OKC, ora o mai più

Metà terzo quarto. Partita difficile e sofferta per OKC allo United Center di Chicago, la quarta in cinque giorni. E’ giovedì, le gare in programma per la serata sono “soltanto” cinque (rispetto alle 13 di alcuni lunedì) e la sfida tra i due coach collegiali esordienti in questa stagione alla guida di due potenze NBA è seguita da commentatori d’eccezione.

Charles Barkley e Reggie Miller in telecronaca, coi faccioni stretti dalle cuffie, discutono del dilemma che ormai da anni accompagna i Thunder.

Quanto può essere vincente il modello duocentrico Westbrook-Durant?

Si cita Popovich e le sue parole riguardo al Leonard sempre più coinvolto offensivamente di questo inizio stagione.

“Non chiamiamo un singolo gioco per Leonard, è il sistema Spurs che gli permette di realizzare tanti punti”.

“E’ quello che Westbrook e Durant ancora non hanno imparato a fare”, commentano all’unisono nei microfoni gli ex All Star. “Da sempre quando due o più campioni si ritrovano a giocare insieme rinunciano in parte alle loro cifre per mettersi a servizio della squadra. Bosh, James e Wade l’ultimo di tanti esempi vincenti”.

In Oklahoma la musica invece non sembra (ancora) cambiata. Tanto, troppo isolamento, anche per chi dispone di talento in quantità industriali. Un trio con due punte di diamante e tanti gregari (non ditelo a Waiters e Kanter, mi raccomando) a portare le borracce.

Ma funzionerà? Si può vincere un titolo NBA giocando così (infortuni permettendo)?

In questo inizio di stagione le indicazioni sono state “discordanti”. Andiamo a vederle nel dettaglio.

3 SU 3, L’INIZIO E’ QUELLO GIUSTO

La partenza è di quelle col botto, una delle “classiche” degli ultimi anni della Western Conference, Thunder-Spurs. Leonard che stampa in faccia alla difesa dell’Oklahoma il massimo in carriera (32 punti), un Aldridge ancora spaesato cavalcato in post in una delle azioni decisive della gara e Waiters che mette un paio di canestri decisivi dalla media. 54 per il Dynamic-Duo e soprattutto un’azione manifesto, a poco più di 4 minuti dalla fine.

Westbrook in punta aspetta che Durant gli porti il blocco. E’ il primo p&r della stagione tra i due e coach Donovan decide di giocarselo in un momento topico della gara. Ibaka in angolo permette inoltre di spaziare il campo in maniera credibile (diventato ormai tiratore continuo ed affidabile dal perimetro).

Parker passa sopra, continua ad inseguire il numero 0 e resta nella terra di nessuno. Leonard scivola in maniera convincente sul playmaker avversario, ma Durant è libero, pronto a ricevere. Se qualcuno avesse dubbi su come è andata a finire, minuto 1:30 del video seguente (tira col 75% reale nelle situazioni di catch and shoot).

Alla fine i Thunder portano a casa una gara importante, giocata ad un’intensità a tratti selvaggia. Un match dispendioso, certo. Ma mai quanto quello disputato due giorni dopo contro i Magic. La differenza di punteggio è indicazione chiara del lungo (e fortunoso) inseguimento di KD e compagni.

Orlando sempre avanti. Tranne al suono della sirena. Un finale thrilling, da vedere più che da leggere (per quei 3 che non lo hanno ancora mandato in loop sui loro schermi).

Alla fine, anche grazie ai due overtime, Durant scrive sul referto 48 e Westbrook 43. Cifre che due compagni di squadra non ci facevano vedere dal 95/96 (si, le iniziali erano quelle, M di Micheal e J di Jordan). Quello che impressiona più di tutto però sono i 66 tiri (più 27 liberi) tentati in due. Un’immensa concentrazione di gioco.

Il timone difatti è saldamente nelle loro mani, come dimostrano anche le prime azioni della terza affermazione consecutiva arrivata contro i Nuggets.

Primo canestro dell’incontro. Durant raddoppiato da Denver. Faried sbaglia l’angolo d’aiuto e a KD35 non resta che “imbucare” la palla tra i due. Pocket pass e jumper dalla media per Ibaka.

Seconda realizzazione per OKC. Stavolta il raddoppiato è il lungo di passaporto spagnolo, il passaggio è sempre schiacciato a terra tra i due avversari e Westbrook è libero di sfruttare la linea di fondo fino al ferro.

La gara è sin da subito in completo controllo, la turnazione è ampia così come la distribuzione di responsabilità (ben 7 giocatori in doppia cifra). I punti nelle mani in fondo li hanno davvero in tanti. Dote preziosa per chi punta al Titolo NBA.

NON E’ ORO TUTTO QUELLO CHE LUCCICA 

Chi di rimonta ferisce, di rimonta perisce. Spiegano i Toronto Raptors. Sbarcati alla Chesapeake Energy Arena senza molte speranze (ma con il record W-L immacolato), sotto per tutta la partita e usciti vincenti con un guizzo finale. Ormai lo abbiamo imparato, nulla lo spiega meglio della differenza di punteggio.

Tutto come nella partita con i Magic (con i Thunder a recitare la parte della lepre), non fosse per gli overtime mancati e per il possesso decisivo. Emblema una volta di più della disfunzionalità a cui porta l’utilizzo reiterato dell’isolamento.

Coach Donovan chiede un timeout lungo dopo che i Raptors hanno rimesso la testa avanti nel punteggio a 40 secondi dal termine. Dopo diversi minuti di disegnini sulla lavagna e spiegazioni tattiche varie, OKC affida la palla nelle mani del numero 0, pronto ad attaccare nei primi secondi.

Durant (nel cerchietto rosso) scatta verso il perimetro, pronto o a portare un blocco o ad aprirsi sull’arco.

“Chi fa da sé, fa per tre”. Westbrook a testa bassa carica verso l’area avversaria, circondato da ben 4 giocatori. I compagni sono pronti a ricevere il pallone (Morrow in basso ha già le mani all’altezza del petto). Ma la loro è una speranza vana. Russell guarda solo il ferro, il tiro è storto e la partita la vince Toronto.

La seconda sconfitta dopo quella subita in back to back contro Houston, con i Rockets all’angolo e in seria difficoltà dopo la pessima partenza stagionale (0-3). A metà terzo quarto la gara è saldamente nelle mani dei Thunder che veleggiano oltre la doppia cifra di vantaggio, ma alla fine i numeri che restano impressi sono quelli di Harden (37 per lui) e di una rimonta targata Houston figlia più dell’incapacità di OKC di chiuderla che non della capacità dei rossi del Texas di andarsela a prendere. Inutili i 54 firmati KD+RS e la battaglia vinta sotto le plance (55-34 il conto delle carambole a favore dei Thunder).

Per avere una prova serve il terzo indizio. Che arriva, puntuale, contro i Bulls. Il primo canestro dell’incontro è frutto di ottima esecuzione e lascia davvero ben sperare.

Ibaka palla in mano molto lontano dal ferro. Roberson e Durant troppo vicini sul lato forte, col primo pronto a tagliare e a lasciare un quarto di campo all’isolamento del 35.

Il movimento porta via l’uomo e libera spazio verso la palla che il nativo di Washington è subito pronto ad occupare.

“Hey ragazzi, quello è Kevin Durant! Muovete quelle cazzo di chiappe e non lasciatelo respirare”. In molti spogliatoi il game plan dovrebbe essere all’incirca questo. Fatto sta che tutti collassano su di lui e lasciano-spazio-al-solito-jumper-di-Ibaka (si, lo stesso visto anche contro Denver).

Nonostante l’attenta marcatura però KD ha comunque fatto il suo (la prima azione del video è quella analizzata di sopra).

Alla fine sono 33 punti e 5 assist (massimo stagionale in assistenze, per ora), ma nonostante questo le sconfitte, come le vittorie, sono diventate 3.

Tre vittorie con tre indicazioni positive, altrettante sconfitte con un trio di lacune preoccupanti. Manca la terza parte, con le ultime tre.

DI NUOVO PROBLEMI DI INFORTUNI?

36 punti nel primo quarto, 15 su 23 nel tiro da tre punti. Davvero la serata perfetta a Washington per i Thunder, vincenti e convincenti per 125-101 sui Wizard. La seconda vittoria dopo quella coi Suns, Quasi perfetta, se non fosse per Durant che alla ripresa delle ostilità nella secondo tempo non è rientrato sul parquet. Un problema al tendine del ginocchio sinistro, fuori per una decina di giorni.

Un giocatore necessario, “il migliore al mondo” a detta del suo playmaker col numero 0. Uno da 28 di media ad oggi col 40/50/90 non raggiunto a causa del 89,3% ai liberi (le altre 2 percentuali si riferiscono al tiro da 3 e alla conversione dal campo). Primo per punti per possesso in isolamento (1,35), una macchina da canestri.

Westbrook però nel frattempo sembra essersi attrezzato (come già fatto vedere la scorsa regular season). Tripla doppia d’ordinanza sia nella Capitale che contro i Sixers (la 13esima dall’inizio della passata stagione, il secondo in tutta l’NBA è a quota 5), sesta partita consecutiva con almeno 20 punti e 10 assist (mai nessuno così negli ultimi 6 anni), leader indiscusso nella classifica delle assistenze (quasi 11 a partita).

Ma se sono così forti, così autonomamente completi, il problema allora dove sta?

Questo è uno, ad esempio. Il contributo difensivo. I valori positivi nel riquadro rosso a destra indicano “quanto meglio” percentualmente tirano gli avversari quando sono marcati da Westbrook rispetto alla loro conversione media.

Non solo colpa del numero 0. Per questo è interessante allargare il discorso ai dati fatti registrare dai vari quintetti schierati da coach Donovan per estendere le nostre considerazioni (valori relativi alle prime 8, senza la gara contro Philadelphia).

Quello titolare (in blu) ha calcato il parquet più di tutti e sta dando buone garanzie. 20,6 di NetRating (la differenza tra i punti realizzati in 100 possessi e quelli subiti in 100 possessi) è un ottimo dato, così come l’89,3 concesso.

Se Roberson parte titolare quindi è presto spiegato, in quanto, quando al suo posto entra Waiters, le cifre cambiano drasticamente (stiamo parlando di un numero esiguo di minuti, ma la tendenza è chiara). Come messo in mostra nel riquadrino rosso, il DefRtg schizza a 111,3 e il NetRtg diventa negativo (-4,2). Un disastro insomma.

Una favola invece l’attacco quando Donovan schiera tutte le sue bocche di fuoco. Rettangolino verde. 160,3, vuol dire l’80% reale dal campo. Un dato senza senso, un attacco clamoroso.

Una valanga di numeri che stanno a significare una sola cosa. Che questi Thunder, a prescindere dalle (solite) pecche sono buoni. Molto buoni, nonostante “la Westbroocentricità”.

Lunedì scorso a Basket Room (trasmissione diventata sin da subito di culto per chi ama la palla a spicchi) è stata ripresa una vecchia citazione targata Tex Winter e MJ.

“There is no I in Team” era solito pronunciare “l’inventore” dell’attacco Triangolo, sottolineando il fatto che tutti i giocatori avrebbero dovuto mettere in secondo piano il loro io (“I” in inglese). “There is I in Win” la risposta di His Airness, in quanto in alcuni momenti per vincere serve il talento del singolo.

La lettera I non c’è né nella parola Westbrook né in Durant. E’ già un buon punto di partenza.

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Pubblicato da
Stefano Salerno

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