Categorie: Hall of Famer

The Others – Toni Kukoč, o “Three-Pointers for the History”

Quando ci si mette seduti a pensare alla storia della NBA ci sono alcuni nomi che immediatamente si presentano alla mente. Uno su tutti, quello di un certo Michael Jeffrey Jordan, un tizio che è solo universalmente considerato come il più grande giocatore di basket di tutti i tempi e le latitudini. Questa reputazione, assolutamente meritata, è dovuta a due eventi che gli appassionati amano chiamare three-peat, ossia la vittoria del titolo NBA per tre anni consecutivi. Una cosa difficile, quasi impossibile da realizzare. Una cosa che al suddetto Michael riuscì per ben due volte. Ma se MJ era il cuore di quei Bulls dei miracoli, il cuore dei Bulls da 72 vinte e 10 perse in regular season, il cuore di una squadra francamente irripetibile, non bisogna dimenticarsi degli “attori non protagonisti”, dei comprimari a cinque stelle che con His Airness si sono divisi il parquet in quei sei anni straordinari (e non solo in quei sei anni). Non bisogna dimenticarsi degli Scottie Pippen, degli Horace Grant, dei Dennis Rodman, degli Steve Kerr e dei Phil Jackson di questo mondo. Ma soprattutto non bisogna dimenticarsi di un uomo che quei Bulls li raggiunse, dall’Europa, in un momento di drammatica incertezza, quando MJ pensava bene di darsi a una carriera nella Minor League Baseball. Un uomo che senza troppe parole, ma con tanti, tanti fatti, di quei Bulls divenne anima silenziosa e schiva, fino al ritorno del Messia con il #23 (temporaneamente #45) e il nuovo approdo alla terra promessa con annesso triplo Larry O’Bryan Trophy. Non bisogna dimenticarsi di Toni Kukoč, della Pantera Rosa, dell’Airone di Spalato, dell’uomo che tirava triple per entrare nella storia.

La storia di Toni incomincia a Spalato, nella Repubblica Federale di Jugoslavia, il 18 settembre del 1968. È il giorno in cui viene alla luce, figlio di un ex portiere appassionato di sport, che aveva giocato per qualche tempo nelle serie minori jugoslave. Tanta passione era evidentemente genetica, dal momento che anche Toni, sull’esempio del padre, comincia subito a nutrirsi di sport. Gioca a calcio per un certo periodo, poi a ping-pong, disciplina nella quale vince anche qualche titolo giovanile. Infine Toni Kukoč fa il suo incontro con il basket. È una folgorazione, la nascita di un amore incommensurabile. Toni è perfetto per il basket e il basket è perfetto per lui, che ha un fisico imponente (2.10 m per 107 kg) e un cervello rapido e calcolatore. Chi lo guarda giocare si accorge subito delle sue qualità: un mancino fluido e preciso da qualsiasi distanza, una esplosività impressionante agli arti inferiori, piedi velocissimi, una tecnica raffinata e un Q.I. cestistico da far invidia a molti playmaker. Con caratteristiche simili non può passare a lungo inosservato. Nel 1985 infatti, quando è appena diciassettenne, viene fatto esordire nel massimo campionato jugoslavo, dalla Jugoplastika Split, la squadra della sua città natale, dove si affianca a un altro ragazzo prodigio e astro nascente, un certo Dino Rađa.

In una squadra dalla chimica straordinaria, che gioca quasi a memoria Toni trova in fretta la sua dimensione e si afferma come un’ala piccola di straordinario valore, in grado però di ricoprire ogni altro ruolo in campo. Le sue prestazioni gli valgono la nazionale juniores: nel 1987, ai Mondiali di Bormio infila 11 su 12 tiri da tre in una partita contro gli USA riscrivendo il record iridato e apponendoci il suo nome. Non male per un diciannovenne. La Jugoplastika (che diventerà, nel 1991, Pop 84), presa per mano da questo giovane straordinario, si incammina su un viale di grandi successi: quattro titoli di YUBA Liga consecutivi, tra il 1987/88 e il 1990/91, due coppe di Yugoslavia nel 1990 e nel 1991, ma soprattutto tre Coppe dei Campioni consecutive, nel 1988/89, 1989/90 e 1990/91. A tutta questa serie di coppe e trofei, Toni aggiunge anche i riconoscimenti personali, come i due MVP delle Final Four di Coppa dei Campioni nel 1990 e nel 1991, in concomitanza con i due “Three Crown”, ossia la vittoria dei tre titoli maggiori (campionato, coppa nazionale e Coppa dei Campioni ) siglati dalla sua Split.

Gli osservatori di mezzo mondo impazziscono per lui. In Europa è desiderato come un frutto proibito, mentre dall’altro lato dell’Oceano Atlantico c’è un uomo che ne è follemente innamorato. Il suo nome è Jerry Krause, di professione fa il GM dei Chicago Bulls, e nel Draft NBA del 1990, utilizza la scelta #2 del secondo giro (#29 assoluta) per selezionare proprio lui, l’Airone di Spalato. Ma è un’epoca diversa, un’epoca in cui gli europei in NBA sono pochi e malvisti, e le stelle di quei Bulls, Scottie Pippen e Michael Jordan, sono due di quelli che li vedono molto, molto male. Si mettono a fare pressione sull’establishment per ritardare l’arrivo di quel lungagnone europeo che Krause si era detto pronto a pagare qualsiasi cifra, anche più di Pippen (il che non doveva essere stato esattamente un argomento a favore di Toni, agli occhi del futuro Hall of Famer). Ma è lo stesso Kukoč a decidere che non è tempo di fare il grande salto verso l’Illinois. Dopo un altro anno vittorioso a Spalato, nell’estate del 1991, mentre la Jugoslavia è in una fase di drammatica instabilità politica, fa armi e bagagli e si trasferisce. Non troppo lontano, a dir la verità, perché la sua destinazione è Treviso, in quella Benetton che sta mettendo in atto un mercato sontuoso, faraonico.

Kukoč è la pedina fondamentale che nei piani della società, affiancata a Massimo Iacopini, Vinny Del Negro e all’altro nuovo arrivato, Stefano Rusconi, deve condurre i bianco-verdi verso luminosi traguardi che hanno nomi ben precisi: scudetto, Coppa Italia, Coppa dei Campioni. Soldato di una truppa compatta guidata da Mike D’Antoni, Toni è pronto a prendersi gloria e trionfi anche al di fuori dei confini natii. Ma qualcosa va storto in quel primo anno a Treviso. Un grave infortunio lo blocca per un paio di mesi all’inizio della stagione, e la Benetton, che risente anche della contemporanea assenza di Rusconi, comincia a fallire i primi obiettivi stagionali, come la Coppa Italia (sconfitta in finale contro la Scavolini Pesaro) e la Coppa Korać (eliminazione per mano di un modesto Peristeri). Poi però, con il ritorno dell’Airone a pieno regime, la stagione di Treviso vive una svolta, la squadra prende il via e chiude la regular season al secondo posto. Le medie di un Kukoč strepitoso parlano di 21 pts, 5 rbd e 6 ass a partita. Ai play-off il cammino trionfale può continuare, e la Benetton si sbarazza facilmente prima di Trieste e poi di Roma, per arrivare in finale, di nuovo contro i biancorossi della Scavolini. Il rematch con Pesaro narra una storia completamente diversa da quella della Coppa Italia, con i biancoverdi che divorano i rivali, vincendo la serie, e lo scudetto, con un secco 3-1.

È il primo titolo nazionale della storia per Treviso che però è destinata a vedere un tassello di quella squadra straordinaria abbandonarla, in direzione del Texas. Perché Vinny Del Negro è corteggiatissimo in NBA, e decide di firmare per gli Speroni nero-argento e di andarsi a trovare una nuova casa in quel di San Antonio.

Ma prima di cominciare la nuova stagione, l’estate del 1992 ha in serbo uno dei più grandi spettacoli sportivi di sempre. Le Olimpiadi di Barcellona. La prima Olimpiade a cui gli Stati Uniti si presentano con una squadra di professionisti, la prima Olimpiade delle nazioni che si sono rese indipendenti dall’URSS, la prima Olimpiade per quelle nazioni che stanno emergendo dalla guerra civile nei Balcani. Toni raggiunge la sua Croazia per affiancare Drazen Petrovic nel difficile percorso olimpico. Il sorteggio è da subito poco agevole: nel girone la Croazia deve affrontare quella squadra di alieni che sono gli USA di coach Chuck Daly. In più, sfida nella sfida, di quella squadra stellare facevano parte quegli stessi Michael Jordan e Scottie Pippen che cercavano di impedire l’ingaggio di Toni Kukoč nei loro Bulls. Quegli stessi Michael Jordan e Scottie Pippen che decidono di ostacolare il più possibile l’approdo dell’Airone (o del Ragno di Spalato, come hanno cominciato a chiamarlo in Italia) in NBA, mettendolo in ombra sul campo. Un’operazione che, dopo la partita del girone (un altisonante e inclemente vittoria del Dream Team per 103 a 70) sembrava riuscita. Ma non bisogna mai sottovalutare l’ardore degli uomini balcanici.

Kukoč e Petrovic, insieme a Rađa e Komazec, decidono di prendersi la Croazia sulle spalle e, inarrestabili, la conducono in Finale, dove, scontato e prevedibile, ritrovano di nuovo la nazionale a stelle e strisce. Un rematch che per il pronostico non dovrebbe avere storia, una nuova occasione per Jordan e Pippen di fare i bulli, l’occasione per Toni Kukoč di reagire e mostrare i muscoli. Per tutta la prima metà della partita gli Stati Uniti non riescono ad archiviare la pratica Croazia. Kukoč e compagni giocano un basket frizzante e intelligente, sapientemente guidato da quel direttore d’orchestra che è Petar Skansi, vecchio volpone croato. Un momento su tutti racchiude gli aspetti positivi del gioco di quella Croazia e di Toni Kukoč in particolare. Un rimbalzo conquistato fa partire il contropiede. Toni, in vantaggio sul suo marcatore, si allarga sull’arco del tiro da tre, pronto a lasciar andare il suo mancino. Un movimento che tutti gli statunitensi hanno imparato a temere. Riceve, finta… E poi fa partire un passaggio immaginifico che raggiunge le sapienti mani di Franjo Arapović, solo sotto le plance contro il mostro sacro di David Robinson. L’Ammiraglio è stupito, spiazzato, si muove troppo tardi e troppo lentamente. Fallo e canestro e Croazia che rimane a contatto. La Finale delle Olimpiadi di quel caldo 8 agosto 1992 a Badalona finirà comunque con un pesante 117 a 85 in favore degli USA, ma, anche nel fulgore di quel trionfo, la piccola battaglia personale di Toni Kukoč (miglior assistman, a quota 9, di un match al quale partecipava anche tal John Stockton) poteva dirsi vinta.

Kukoč, nonostante tutto ciò, rimane a bordo della nave Benetton anche per la stagione 1992/93. Stagione che si apre sotto le migliori prospettive, quando i biancoverdi, che devono difendere lo scudetto, conquistano la Coppa Italia. È un primo trofeo, qualcosa che serve ad aprire lo stomaco per più grandi e succulenti traguardi. L’11 novembre 1992, Toni si prende anche la libertà di mettere giù un record che ancora rimane scolpito negli annali della Serie A: nella partita contro la Virtus Roma smista 16 assist, una cifra inimmaginabile per il concetto “ristretto” di assist che vigeva all’epoca, e soprattutto per un’ala. Gli ambiziosi traguardi della Benetton si fanno raggiungibili, quando approda sia alla Finale scudetto che a quella di Coppa dei Campioni, con Toni che chiude la stagione a 19 pts, 7 rbd e 5 ass di media. In Italia gli avversari sono i ragazzi della Virtus Bologna di Sasha Danilovic, in Europa il Limogers CSP. Qualcosa però, a questo punto, si rompe: il 15 aprile del 1993, ad Atene, in una partita tirata, segnata da tanti errori al tiro e dall’efficacia delle difese, la Benetton cede per 59-55 ai rivali francesi, al loro primo successo in Coppa dei Campioni. Nonostante tutto, Toni riceve il premio di MVP delle Final Four, il suo terzo riconoscimento. Ma un’altra delusione è dietro l’angolo, perché, dopo il terzo posto in campionato e dei play-off difficili, nei quali Reggio Calabria e Milano si erano rivelate rivali ostiche da affrontare, Treviso crolla di schianto in Finale, perdendo la serie per 3-0 contro la Virtus Bologna. È la fine di quel breve matrimonio tra Toni Kukoč e la Benetton Treviso. Il valore del giocatore è ormai troppo alto, e il richiamo della NBA, come quello di una Sirena particolarmente attraente, è irresistibile. A Chicago c’è ancora Jerry Krause, e il posto che gli era garantito da quel Draft del 1990 è ancora libero per lui, soprattutto per lui.

Chicago è reduce da quell’esperienza storica e spettacolare che è il three-peat, ma un dramma si sta per abbattere sulla testa dei Tori. Nello specifico, il dramma assume la forma del ritiro di Michael Jordan, che vuole testare le sue forze anche sul campo a forma di diamante, in quel baseball tanto amato da suo padre da poco scomparso, unendosi ai Chicago White Sox della Minor League. I Bulls sentono di dover correre ai ripari e la prima mossa di Krause è quella di portare nella Windy City Kukoč, nonostante le bizze e le resistenze della superstar con il #33 sulle spalle. Senza il peso specifico di MJ dalla sua parte, infatti, Pippen non basta più a impedire l’arrivo di Toni. Questo non significa che la convivenza sia facile. C’è molta diffidenza nei confronti dell’ala croata, soprattutto nei suoi compagni di squadra, capeggiati, manco a dirlo, da Scottie. Ma qualcuno sa vedere al di là della provenienza geografica, un uomo condivide la lungimiranza del suo GM, un uomo che siede sul pino con un florido paio di baffoni, grandi occhiali cerchiati di metallo e l’argento nei capelli. Un uomo che ha fatto dello Zen molto più che uno stile di vita. Toni Kukoč trova un alleato in Phil Jackson. Quando tutto il mondo Bulls sembra schierato contro di lui, Phil gli dimostra fiducia, lo carica, lo spinge a dare il massimo, a dimostrare che quella diffidenza non ha ragione di esistere.

E poi, finalmente, arriva l’occasione. È la partita di Natale del 1993 che mette l’uno contro l’altro i Bulls e gli Orlando Magic di Shaquille O’Neal e Penny Hardaway. A 16 secondi dalla fine le squadre sono in parità, a quota 93, il possesso è di Chicago. In panchina Coach Zen disegna lo schema per il tiro vincente e lo destina a Toni. L’azione riparte, la palla passa velocemente nelle mani dei giocatori in maglia rossa per arrivare al sapiente mancino balcanico. Toni lascia partire un sublime tiro dalla media che sfiora appena la retina, mentre il cronometro segna due secondi soltanto. Lo schema riesce alla perfezione. Chicago avanti 95-93, e vittoria. L’high five finale tra Kukoč e Pippen sa di investitura. Phil Jackson impazzisce d’amore.

Così, alla prima occasione, decide di ripetere l’azzardo. Solo che questa volta è il 13 maggio, gli avversari sono i fortissimi New York Knicks di Patrick Ewing, il punteggio è in parità a 102 di quota, il tempo sul cronometro recita 1.8 secondi e nell’aria si respira forte l’odore dei play-off. Durante il time out coach Zen disegna il suo schema e regala l’ultimo tiro a Kukoč. Ma stavolta Scottie non è disposto a cedere. Assolutamente fuori di sé si siede in panchina e si rifiuta categoricamente di rientrare in campo a meno che Jackson non si convinca a dare il tiro a lui. Non c’è nulla da fare. Quell’ultimo secondo ricomincia senza Scottie Pippen sul parquet. La palla arriva comunque, come teleguidata, tra le mani di Kukoč, o meglio, del rookie Kukoč, che lascia partire il tiro: un fadeaway da circa 7 metri che si infila senza quasi far rumore. Chicago vince quella partita grazie a quella pura prodezza balistica, anche se poi perderà la serie al settimo match. Per Toni Kukoč è la definitiva consacrazione. Per due intere stagioni Kukoč è, con il #33, l’anima dei Tori della Windy City. I 10.9 pts di media della stagione da rookie diventano 15.7 l’anno successivo, gli assist oscillando dai 3.4 ai 4.6, i rimbalzi da 4 a 5.4. La squadra è sempre temibile, ma incapace, nella Eastern Conference più competitiva di sempre, di farsi largo fino alle Finali. Poi, nel marzo 1995, il grande annuncio. Sua Altezza è pronto a tornare. E allora tutto cambia. Nella offseason, prima della stagione 1995/96, i Bulls prendono anche l’ex Bad Boy Dennis Rodman, e si presentano ai nastri di partenza con quella che non è una squadra ma un’armata.

Toni si sposta, cambia, si adatta anche a sedere sul pino per lunghissime frazioni di partita per far posto alla divinità prestata al mondo del basket. Il suo minutaggio si abbassa, ma il suo apporto rimane importante durante tutta la stagione, dove garantisce tanta qualità dalla panca. È una stagione che la Windy City vive da dominatrice assoluta. 72 vittorie a fronte di 10 misere sconfitte. Un’impresa impensabile nella quale Toni appone un sostanzioso zampino (terzo realizzatore della squadra, dietro soltanto a nomi come Jordan e Pippen, alla fine della stagione) meritandosi il titolo di Sixth Man of the Year. La cavalcata non si arresta certo con la fine della regular season, e ai play-off i Bulls asfaltano i Miami Heat per 3-0 al primo turno, i New York Knicks per 4-1 in Semifinale e gli Orlando Magic per 4-0 in Finale di Conference. Di fronte a loro, alle NBA Finals, si stagliano i Seattle Super-Sonics del duo Payton-Kemp, ma nessuno sembra in grado di resistere a quel tornado che è il roster di Chicago. Il quarto titolo raggiunge la Windy City, ed è il primo di Toni Kukoč, che diventa l’ultimo giocatore (finora) della storia NBA a vincere, nello stesso anno, il titolo di Sesto Uomo, e il titolo NBA. È solo il primo di tre anni straordinari nei quali Toni dà una mano molto più che decisiva ai Tori nel portarsi a casa quel nuovo three-peat con medie stabili sui 13 pts, 4.5 rbd e 4.5 ass, ma soprattutto, al di là dei numeri, con tanta, tantissima qualità e intelligenza cestistica dalla panca. Il suo status di giocatore all-around, di vera e propria point forward, è confermato dal mutamento che è in grado di apportare al suo gioco durante quegli anni fantastici. Da tipica ala europea, longilinea, nervosa e scattante, diventa un muro granitico, aggiungendo una considerevole quantità di massa muscolare ai suoi 210 cm, senza perdere la capacità e il gusto per il gioco ragionato, il passaggio risolutivo, l’apertura di campo illuminata. Scottie Pippen, ma soprattutto Michael Jordan, non possono più continuare col loro melodramma: entrambi, evidentemente, lo adorano.

Ma tutte le storie fatte soltanto di bellezza e grandezza sono destinate a una conclusione, e questa, in particolare, si conclude nel 1998 quando, per la seconda volta in carriera, Sua Altezza annuncia di voler smettere. È un annuncio che getta nel panico i tifosi (che hanno già avuto, per due anni, un assaggio di cosa voglia dire giocare, e tentare di vincere, senza MJ dalla tua parte) e che spinge l’establishment dei Bulls al più spericolato restyling che la storia del basket ricordi.

Jerry Krause concepisce e approva (tutto rigorosamente nella sua testa) un piano biennale di ricostruzione completa della franchigia volto sia a emancipare i Bulls dall’ingombrante figura dell’uomo in maglia #23, sia a continuare la tradizione di successi. Si tratta di un piano estremamente intricato e laborioso, che passa da scambi eccellenti e rinunce sanguinose, tutto per acquisire scelte al Draft e spazio libero nel Salary Cap. Dopo dodici anni di fedeltà e nonostante un primo veto posto dal proprietario, Jerry Reinsdorf, Scottie Pippen viene ceduto agli Houston Rockets in cambio di Roy Rogers e di una scelta al secondo giro del Draft del 2000. Il contratto di Dennis Rodman non viene rinnovato, così come quello del grande coach Zen, Phil Jackson. Steve Kerr viene spedito in direzione San Antonio (dove vincerà subito un altro titolo), in cambio di una scelta al Draft, stessa sorte tocca anche a Luc Longley, che fa le valige e saluta con in mano un biglietto aereo per Phoenix. Dall’epurazione selvaggia di Krause si salvano soltanto Ron Harper, Bill Wennington, Randy Brown e, chiaramente, il grande amore croato, Toni Kukoč. Saranno loro, insieme al nuovo acquisto Brent Barry, proveniente dai Miami Heat, a formare il quintetto base di una squadra che, messa alla guida dell’assoluto neofita NBA Tim Floyd (ex coach di Iowa State), mette insieme un deprimente record di 13-37 nella stagione, accorciata dal lockout. Questo nonostante Kukoč giochi una regular season a tratti sontuosa, facendo registrare numeri di tutto rispetto: 18.8 pts, 7 rbd e 5.3 ass di media (tutti career high NBA del Ragno). La qualità del “supporting cast” è di certo diversa però, e Toni non ne fa un problema. Da fedelissimo qual è, decide di credere nel progetto di Krause e non abbandona la nave. La scelta, all’inizio, sembra pagare, perché Chicago, che ha avuto di gran lunga il record peggiore della lega, vince la Draft Lottery e sfrutta la scelta #1 per portarsi a casa Elton Brand. Con il contemporaneo arrivo di un altro rookie, Ron Artest, e la definitiva dismissione della “truppa Jordan” con gli addii di Harper, Wennington, Brown e persino di Barry, la squadra cerca di trovare una nuova dimensione. Toni, nel nuovo ruolo di guida e mentore dei giovani talenti fa quello che può, finché un infortunio lo costringe ai box. Sarà il colpo definitivo, tra la frustrazione e un po’ di tristezza viene ceduto anche lui, spegnendo infine il lume di quella dinastia che aveva dominato incontrastata l’NBA per tre lunghissimi anni.

Se ne va ai Philadelphia 76ers, per ovviare a qualcuno dei rarissimi limiti di quella luminosa stella che era Allen Iverson. Ma nella Città dell’Amore Fraterno Toni non riesce a trovare la sua dimensione, e alla fine è un sollievo per tutte le parti in causa quando, a metà della stagione 2000-01 (alla fine della quale Philadelphia verrà trascinata da AI alle NBA Finals), viene ceduto agli Atlanta Hawks.Quella ad Atlanta è un’esperienza davvero poco memorabile e dura una sola stagione, prima che gli Hawks lo lascino andare, in direzione del Wisconsin, in direzione di Milwaukee.

Sarà che lì l’aria è fredda e ventosa proprio come in Illinois, sarà che gli piace la maglia, sarà che comunque parliamo sempre di uno dei talenti sportivi più cristallini mai concepiti nei Balcani, ma con i Bucks Toni sembra ritrovare un po’ di serenità. Gioca (poco), elegante e signorile come sempre, mai banale, dando sempre il massimo per la squadra e per i tifosi, che sono automaticamente portati a volergli un gran bene. Ma è pur sempre un giocatore ultratrentenne. Dopo quattro stagioni a Milwaukee, nel 2006, alla scadenza naturale del suo contratto, dichiara che, a meno che non riceva una proposta di rinnovo dai Bucks, o un’offerta di contratto dai mai dimenticati Bulls, ancora impegnati a far fronte alle conseguenze del famoso piano biennale di Krause, tramutatosi ormai in un progetto pluriennale, è intenzionato a chiudere la sua carriera lì.

Arrivano delle proposte, da tante squadre, ma non da quelle giuste. Così, alla fine della stagione, un trentasettenne Toni Kukoč dice basta e si ritira dal basket NBA, ponendo fine a una carriera assolutamente grandiosa e straordinaria e ritirandosi a vita privata con la famiglia nella villa di Highland Park. Ed è ancora lì che potete trovarlo, con la stessa, immensa, genetica passione per lo sport (dal parquet è passato al green, e ad oggi si diletta a vincere qualche torneo amatoriale di golf, come il campionato nazionale croato) che ha trasmesso ai suoi figli, Marin, cestista alla Highland Park High School, prima, e alla University of Pennsylvania poi, Stela, pallavolista. Ed è ancora lì che potrete trovarlo, intento a lucidare quel mancino, chissà, pronto a un’altra tripla. Come una di quelle con le quali Toni Kukoč è entrato nella storia.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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