Categorie: Editoriali NBA

Vin Baker, una vita sulle montagne russe

Quante seconde opportunità ci può riservare la vita? Per alcuni nessuna, senza possibilità di appello, dovendosi immediatamente arrendere agli ostacoli frapposti dal destino. Per altri, invece, fortunatamente il Fato provvede a lanciare dei provvidenziali salvagenti, aiutandoli nelle avversità a superare il mare in tempesta. Tra questi, risorto come la fenice dalle proprie ceneri, negli ultimi giorni sta riscuotendo una certa esposizione mediatica la storia di un ex-giocatore NBA, la cui vita sulle montagne russe lo ha portato dalle vette ai bassifondi e viceversa. Stiamo parlando di Vin Baker, medaglia d’oro olimpica ed All Star, nel corso di una carriera funestata da gravi demoni personali.

Le vicende di Vin assomigliano molto a quelle del giovane di belle speranze che emerge letteralmente dal nulla per poi riuscire a conquistarsi un posto al sole. Dopo l’High School, nessun Ateneo di prima fascia pensò di reclutarlo o di offrigli una borsa di studio; per questo motivo, Baker si trasferì alla poco rinomata University of Hartford, nell’amato Connecticut. Al college Vin sbocciò gradualmente e, pur non avendo riscontri in termini di successi di squadra, mise assieme numeri da capogiro, che uniti ad un fisico perfetto per giocare a basket (oltre 2 metri e 10 per 100 Kg), lo resero un prospetto sul taccuino di molti. Al Draft 1993, i Milwaukee Bucks lo selezionarono con l’ottava scelta assoluta, dopo nomi di assoluto calibro quali Chris Webber, Penny Hardaway e Jamal Mashburn, oltre a quel JR Rider che poteva far sorgere qualche presagio di non buonissimo auspicio.

Nel vicino Wisconsin, in una città a dimensione d’uomo come il suo amato Connecticut, in una squadra che stava cercando faticosamente di risalire la china ma senza troppe ambizioni, l’ambientamento di Vin Baker fu quasi immediato. Sin dalla sua stagione da matricola, chiusa con l’inserimento nel Primo Quintetto dei Rookie, il prodotto di Hartford fece registrare cifre ragguardevoli. Nel suo periodo ai Bucks, in realtà, Milwaukee non vinse parecchie partite: rispettivamente, 20, 34, 25 e 33. Ciononostante, Baker diventò una delle migliori ali forti in circolazione, venendo convocato, già a partire del suo secondo anno, per 3 All Star Game a rappresentare la Eastern Conference. La sua produzione sul parquet raggiunse standard da vero metronomo, con un massimo di 21,1 punti per gara nella stagione 1995-96 ed un top di rimbalzi fissato a quota 10,3 e raggiunto due volte, nel ’95 e nel ’97. Milwaukee continuava a perdere partite ma ad aggiungere pezzi interessanti come Ray Allen, Glenn Robinson e Sam Cassell, facendo intuire che mancasse solo pochissimo tempo al ritorno ai vertici della Central Division, con Baker da alfiere e bandiera della squadra. I problemi, però, arrivarono puntuali.

Nell’estate del 1997, infatti, in un complesso giro a 3, Vin Baker venne ceduto ai Seattle SuperSonics, complici anche le bizze di un altro vero e proprio talento sprecato, Shawn Kemp. Per Vin fu un vero e proprio colpo basso, del tutto inaspettato dato il rapporto creato con amici e tifosi nel Wisconsin. L’esordio però con la gloriosa maglia di Seattle fu tutt’altro che malvagio: quarto All Star Game consecutivo, cifre sempre ottime e grandissima regular season, che permise a Baker di esordire nei Playoffs, dove la corsa di una squadra che sembrava inarrestabile si interruppe invece già al Secondo Turno. I fantasmi personali del ragazzo, però, decisero di entrare violentemente sul proscenio.

Vin aveva dei problemi. Se li trascinava dietro, con molta probabilità, già da tempo, ma il trasferimento a Seattle fece esplodere violentemente la situazione. Furono forse cattive compagnie, la perdita graduale di controllo, l’eccessivo stress dovuto alle aspettative dei Sonics e dei continui paragoni con Kemp, follemente amato dai tifosi e tristemente rimpianto. Fu forse questo il fatale mix per cui Vin Baker si fece sopraffare, senza mezzi termini, dall’alcolismo.

Già dopo l’improvvida uscita dai Playoffs del 1998, l’arrivo del lockout complicò ulteriormente la vicenda umana del ragazzo. Si presentò fuori forma ed ingrassato al training camp, inasprendo ulteriormente il distacco con la tifoseria. Eppure, nel 2000, in qualità di membro di Team USA vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sydney, insieme ad altre star di livello assoluto come Garnett o Carter. Quello, a conti fatti, fu l’ultimo momento felice sul parquet.

Più le sconfitte con la maglia di Seattle si andavano ammucchiando, più le prestazioni personali diventavano, nel migliore dei casi, opache, più Baker si intristiva e passava le serate in compagnia dell’alcol, entrando in una pericolosa spirale dalla quale era maledettamente difficile tirarsene fuori. Il trasferimento, nell’estate del 2002, ai Boston Celtics fece tuttavia tirare un grosso sospiro di sollievo a Vin, entusiasta all’idea di riavvicinarsi a casa, di mettersi Seattle alle spalle e di riprendersi la propria vita e la propria carriera.

Tutto molto bello sul piano teorico; all’atto pratico andò a finire peggio. Vederlo in fondo alla panchina tra le lacrime, dopo l’ennesima brutta prestazione, divenne una scena tristemente comune. Non aiutava nemmeno che, per consolazione, arrivasse l’immancabile bottiglia di accompagnamento. Nel bel mezzo della regular season i Celtics spedirono Baker in una clinica a disintossicarsi.

Il rapporto tra Vin e l’alcol era diventato ora di dominio pubblico. Il prodotto di Hartford si sentiva però più sicuro dopo i mesi di terapia e le sedute con gli Alcolisti Anonimi, pronto a far ricredere tutti sulle proprie condizioni. L’avvio della stagione 2003-04 effettivamente fece ben sperare. Certo, non era più un All Star, ma comunque uomo da doppia cifra in una squadra da Playoffs. Risalita completata? Nemmeno per idea.

Un vizio di siffatto genere, purtroppo, è un osso troppo duro da sradicare. Baker era rimasto sobrio per mesi, un record, e quindi inconsciamente convinto di poter assoggettarlo a proprio piacimento. Per festeggiare il ritrovato feeling col parquet, iniziò pian pianino a riavvicinarsi ai bicchieri. Fu l’inizio della fine.

Il demone si ripresentò con tutti i suoi effetti devastanti. Coach O’Brien, dopo aver sentito per l’ennesima volta quell’emblematica puzza di alcol provenire dal suo giocatore, decise di intervenire a muso duro, e con lui il front office. Vin, di fatto, venne licenziato da Boston ed il suo contratto risolto.

Il pellegrinaggio sul parquet non finì certo là: le altre fermate furono New York, sponda Knicks (con qualche sprazzo del giocatore che fu), Houston, Los Angeles, sponda Clippers, e Minnesota Timberwolves, squadra con la quale non scenderà mai in campo. Nell’autunno del 2006, 13 anni dopo il suo debutto nella Lega, 4 All-Star Game, una medaglia d’oro e diverse belle giocate dal post basso, Vin Baker si trovò fuori dalla NBA. Un anno dopo, nel 2007, arrivò la notizia di un suo arresto per guida in stato di ubriachezza, un’ennesima conferma su dei problemi apparentemente insormontabili. Poi, per un po’, cadde il silenzio sull’ex stella dei Bucks.

Dall’inizio del nuovo decennio, il nome di Baker ha ripreso a circolare tra le notizie di cronaca. Dapprima per la sua nomina ad assistente allenatore in un liceo del Connecticut, dove ha insegnato a tanti ragazzini, prendendo sé stesso come modello, come cercare di avere un futuro degno e non rovinato da inferenze esterne. Poi, per aver fatto parte della “delegazione” creata da Dennis Rodman per la visita ufficiale in Corea del Nord. Infine, notizia proprio degli ultimi giorni, che ha fatto un certo scalpore, è che Vin sta lavorando da cameriere da Starbucks, di proprietà, per ironia della sorte, proprio di quello Schultz che era il suo “titolare” durante la permanenza a Seattle.

Oggi Baker è pulito, ha un lavoro onesto verso cui si applica con grande diligenza ed umiltà, servendo ai tavoli come un ragazzo qualsiasi e studiando, nel contempo, per diventare un manager all’interno della famosa catena. La vita gli ha concesso più opportunità, anche dopo aver passato così tante notti in compagnia di una bottiglia, di aver sprecato il proprio talento o di aver sperperato qualcosa come 100 milioni di dollari. Il tempo per rimettere al posto giusto le cose sul parquet, purtroppo per lui, è ormai fatalmente passato. Per tornare sulla retta via, invece, di tempo ce n’è ancora per Vin Baker, per diventare, dopo tante tribolazioni, un esempio finalmente da seguire e non da evitare, soprattutto per quei milioni di alcolisti sparsi nel mondo e che pensano di non avere speranze. Facciamo il tifo per lui.

Alessandro Scuto

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