’ironia che si ripresentò anche nelle fasi finali della stagione 1995-96. Dopo aver battuto Portland in una serie che si risolse solo in un’elettrizzante gara 5 vinta 102 a 64 dai Jazz ed essersi sbarazzati degli Spurs in semifinale; furono pochi tiri liberi alla Seattle Key Arena a negare loro l’accesso alle finali. Le cose stavano per cambiare. Malone conquistò il suo primo titolo di MVP e la stagione 1996-1997 terminò per i Jazz con un record di 64-18 garantendogli così il fattore campo. Passeggiando su Clippers, Lakers e Rockets e concedendo solo tre vittorie agli avversari per tutti i playoffs, i Jazz finalmente approdarono alle tanto agognate “NBA Finals”. La squadra era solida e oltre alle solite pietre miliari poteva contare su giocatori come Bryon Russel, Howard Eisley e Shandon Anderson. Il vero problema dei Jazz però non era tanto organizzare una squadra vincente o superare dei blocchi mentali. Il problema fu che alle Finals trovarono un avversario indomabile. I Chicago Bulls di Michal Jordan, Scottie Pippen e Dennis Rodman. Pronti via. E’ subito spettacolo allo United Center, dove Utah ammortizzò bene il gioco e gli straordinari individualismi dei giocatori di coach Zen. Gli ultimi tre minuti e mezzo furono da attacchi epilettici. Sei ribaltamenti di punteggio. Furono però i 9.2 secondi finali che affondarono i Jazz. Partita in parità. 2 tiri liberi per “The Mail Man” entrambi sbagliati. Le parole di Brian Williams esprimono al meglio quello che successe dopo. “ Give the ball to Michael and get out of the way”. Detto fatto. Rimbalzo di Pippen, fuori per Kukoc e poi la palla arrivò nelle mani di Jordan. Titolo NBA? Ce l’ho. MVP? Ce l’ho. MVP delle Finals? Ce l’ho. Buzzer beater nelle Finals? Manca. Crossover su Russel, tiro da appena dentro l’arco “and Jordan win the game!”. Gara 2 vide salire in cattedra MJ con 38 punti, 9 assist e 13 rimbalzi. L’organico dei Bulls fece il resto. Una prestazione a tutto tondo di Ron Harper con 13 punti e una difesa asfissiante su Stockton. Il solito contributo di Pippen con 10 punti. Per i mormoni Hornacek ne mise 19 e Stockton 14. Questo non bastò ai Jazz che non furono mai al comando della partita. Tutti in aereo quindi. Si volava via dalla “Windy City” per spostarsi nelle più amichevoli Montagne Rocciose. Gara 3. L’ultima finale cui Salt Lake City aveva assistito risaliva a ben 23 anni prima. Il Delta Center era Karachi il giorno della festa dell’indipendenza. Mentre sugli spalti alcuni tifosi Bulls si vedevano costretti a tapparsi le orecchie in campo Malone e compagni liberavano la patria. Con 37 punti e 10 rimbalzi Karl mise i blocchi a Jordan “limitandolo” a 26 punti. Greg Foster, tagliato da Chicago nel ’94, realizzò il suo carrer-high mettendone 17 nella schiena dei tori. Russel con 12 e Stockton con 17 e 12 assist tamponarono i 27 di Pippen e le scorribande di Williams dalla panchina. Serie sul 2 a 1. I Jazz continuarono a premere sull’acceleratore consapevoli di poter lottare fino alla fine con Chicago. Gara 4 è riassumibile con i tiri liberi realizzati da Malone e l’assenza di punti di Jordan nel terzo periodo. Il salvatore della patria quel giorno tuttavia fu John Stockton. “Il muto” con 17 punti e 12 assist tenne le redini della partita sempre ben salde tra le sue mani e con alcune giocate incredibili nel finale impattò la serie sul 2 a 2. Il 13 Giugno 1997 è una data che si ricordano pressoché tutti gli appassionati di basket. “The Flu game”. Con un’intossicazione alimentare che lo vide costretto allo strenuo delle forze Jordan scesce in campo e regalò magia a tutti i presenti. Tirò male, 13 su 27 in 44 minuti giocati, ma quando era importante la palla andava sempre dentro. 15 punti dei suoi 38 totali li realizzò nell’ultimo quarto. Tre di questi furno la tripla del pareggio a 25 secondi dalla fine. Si tornava nell’Illinois dunque. La partita non era male ma i Bulls semplicemente non si sarebbero lasciati sfuggire il loro quinto titolo nemmeno se Rodman avesse giurato di smettere di cambiare colore ai capelli. Il giustiziere dei Jazz fu però Steve Kerr. Sotto consiglio dello stesso Michael che, ovviamente, sapeva che sarebbe arrivato il raddoppio di Stockton su di lui pianificò lo scarico proprio per l’attuale coach di Golden State. “You be ready”. Steve si fece trovare pronto. Partita vinta per 90 a 86 e quinto titolo ai Bulls. I Jazz uscivano sconfitti ma a testa alta da quelle finali. Consci di aver lottato contro un avversario che domina la scena da anni lasciando solo le briciole agli avversari. L’anno seguente Utah non apportò modifiche sostanziali al proprio roaster sicura che quella fosse la formula vincente per arrivare ancora in fondo. Difatti andò così. Un infortunio a Stockton durante la stagione limitò Utah a regimi leggermente più bassi. Rientrato il muto riprese anche il cammino verso le Finals. Dopo le difficoltà iniziali avute al primo turno contro i Rockets, si sbarazzarono prima degli Spurs per 4 a 1 e dei Lakers in finale di confernce con uno sweep inaspettato.
Sembrava che tutto fosse stato predisposto per una rivincita. L’avversario era sempre sua altezza aerea. I Jazz partirono col piede giusto vincendo gara 1 all’over time. Gara 2 fu un contest di tiri sbagliati per Malone e Jordan. “The Mail Man” vinse l’inusuale competizione. I Bulls la partita. 96 a 54 fu il punteggio di gara 3 in favore di Chicago. Gli ennesimi 24 punti di Jordan e la tenaglia difensiva costruita da Jackson costrinsero Utah a tirare col 38% e a 12 palle perse. Il sette volte consecutive leader nei rimbalzi della lega Dennis Rodman fu multato di qualche migliaio di dollari per aver saltato l’allenamento del Lunedì. Quella stessa notte si presentava a un incontro di wrestling come “Rodzilla”. Se Phil Jackson lo teneva in squadra, un motivo ci doveva essere. C’era eccome. 4 tiri liberi realizzati negli ultimi tre minuti e la scomparsa dai radar della partita di Karl Malone nell’ultimo quarto furono proprio opera di “The Worm”. Con la serie sul 3 a 1 per i Bulls a Salt Lake City si rompevano i salvadanai per organizzare la vacanza a Las Vegas da cui i tifosi Jazz sarebbero tornati senza il ricordo di quei due anni pronto a essere seppellito sotto ettolitri di gin tonic. L’orgoglio dei mormoni però emerse inaspettatamente. Malone realizzò 39 punti, Carr ne mise 12, Stockton ancora da 12 punti e 12 assist. La festa programmata per quel post partita da un’intera città fu rinviata. Rieccoci quindi all’inizio della nostra storia. In quella gara 6 Malone ne mise 31 accompagnati da 11 rimbalzi e 6 assist. Hornacek 17. Stockton ne mise 10, tre dei cui erano una tripla a 41 secondi dalla fine che diede il comando ai Jazz per 86 a 83. Com’è andata però lo sappiamo già. Quel tiro non poteva fare altro che entrare e per i Bulls fu il secondo three-peat. Sono 147 le partite nei playoffs per Stockton, 137 per Malone, e nessun titolo per entrambi. Circondati da compagni di altissimo livello, hanno trasportato Utah verso vette altissime con schemi a un coefficiente di difficoltà enorme alternati ad altri di una semplicità tanto cristallina quanto efficace. La loro presenza ai playoffs è stata regolare per più di un decennio dimostrando una costanza di rendimenti e una forza mentale invidiabile. Forse l’unico rammarico di quei Jazz è proprio di essere arrivati alle tante agognate finali quando in giro c’era l’avversario più ostico che potesse trovare. Ettore contro Achille insomma.
Jerry Sloan è il terzo allenatore più vincente di sempre con 1221 vinte e 803 perse. Detiene anche il record della più lunga striscia vincente con la stessa squadra, quegli Utah Jazz che non hanno mai vinto un anello ma che hanno conquistato il cuore di tutti.