Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
(Roy Batty, Blade Runner)
Meno 20 e garbage time che si preannuncia lungo. Solamente poco tempo prima sarebbe stato in panchina, a recuperare per la prossima gara; ora è in campo, quasi a far numero.
Non ci sta. Ce ne mette, ma perde un pallone, sbaglia due tiri e anche un libero, le difficoltà sono palesi. Poi però arriva un buon alley alzato per un compagno, e soprattutto quel pallone, ricevuto sull’arco, allo scadere del terzo quarto: non ci pensa due volte, si alza al tiro, la palla danza sul ferro, per un attimo sembra uscire… ma alla fine entra. Tornando in panchina, lo considera un presagio. Perché non è stato facile, non lo è mai stato in vita sua, la palla a un certo punto sembrava destinata a uscire… ma alla fine è entrata. Ce l’ha fatta. E vuole farcela anche in quella serata che pare tanto storta.
La lettera sul foglio, in buona parte bianco, è sempre la stessa. La stessa che inaugura la parola che il ragazzo sta pensando verso quell’ennesimo compito andato male.
Anche a Seattle il nuovo Millennio è iniziato da poco, ma le buone maniere sono rimaste, compresa l’irripetibile tradizione culturale e in particolar modo musicale, che vede ora Pearl Jam e Foo Fighters seguire la via tracciata dai vari Ray Charles, Jimi Hendrix e Kurt Cobain. E quando hai il talento che scorre copioso nelle vene, come accade a molti abitanti della Emerald City, gli studi possono diventare secondari. In fondo nemmeno Bill Gates, altro esimio prodotto locale, ha mai finito la scuola.
Anche Brandon Dawayne Roy di talento nel sangue ne ha parecchio. Cestistico, e non musicale, ma comunque sufficiente a farne la sesta guardia della Nazione secondo Scout.com all’ultimo anno alla Garfield High School. Washington University lo accoglierebbe a braccia aperte, facendo di lui il primo Roy ad andare al college. Ma nel suo caso gli studi potrebbero non essere così secondari: c’è infatti un test d’ammissione da superare, e un deficit dell’apprendimento a complicare terribilmente le cose.
Se per Nietzsche la storia è un ciclo in continuo ritorno, con i Roy le teorie del filosofo tedesco sembrano trovare conferma: anche Ed, il fratello maggiore, era uno sportivo con possibilità di borsa di studio, saltata però per lo stesso disturbo e un test che non ha voluto saperne di risultare positivo. Il ciclo pare ripetersi con Brandon, che fallisce la prova per ben 3 volte: nel frattempo, finito il liceo, inizia a lavorare al porto pulendo i container delle navi. E capisce che il suo futuro, se anche l’ultima possibilità di dicembre dovesse andar male, sarà quello: lui non è Bill Gates, anche con il basket se la cava bene ma è “fuori dalla mappa” a livello nazionale. Per fare della pallacanestro il proprio remunerativo lavoro non può fallire quel test. Brandon sente per la prima volta l’insostenibile pressione di giocarsi un’esistenza in un’occasione: e quel test, all’ultima chance, risulta positivo. La filosofia di Nietzsche dovrà trovare altri esempi a cui riferirsi.
Si trova davanti Jason Terry. Normalmente magari sarebbe stato “206 man” e grandi sorrisi, vista la provenienza comune; ma non quella sera. Quella sera lo attacca, lo batte e va al ferro. Il Re di Seattle e di tutto lo stato del Washington è ancora lui.
In quei primi anni Zero non è che il basket nel Nord Ovest degli States se la passasse poi così bene: i Sonics sì e no che centrassero i playoff e Washington University era fuori dal Torneo NCAA ormai da anni. Ma coach Lorenzo Romar era tornato nella propria alma mater in quel 2002 con l’ambizione di risollevare il movimento cestistico universitario, e le prime pedine di questa rinascita erano proprio due ragazzi del posto: Brandon e un piccoletto che aveva cancellato dal proprio dizionario la voce “timori reverenziali”, di nome Nate Robinson. Il futuro Krypto-Nate diventa subito, quasi di prepotenza, la star e l’attrazione principale di quegli Huskies, con il coetaneo che invece fatica ad inserirsi del tutto anche per colpa di un ginocchio che inizia a dare alcuni fastidii piuttosto persistenti.
Washington comunque già nella seconda stagione dei due golden boy della Emerald City torna al Torneo NCAA, e anche Brandon inizia ad aumentare minutaggi e responsabilità, tanto da pensare di provare il salto al Draft dopo l’ottimo anno da junior (secondi nella Pac-10 e fuori solo in semifinale del Regional); ma ci ripensa quando il compagno di reparto e di annata di reclutamento si dichiara a sua volta. Senza l’ingombrante presenza di Nate, Roy chiude l’ultima stagione al college a oltre 20 punti, 5 assist e 4 rimbalzi di media. E’ un All-American, nonché MVP della Pac-10: la citata mappa ha decisamente un puntino in più in alto a sinistra.
Ha segnato in testa a uno del calibro di Jason Kidd, portandolo in area. Dopo un rimbalzo offensivo lungo, si trova davanti addirittura Dirk Nowitzki: lo fronteggia, ma non ha più il passo dei bei tempi, e così si arresta e tira sopra le lunghe braccia protese del tedesco. Solo rete, le stessa che vede il suo arresto e tiro dal gomito contro uno specialista difensivo come Shawn Marion, un canestro che pare uscito da alcune stagioni prima. Magari addirittura da inizio carriera, quando il suo ruolo indefinito lo portava a fronteggiare quotidianamente parecchi avversari diversi nella stessa gara. I quali il più delle volte finivano come Kidd, Nowitzki e Marion quella sera…
2006, un solo zero in più rispetto al prefisso che identifica Seattle e i suoi abitanti in giro per l’America. E per il figlio del Nord quella combinazione di numeri pare portar bene, visto che quel Draft sarà ricordato come quello di passaggio, il primo dopo l’istituzione dell’età minima per accedere alla Lega: e in quel fatidico 2006 il livello della Draft Class sarà dunque fisiologicamente non eccelso. E’ addirittura il nostro Andrea Bargnani il primo nome chiamato, seguito da LaMarcus Aldridge, Adam Morrison e Tyrus Thomas; Atlanta sarebbe tentata di fare il cognome di Brandon, ma non è convinta del suo futuro ruolo nella Lega, ibrido tra play e guardia. Decide di andare sul sicuro con Shelden Williams (il senno del poi è inclemente…), e Roy viene scelto alla 6 da Minnesota. Ma il Re del Washington non lascerà mai le sue zone: viene girato subito a Portland per Randy Foye, coi Blazers che si assicurano sia lui che Aldridge (da Chicago) in un Draft per il resto quasi totalmente disastroso.
Agli ordini di una leggenda dei Sonics come Nate McMillan, Brandon esordisce a casa sua, nella mitica Key Arena di Seattle, in cui da ragazzino vedeva i professionisti: sul parquet calcato in precedenza da Payton e Kemp ne piazza subito 20. E’ evidente fin da subito che il più grosso dubbio sul suo conto, l’effettiva posizione in campo, Brandon l’ha trasformata in un vantaggio, sfruttando la fisicità con i play e la rapidità con gli esterni più alti. Il risultato è un impatto clamoroso nella Lega, molto migliore di quanto forse persino i Blazers sperassero: chiude la stagione da rookie a quasi 17 punti, 4.4 rimbalzi e 4 assist con il 45% dal campo. Peccato che il ginocchio sinistro continui a dare quelle noie che già avvertiva al college, e che diventano via via più fastidiosi, costringendolo ad appena 57 presenze stagionali: poco male, il ROY non può che finire nelle sue mani, e non certo per una questione di omonimia.
Tre esponenti della Draft Class 2006, con il futuro ROY, di nome e di fatto, nel mezzo. Concorrenza peraltro non esattamente spietata… (credits to www.nba.com)
Li aveva portati fino a -7, ma il Jet, come punto sul vivo dalla sfida tra concittadini, piazza una bomba taglia-gambe che zittisce l’intero Rose Garden. Solo una persona non cambia espressione, e potete immaginare chi sia. Dopo una bella entrata di Matthews, si fa ridare il pallone, ormai in trance, e manda via tutti: attacca dal centro Kidd bruciandolo e va al ferro eludendo anche l’aiuto di un intimidatore come Tyson Chandler. Cade a terra nell’entrata, ma non gli interessa: era da anni ormai che non si sentiva così vivo su un parquet, in grado di cambiare l’andamento di una gara come sta facendo quella sera…
La ruota sembra finalmente girata per i Blazers dopo anni piuttosto amari: con appena il 5% di possibilità, la franchigia dell’Oregon ha vinto la Lottery e sceglie per prima nel Draft 2007. Tra big man ed esterno si punta sempre sul lungo, specie se quel lungo ha appena portato Ohio State in finale NCAA da freshman. Il neo GM Kevin Pritchard fa dunque il nome di Greg Oden lasciando Kevin Durant ai Sonics: forse coi fratelli Roy non ci aveva preso con l’eterno ritorno, ma coi Blazers e il Draft Nietzsche andrebbe decisamente a nozze.
L’ex Ohio State infatti riporta una microfrattura al ginocchio un mese prima dell’inizio della stagione. Poco male, si andrà di nuovo con Aldridge, finalmente privato dell’ingombrante presenza di Zach Randolph, e con Brandon Roy, che invece pare aver risolto i suoi di problemi alle ginocchia. La squadra parte così così, ma poi ingrana 13 vittorie consecutive in dicembre e pare potersi giocare le proprie carte per i playoff: troppo competitiva la Western (41-41 il record, comunque non male per una squadra che solo due anni prima vinceva 20 gare in meno in stagione), ma Brandon chiude comunque a 19 di media, divenendo All Star già al secondo anno da professionista. Alla partita delle stelle, nonostante una recente scavigliata, l’ex Husky ne mette 18 e 9 rimbalzi giocando più di ogni altro della Western Conference. Non ha ancora fatto i playoff, ma pare già una star tra le star della Lega.
Credits to: worldinsport.com
Lo confermerà la stagione successiva. Con il rientro di Oden e gli innesti dei rookies europei Rudy Fernandez e Nicholas Batum, Portland mette in piedi un roster in gran parte under 25, compresi gli ormai indiscussi leader, la premiata coppia Brandon-to-LaMarcus. Ma è Roy il fulcro di una squadra dal roseo futuro ma dal presente già solidissimo: chiude a 22.6 di media con il 48% dal campo, 52 in faccia ai Suns e una freddezza nei momenti caldi che ha del jordaniano: alla pausa per l’All Star Weekend, cui ovviamente partecipa, ha già messo 24 tiri per pareggiare o superare gli avversari negli ultimi 35 secondi di gara. Ventiquattro. In 50 partite.
Con il proprio Roy (leggibilissimo anche alla francese, se preferite), Portland torna ai playoff in pompa magna, con un record di 54-28; pecca però d’inesperienza e subisce l’upset dai più scafati Rockets, ma anche stavolta Brandon incanta, scrivendone 42 in faccia a Battier e all’allora Ron Artest in gara 2, dopo un esordio in post season titubante. Chiuderà la serie a oltre 26 di media e la consapevolezza che oggi sarà anche andata così, ma che i Blazers torneranno e con questa squadra saranno a breve una contender.
Non esce più, ovviamente. Non può e nemmeno vuole uscire in quel momento, sono i suoi momenti; ma le ginocchia iniziano a lanciare fitte lancinanti. Meglio evitare entrate spericolate e affidarsi al tiro. Piazza il -2 a 1.30 dal termine, pestando appena la riga dei 3 punti. Vorrà dire che nel prossimo, per pareggiare, dovrà fare un punto in più. I Mavericks segnano, -4 a un minuto dal termine: la palla ovviamente è nelle sue mani. Avverte un po’ di stanchezza, e per poco Nowitzki, non certo un muro difensivo, non gli fa perdere il pallone; ma lo recupera, punta Shawn Marion, controlla che i piedi stavolta siano oltre l’arco. Si alza, con Marion che gli frana addosso nel tentativo di contestare il tiro. Il tiro parte, il fischio dell’arbitro pure. Eccolo qua il punto in più che serviva: sono 4, ed è pareggio. Alla faccia del lungo garbage time.
Non tornerà più ad essere contender, Portland, ancora soggetta a quella che pare una maledizione. Nonostante l’arrivo di alcuni veterani a portare esperienza, nel 2009/2010 i Blazers devono registrare il riacutizzarsi dei problemi di Oden, ormai cronicamente lontano dal centro dominante visto al college (mentre Durant… va be, meglio non pensarci). Roy chiude comunque oltre i 20 e i Blazers registrano un’altra stagione da 50 vittorie (50-32), ma ad aprile, dopo svariati guai al sinistro, è il ginocchio destro a tradire Brandon. Riesce a tornare durante il primo turno di playoff contro i Suns, con un menisco a pezzi, ma è l’ombra di sé stesso: i Blazers escono di nuovo al primo turno. E le ginocchia del loro uomo franchigia sono ormai pezzi d’antiquariato.
Dallas non segna neanche stavolta e allora la palla va di nuovo nelle sue mani. Poco più di 40 secondi alla fine, parità, sempre The Matrix di fronte. Ma quelle ginocchia martoriate, per una sera, nonostante il dolore incessante sembrano di nuovo volare. Attacca ancora Marion, ma sa di non avere l’atletismo per arrivare al ferro; si arresta quindi in area e tira in controtempo. Sono i suoi tiri, è il suo momento della partita, ed è pure la sua serata. La palla bacia il tabellone e s’insacca. Un altro canestro per il sorpasso nel finale. L’ennesimo, in una carriera ancora breve eppure già agli sgoccioli…
Jason Terry, il concittadino, sbaglia la tripla del controsorpasso. Quella serata non poteva essere rovinata, figuriamoci poi da un esponente della Emerald City.
Era il 23 aprile del 2011 e al Rose Garden andava in scena gara 4 della serie tra Mavs e Blazers, con i texani avanti 2-1. Nel terzo quarto, sul +20, erano sostanzialmente avanti 3-1, invece si torna in Texas sul 2-2. Perché qualcuno ha deciso che, almeno per una sera, gli infortuni non avrebbero avuto la meglio. Che sarebbe stato tutto come se le operazioni non fossero mai avvenute.
In quel periodo Brandon Roy era ormai quasi un ex giocatore. Aveva disputato solamente 47 partite con appena 12 punti di media, ovviamente career low, dopo una doppia operazione a entrambe le ginocchia, in condizioni ormai deprecabili. La sua carriera è finita circa un anno prima, quando anche l’articolazione destra ha ceduto. In gara 2 aveva giocato appena 8 minuti, ultimo ad entrare della rotazione.
Non tornerà più realmente da quelle operazioni, a parte quella sera, pochi giorni dopo quella gara 2. La sera in cui segnò 24 punti, di cui 18 nell’ultimo periodo, ribaltando un gap che aveva toccato i 23 punti di margine. Ai playoff, contro i Mavericks. Con due gambe che avrebbero dovuto permettergli sì e no di salire le scale. Noi umani non lo possiamo neppure immaginare, come avrebbe detto un replicante suo omonimo in Blade Runner.
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Perché questo era Brandon Roy: un uomo, prima che un giocatore, che è sempre andato oltre i propri limiti, fin dai tempi di quel deficit dell’attenzione che poteva relegarlo a pulire barche, e che invece gli ha dato forza per reagire, per superarsi. Se per Jordan “limits, like fears, are often just an illusion”, per Roy erano addirittura una motivazione, un’asticella da superare per essere posta ancora più in alto.
I Mavs vinceranno le due gare successive, chiudendo l’ennesima serie persa da Roy per 2-4, la terza nella sua brevissima carriera durata sostanzialmente 5 anni. Il suo tentativo di ritorno nel 2013, con i Timberwolves che l’avevano scelto al Draft, terminò dopo appena 5 gare. Ma sai che importa, quando hai dato tutto e anche di più. Quando, come cantava l’ennesimo illustrissimo concittadino, hai dato il meglio di te. Quando hai superato ogni limite e sei diventato solo Brandon, il Re tuttora indimenticato di un’intera città.
I was too weak to give in
Too strong to lose
My heart is under arrest again
But I break loose
My head is giving my life or death
But I can’t choose
I swear I’ll never give in
I refuse
Is someone getting the best, the best, the best of you?
Is someone getting the best, the best, the best of you?
It’s real the pain you feel
(Foo Fighters, The Best of You)