Draft, la Scelta Sbagliata – La Rue Martin: Errare Humanum Est

Errare humanum est. Questa la famosa e abusata citazione, tratta da un passo di Sant’Agostino, che si usa per giustificare gli errori. Errare humanum est. Errare è umano. Tutti, prima o poi, sbagliano. Ma ci sono ambienti in cui un errore non si può lavare via con una frase in latino. Uno di questi ambienti è la NBA, un mondo dove una singola scelta sbagliata può cambiare il destino di squadre intere, distruggere sogni e ambizioni. Durante tutta la storia della lega di basket più bella del mondo sono stati commessi moltissimi errori, alcuni sul parquet, altri negli uffici dei general manager, altri infine, durante quella notte nella quale il commissioner se ne sta su un podio, pronto a chiamare per nome i migliori prospetti del basket mondiale. Sono stati commessi tanti errori durante la notte del Draft, errori a volte davvero troppo grandi. È da questi errori che nascono i cosiddetti “Draft Busts”, quei giocatori scelti nella notte del Draft con chiamate altissime che poi si rivelano essere dei veri flop tra i pro. “Draft, la Scelta Sbagliata” è una rubrica che nasce per ripercorrere le storie di alcuni di questi errori, di questi fallimenti. Per conoscere da vicino anche chi nella NBA non è riuscito a farsi valere.

La vita non è solo basket. Questo è il motto che, se avesse uno stemma di famiglia, LaRue Martin farebbe incidere a lettere cubitali sul suo sigillo. La vita non è solo basket, anche se sei alto 2.11 m e al basket hai dedicato gran parte di quella vita. E LaRue Martin è la prova più sfolgorante di questa frase.

Nato a Chicago, Illinois, il 30 marzo di un lontano 1950, LaRue Martin apparve subito a tutti come un ragazzino speciale. Era alto, molto più alto di tutti i suoi coetanei, e quando giocava con gli amici nei playground della Windy City mostrava una confidenza con la palla a spicchi che tutti gli altri non avevano. Sembrava già un predestinato.  Ma di certo non c’erano solo fiori nella sua giovinezza. Il padre di LaRue era un alcolista. Uno di quei tipi che incontri nei bar, ubriaco come una spugna e per il quale provi un terrificante senso di pietà. LaRue se ne vergognava:

Quando giocavo a basket all’angolo tra la 61esima e Indiana, se mio padre si avvicinava lungo la strada […] i miei amici mi gridavano ‘LaRue, tuo papà è dietro l’angolo’. Ero così imbarazzato. Di solito mi nascondevo finché non passava.

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Eppure LaRue Martin era molto bravo a giocare a basket. E questo lo poteva salvare. Nel momento di scegliere il liceo, LaRue si decise per fare domanda nel prestigioso De La Salle Institute, una scuola cattolica del South Side di Chicago che aveva anche un buon programma sportivo. Era una scuola costosa, molto costosa, tanto che per permettersela LaRue dovette lavorare alla caffetteria. Ma il De La Salle era anche una scuola straordinaria, che aveva contato, tra i suoi ex alunni, un certo Richard Joseph Daley, sindaco di Chicago tra il 1955 e il 1976 (data della sua morte), una scuola che aveva avuto un tale impatto sulla storia della Second City da spingere Adam Cohen ed Elizabeth Taylor (gli autori della biografia di Richard J. Daley) a scrivere che “la battaglia di Waterloo venne vinta sui campi da gioco dell’Eton College [dove era stato educato il Duca di Wellington] così come i più grandi capitani d’industria di Chicago sono stati educati nelle aule del De La Salle”. Una scelta oculata, quindi, quella di LaRue Martin, che entrò sin da subito nella squadra di basket della scuola, i Mighty Meteors. Già all’epoca era il giocatore più alto del team. Nonostante quella fisicità dirompente, però, LaRue era un tipo molto riservato, schivo, che non amava affatto le luci dei riflettori. Lui stesso lo ammetteva, in una intervista di qualche tempo fa, con gli occhi posati su una vecchia foto della squadra: tutti i giocatori raccolti intorno al coach, in ginocchio al centro dell’inquadratura intento a parlare con la sua squadra, ma LaRue non fa parte di quel gruppo affiatato di giovani stretti in un unico abbraccio. Lui è più defilato, imponente dall’alto dei suoi 2.11 m, con le mani dietro la schiena che guarda il coach da sopra le spalle dei suoi compagni, quasi sospettoso.

Ero un ragazzino timido

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Ma non era timido in campo LaRue Martin. Nei suoi anni a De La Salle si fece notare da tutti come uno dei migliori giocatori dei Meteors, tanto da meritarsi le attenzioni di vari college. Ma alla fine la scelta di LaRue ricadde sull’università “di casa”. Dopo il diploma, datato 1968, infatti, LaRue Martin si iscrisse a Loyola of Chicago, portando il suo talento e i suoi centimetri nella squadra di basket del grande ateneo gesuita. Furono anni molto positivi per lui. Rivestito dalla maglia #20 di Loyola, LaRue Martin fece registrare cifre di tutto rispetto, mettendo a referto, nella sua carriera universitaria, 18.2 pts e 15.9 rbd a partita, tirando con il 44.9%dal campo. Era un rimbalzista tenace, il migliore della storia della Loyola: le 1062 carambole conquistate durante i suoi quattro anni collegiali costituiscono ancora oggi il record del college. Venne nominato All-American nel 1970, al suo secondo anno, e sembrava già avviato verso una carriera luminosa. Poi la folgorazione.

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Era il 1972, LaRue era al suo anno da senior. Loyola of Chicago ospitava la squadra più in forma del momento, UCLA, guidata da uno straordinario centro bianco con i capelli rossicci, rispondente al nome di Bill Walton e impegnata in una cavalcata che l’avrebbe condotta dritta al titolo NCAA. In più Walton e soci erano nel pieno di una striscia positiva che contava già 29 vittorie consecutive, (sarebbero poi diventate 88 consecutive, fino alla stagione ’73/’74). Inutile dire che la squadra dell’ateneo losangelino fosse la favorita in quella sfida, ma nessuno aveva fatto i conti con LaRue Martin. Per tutta la partita il ragazzo di Chicago tenne a bada Walton, dominandolo e mantenendolo sotto i suoi standard e costringendolo a “soli18 punti. Per parte sua, il centro di Loyola ne segnò 19, catturando 18 rimbalzi. Una prestazione maiuscola, che, però, non bastò. Loyola perse 92-64, ma gli occhi di mezza NBA si voltarono ammirati a guardare quel ragazzone con i capelli cotonati.

Nell’estate del 1972 i Portland Trail Blazers ottennero la prima scelta al Draft NBA, grazie al record di 18-64 ottenuto nella stagione precedente. Era un’epoca diversa, la NBA non era l’unica lega di basket su piazza, ma subiva la concorrenza della ricchissima ABA, che contendeva i migliori talenti a suon di milioni (come avevano fatto, ad esempio, con Rick Barry nel 1966). Insomma, l’approdo in NBA dopo il college non era affatto scontato. Nonostante tutto, però, l’appeal della ABA non era elevato come quello della NBA, e l’ambizione di ogni giocatore di basket rimaneva quella di entrare nella lega nazionale. LaRue Martin non faceva eccezione. Dopo quella fiammeggiante prestazione contro Bill Walton era stato osservato con attenzione da molte delle franchigie più importanti della NBA. Compresi i Portland Trail Blazers.

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A quell’epoca la franchigia dell’Oregon era una squadra giovane, guidata dalla point-guard Rick Adelman e da Geoff Petrie, con un coach, Jack McCloskey, appena ingaggiato, e tanta ambizione. Quello che mancava al roster dei Trail Blazers era un lungo di livello, ed era proprio quello che speravano di ottenere da quel Draft 1972. C’erano di certo dei nomi interessanti, ma quello che il GM di Portland continuava a vedersi davanti ogni volta che ci pensava era la prestazione di LaRue Martin contro Bill Walton in quella notte a Chicago. Fu così che i Portland Trail Blazers utilizzarono la loro scelta #1 per draftare LaRue Martin, da Loyola University of Chicago. Dietro di loro, con la scelta #2 i Buffalo Braves decisero di selezionare un certo Bob McAdoo. Ancora più tardi, alla #10, i Boston Celtics ingaggiarono il futuro All Star Paul Westphal, mentre alla #12 i Milwaukee Bucks chiamarono il nome di Julius Erving, che già da un anno calcava con grosso successo i campi della ABA e che avrebbe fatto il suo approdo nella lega concorrente solo dopo la fusione del 1976, nei Philadelphia 76ers.

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La scelta di LaRue Martin lasciò sorpresi gli addetti ai lavori. Qualcuno sostenne che fosse stato selezionato solo in virtù di quella sua partita contro UCLA. Qualcuno pensava che avrebbe avuto bisogno di un po’ di adattamento. C’era una grande attesa per vederlo tra i professionisti. Fu decisamente una brutta sorpresa. La pressione e le aspettative estive sembrarono schiacciare quel giovane ventiduenne così alto e forte. Per tutta la sua prima stagione scese in campo timoroso, incapace non tanto di replicare i buoni numeri che aveva dimostrato di avere al college, ma di giocare in senso assoluto. McCloskey non aveva altra scelta che mandarlo in campo, ma, sera dopo sera era sempre peggio. Nella sua stagione da rookie, LaRue mise insieme 4.4 pts e 4.6 rbd in 12.9 minuti a partita. Le cifre più basse mai fatte registrare da una prima scelta assoluta al Draft.  A peggiorare la situazione fu la grandissima stagione giocata da Bob McAdoo per Buffalo, che fece nascere orribili rimpianti nella dirigenza dei Blazers.

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L’anno di chiuse con il drammatico record di 21-61, ma la franchigia ottenne soltanto la scelta #15 al Draft del 1973, che venne trasformata in Barry Parkhill, guardia di Virginia, di sicuro non un uomo in grado di cambiare i destini della squadra. Nella successiva stagione 1973/74 McCloskey ridusse ulteriormente il minutaggio di LaRue Martin, costringendolo anche a partire dalla panchina. Forse sperava ancora in una reazione d’orgoglio del ragazzo, forse si aspettava che, passata la pressione della stagione da rookie, le vere potenzialità di LaRue Martin venissero fuori. Del resto le prestazioni del college non potevano essere state tutte una casualità. Ma di nuovo il coach si sbagliava. Martin non era più lo stesso giocatore che aveva dominato Bill Walton. Era uno spilungone di 2.11 m timoroso e ininfluente sul parquet. Anche in quella sua seconda stagione le medie rimasero irrisorie: 4.9 pts e 3.6 rbd in 10.8 minuti in campo. La squadra migliorò lievissimamente il suo record passando a 27-55. Ma il momento migliore della stagione fu quando Portland riuscì a strappare di nuovo la prima scelta al Draft del 1974. LaRue Martin era stato un fallimento, così Portland aveva di nuovo bisogno di un lungo. E stavolta decise di puntare sul cavallo sicuramente vincente. E così con la prima scelta, i Portland Trail Blazers draftarono Bill Walton da UCLA.

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LaRue era ormai dimenticato, ai margini della rotazione. Il nuovo allenatore/giocatore della squadra, Lenny Wilkens, poteva contare su un centro di sicuro affidamento. Ma Bill Walton aveva sempre avuto un problema: la propensione agli infortuni. Dopo sole sette partite Bill il Rosso venne subito fermato dai guai fisici, e allora ci fu spazio anche per LaRue Martin.

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In quella stagione 1974/75 la scelta #1 del Draft 1972 riuscì a giocare un po’ di più (circa 16.9 minuti a partita) alzando anche le sue medie (7 pts e 5 rbd per lui). Ma non riusciva a uscire dal suo tunnel personale. Nonostante avesse appena giocato la sua stagione migliore, LaRue Martin non era più felice di giocare a basket. L’anno successivo dovette garantire ancora la sua presenza dalla panchina per rimpiazzare Bill Walton, limitato dagli infortuni a 51 partite. Ma le sue medie scesero di nuovo (4.4 pts e 4.9 rbd in 14.1 minuti a partita) e quella fu l’ultima goccia. Alla fine della stagione i Portland Trail Blazers lo volevano includere in una trade, in direzione Seattle Supersonics, ma LaRue risparmiò a tutti la fatica e, a soli 26 anni, dopo quattro stagioni di NBA, si ritirò dal basket giocato. Le sue medie in carriera furono desolanti: 5.3 pts e 4.6 rbd a partita. In quattro anni LaRue Martin mise a segno 1430 punti complessivi. Nel suo solo anno da rookie Bob McAdoo ne segnò 1441. In più, subito dopo il ritiro di Martin, nel 1977, Bill Walton, finalmente sano per una stagione intera, condusse Portland alla vittoria del suo primo titolo NBA.

Ce n’era abbastanza per cadere in depressione, e fu esattamente quello che successe a LaRue Martin.

 “Le medie, il liceo, l’università… furono tutte bellissime per me (dal punto di vista del basket). Ma lo sport professionistico mi ha lasciato un sapore amaro in bocca. Lo sport professionistico può essere bello, ma può anche distruggerti.

Spezzato, LaRue cominciò a bere un po’. Poi a bere troppo. In breve divenne un alcolista. Proprio come suo padre, l’uomo che aveva tanto odiato, l’uomo che, quando era bambino, lo aveva fatto così vergognare. Eppure ben presto LaRue si rese conto che, con i riflettori della NBA ormai decisamente lontani da lui, la sua vita stava migliorando. Aveva smesso di essere un ragazzo timido costretto sul palcoscenico. Ora poteva essere chi voleva. Questa consapevolezza non lo fece smettere di bere, ma lui era abbastanza intelligente da tenere la cosa nascosta, evitando di renderla pubblica e palese. Tornato a vivere a Chicago, nel suo vecchio quartiere, conobbe qualche personaggio abbastanza “introdotto” che potesse sistemarlo. E fu così che LaRue Martin divenne un dipendente della UPS, una delle più grandi società di spedizione degli Stati Uniti. Lo misero a guidare un furgone. Intanto, tornato alla sua vecchia alma mater, Loyola of Chicago, concluse gli studi in sociologia, che aveva interrotto per tentare l’avventura NBA. LaRue escluse il basket dalla sua nuova vita:

Era come se avessi dei paraocchi. Bloccai il basket. Non andai nemmeno più a vedere una partita.

All’interno della UPS fece carriera rapidamente, ma aveva ancora un grosso problema con l’alcool, che rischiò di fargli perdere tutto ciò che era riuscito a conquistarsi. Dopo quindici anni di lavoro in quelle condizioni, LaRue Martin venne fermato per guida in stato di ebrezza. Da quel giorno è pulito. La sua scalata all’interno della UPS è continuata e oggi ricopre la posizione di “community service manager” per la zona dell’Illinois. È un uomo felice e realizzato, senza più ombre negli occhi. E, recentemente, ha anche cominciato a riavvicinarsi al basket, tanto che, nel 2011, è entrato a far parte del direttivo della NBRPA, l’associazione dei giocatori ritirati della NBA. Ha ricevuto anche una lettera dal proprietario dei Portland Trail Blazers, che gli esprime tutti i sinceri complimenti e l’ammirazione per i traguardi che è riuscito a raggiungere.

Ma la sua più grande vittoria rimane quella di essersi rialzato dalle ceneri di un fallimento e di essersi ricostruito una vita. Una vita normale. Come lui stesso ha affermato:

Sono stato un fallimento nel basket, direi proprio di si. Ma c’è la vita dopo il basket. Io non mi considero un fallimento. Ce l’ho fatta!

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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