Draft, la Scelta Sbagliata – Sam Bowie: Scelto prima di Dio

Era una fresca e limpida giornata d’Aprile, e gli orologi segnavano l’una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore del vento, scivolò lesto fra i battenti di vetro dell’ingresso agli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui.

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Iniziava così 1984, il capolavoro di George Orwell che immaginava un futuro fosco, dove un’umanità oppressa era governata da una spietata dittatura che ne aveva annullato la libertà. “Il Grande Fratello vi guarda” la frase stampata ovunque, a incarnare l’incubo di essere controllati, di non poter più essere padroni di se stessi. Fortunatamente, la terrificante profezia orwelliana non è divenuta realtà, ma di certo il 1984 ha portato con sé anche qualche incubo. Come quello che ha tormentato le notti di Stu Inman, il GM dei Portland Trail Blazers tra il 1981 e il 1986, e uno dei protagonisti principali della storia che stiamo per raccontare. Ma bisogna procedere per gradi e cominciare dall’inizio.

Tutto iniziò a Lebanon, una cittadina relativamente piccola, all’angolo sudorientale del grande stato della Pennsylvania. Era il 17 marzo del 1961 (e c’è da aggiungere, per i più scaramantici, che era un venerdì) quando venne alla luce Samuel Paul Bowie, per tutti Sam. Non era certo facile crescere in una città così piccola, con poca gente e pochi divertimenti. L’unico posto dove un ragazzino potesse andare a giocare era il playground vicino casa. E chiaramente anche Sam ci andava spesso. Ma lui era diverso da tutti gli altri. Sam era alto, molto alto. E poi era dotato. Aveva una sensibilità particolare per la palla a spicchi. Si vedeva benissimo che era su un altro livello. Quando si iscrisse alla Lebanon High School entrò quasi di diritto nella squadra di basket della scuola. Era solo l’inizio di un cammino glorioso.

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Bowie condusse i Cedars a vette insperate, trascinandoli fino alla finale di stato con medie astronomiche (si parla di 28 pts e 18 rbd a partita), senza riuscire, però, a farli prevalere sulla Schenley High School di Pittsburgh, che vinse di un solo, striminzito punto. Il tutto nel suo anno da junior (l’equivalente del terzo anno di liceo). Giurie incantate gli consegnano i riconoscimenti di McDonald’s All American e Parade All American. Venne anche nominato National Player of the Year, un premio per il quale fu in lizza fino all’ultimo con la stella della Harrisonburg High School, in Virginia, Ralph Sampson. Era la nascita di una rivalità tra due dei centri liceali più promettenti del panorama nordamericano. Nel Capital Classic del 1979, un torneo di esibizione che metteva di fronte una squadra composta dai migliori giocatori liceali dell’area di Washington D.C. e una composta dai migliori del resto degli Stati Uniti, avvenne il primo incontro ravvicinato tra i due. L’evento attirò tanti tifosi da riempire i 19.000 posti del Capital Center e, nonostante la presenza in campo di altre stelle assolute come Clark Kellogg e Dominique Wilkins, sarebbe sempre stata ricordata come “Battle of the Giants”. Fu proprio qui che Sampson si prese la sua vendetta, dominando Bowie con una prestazione maiuscola: 23 pts, 21 rbd, 4 blk, 4 stl e 1 ass. D’altro canto però, il ragazzo da Lebanon giocò soltanto 24 minuti in quella partita (contro i 32 di Sampson), perché aveva perso la maggior parte degli allenamenti di quella settimana: segnò 6 pts, con 13 rbd e 4 blk. Una prestazione sottotono che non sminuì le quotazioni di Bowie. Le migliori università del paese cominciarono a fargli la corte. Tra queste, la Kentucky University, guidata, all’epoca, da coach Joe Beasman Hall.

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Coach Hall era una sorta di leggenda vivente. Dopo essere stato head coach di Central Missouri State e di Regis University, nel 1965 aveva scelto di andarsene in Kentucky a fare l’assistente allenatore per quella divinità del basket collegiale che era Adolph Rupp. E così, quando nel 1972 il grande maestro decise che era ora di ritirarsi, lasciò le redini della squadra, e un’eredità alquanto pesante da gestire, proprio a lui. Hall seppe non sfigurare nel suo nuovo ruolo di head coach, arrivando in finale NCAA già nel 1975, contro UCLA, e poi vincendo il torneo nel 1978. Joe Hall aveva guardato molte partite della Lebanon High School, e gli piaceva il gioco di Sam Bowie. E così quando Kentucky si fece avanti, il ragazzone non ci pensò due volte a lasciare la Pennsylvania e ad accasarsi a Lexington. La sua stagione da freshman, 1979/80, fu una folgorazione per Hall e per tutti i tifosi di Kentucky. 12 pts e 8 rbd di media, per un giocatore al suo primo impatto con il basket collegiale. Niente male davvero. Alla fine di quell’annata il coach della nazionale statunitense, Dave Gavitt non poté fare a meno di convocarlo, insieme ad altre stelle del basket collegiale, come Rolando Blackman e Isiah Thomas, nella squadra che sarebbe andata alle Olimpiadi di Mosca 1980. All’epoca gli Stati Uniti vantavano una tale superiorità cestistica sul resto del mondo che non si preoccupavano di mandare una rappresentativa di professionisti a giocare le competizioni internazionali. Ma quell’anno fu diverso. Era un periodo convulso e molto teso. Con l’elezione del repubblicano conservatore Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti, datata proprio 1980, le tensioni tra USA e Unione Sovietica erano tornate ad acuirsi, dopo la distensione degli anni ’70. Il solco che divideva la due superpotenze si era approfondito di nuovo. Inoltre a partire dal dicembre 1979 l’URSS aveva cominciato l’invasione del vicino Afghanistan, travagliato dalla guerra civile. Il contraccolpo a livello internazionale fu fortissimo: gli Stati Uniti protestarono vibratamente in ogni sede competente contro quell’attacco militare, arrivando infine anche a boicottare i Giochi Olimpici. Fu così che Bowie dovette dire addio al suo personalissimo “sogno d’oro”.

Ma questa delusione gli diede solo una carica in più. La sua stagione da sophomore a Kentucky sembrò un successo: 17.5 pts e 9 rbd ad allacciata di scarpe e il record per i Kentucky Wildcats di 9 blk inflitte in una singola partita. Alla fine della stagione arrivò anche l’inclusione nel terzo quintetto NCAA. Ma non è tutto oro quel che luccica. Durante la terzultima partita di regular contro Vanderbilt, Bowie concluse al ferro con un bella schiacciata, e ricadde fuori equilibrio, poggiando tutto il peso sulla gamba sinistra. Per un attimo il dolore lo piegò. Poi però, cercando di rassicurare tutti, ci giocò sopra. E così fece anche nelle ultime due partite stagionali. Kentucky si guadagnò, anche grazie a lui, l’accesso al torneo NCAA con la seed #2. Di fronte ai Wildcats c’era la non irresistibile Alabama-Birmigham, guidata da coach Gene Bartow, che si era qualificata con la seed #7. Fu la partita più brutta dell’intera carriera collegiale di Bowie: tormentato dal dolore, non riuscì a esprimere il proprio gioco, finendo per essere espulso per falli nel secondo tempo. Kentucky venne eliminata in un clamoroso upset, battuta 69-62 dai meno quotati avversari. Stagione finita per Kentucky e per Bowie che, senza altre partite all’orizzonte, decise di sottoporsi a più approfonditi esami medici per capire da cosa dipendesse quel dolore che gli azzannava la gamba sinistra ogni volta che la appoggiava. Il riscontro delle radiografie fu impietoso: frattura da stress alla tibia sinistra, tempi di recupero lunghissimi. Bowie sarebbe dovuto rimanere fuori per tutta la stagione 1981/82. Fu un colpo durissimo da assorbire per lui. Ma il dramma era appena cominciato. Il recupero da un simile infortunio, aggravato anche dall’iniziale indifferenza di Bowie, che aveva deciso di giocare nonostante il dolore, non fu affatto semplice e lineare come Kentucky e il suo centro si sarebbero aspettati. Dopo un anno di fisioterapia e riabilitazione Bowie era tutt’altro che pronto, e Hall e i suoi Wildcats dovettero rinunciare alla sua presenza anche nella stagione 1982/83, arrivando addirittura a chiedere (e ad ottenere) una medical redshirt (sostanzialmente Bowie non venne considerato all’interno del roster di Kentucky, pur continuando a farne parte, per permettere alla squadra di ingaggiare un giocatore che lo sostituisse).

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Sam Bowie si presentò ai nastri di partenza della stagione 1983/84 finalmente ristabilito, in salute e pronto a giocarsi il suo posto in squadra. Riuscì a ritrovare spazio nello starting five grazie ad alcune prestazioni convincenti e sviluppò un certo affiatamento con Melvin Turpin, l’altro lungo della squadra. I tifosi e i media cominciarono a chiamarli “Twin Towers”: due grattacieli che si muovevano sul campo guidando Kentucky di vittoria in vittoria verso il torneo NCAA. Bowie giocò un’ottima stagione, mettendo insieme 10.5 pts e 9 rbd a partita, con un acuto straordinario il 26 novembre 1983, nell’eroica vittoria (65-44) contro quelli che si avviavano a diventare gli avversari di sempre: Louisville. Fu una prestazione maiuscola la sua, fatta di sostanza difensiva e dominio del pitturato (5 blk a fine partita), di rimbalzi e presenza intimidatoria,  che gli valse anche la copertina di Sports Illustated, non esattamente l’ultima rivista del mondo.

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Arrivò anche l’inclusione nel secondo quintetto NCAA a coronare quel rientro perfetto. Nella March Madness, Bowie e Turpin trascinarono Kentucky fino alle Final Four, dove incontrarono Georgetown, la superpotenza del basket collegiale che vantava, tra le sue fila, il roccioso centro Patrick Ewing. Bowie non riuscì ad avere la meglio sul pariruolo avversario, e così Kentucky uscì mestamente in semifinale. L’avventura collegiale del ragazzo nativo di Lebanon si interrompeva lì, dopo cinque anni (solo tre dei quali passati veramente sul parquet), senza titoli, ma con tanti ricordi e una maglia (la #31) ritirata dai Wildcats.

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Era l’estate del 1984 e il mondo del basket era in fermento. Fin dall’inizio della stagione, le relazioni degli scout sulla draft class di quell’anno si facevano sempre più entusiastiche. Si era cominciato a dire, all’inizio sommessamente, poi sempre più alla luce del sole, che ci si trovava davanti a uno dei Draft più ricchi di talento della storia NBA. In più c’era appena stato un cambio al timone della lega: il carismatico commissioner Larry O’Brien, dopo nove anni di “governo” aveva deciso di lasciare il posto al suo rampante vicepresidente, un certo David Stern. L’attesa era palpabile, si poteva avvertire nell’aria. Non esisteva ancora la Draft Lottery (sarebbe stata introdotta solo l’anno successivo) e le scelte sarebbero state assegnate a seconda del record, dal peggiore al migliore. Tutte a parte la prima scelta, affidata invece al cosiddetto “coin flip”, il lancio della moneta. Le due squadre con i peggiori record (purché appartenenti a due Division diverse) si giocavano le loro possibilità al 50%, con gli occhi su una moneta che roteava in aria. Alla fine della stagione 1983/84 i due record peggiori erano detenuti da una parte dagli Houston Rockets che, nonostante avessero vinto la prima scelta al Draft già l’anno precedente (usandola per portare in Texas proprio quel Ralph Sampson che aveva sconfitto Bowie nella “Battle of the Giants”), avevano messo insieme solo 29 vittorie a fronte di 53 sconfitte, dall’altra parte dagli Indiana Pacers, autori di una desolante stagione da 26 vittorie e 56 sconfitte. Ma tre anni prima, nel 1981, Indiana aveva commesso un errore. Alla ricerca di un centro da consegnare a coach Jack McKinney, infatti, l’establishment dei Pacers aveva ceduto ai Portland Trail Blazers la propria scelta al primo giro nel Draft del 1984 per ottenere Tom Owens, che in Indiana avrebbe poi giocato una sola stagione, alquanto anonima. Così, quando i Pacers chiusero con il peggior record della lega, Stu Inman, il GM dei Blazers cominciò a fregarsi le mani. Nella sua mente c’erano un nome e un volto molto precisi: quello di Hakeem Olajuwon, centro nigeriano che aveva fatto faville in quel di Houston University. Ma fu proprio la moneta a sconvolgere i suoi piani. Quell’insensibile disco di metallo che lasciò roteando le mani di David Stern e ricadde mostrando, per la seconda volta in due anni, il logo dei Rockets.

Il GM di Houston, Raymond Patterson, dichiarò nel modo più cristallino possibile, che quella scelta era destinata ad Hakeem Olajuwon, nonostante la presenza nel roster di un lungo potenzialmente dominante come Sampson. Così Inman decise di tentare il tutto per tutto, e si presentò dagli Houston Rockets con un’offerta: Portland era pronta a cedere la seconda scelta ricevuta da Indiana e la guardia Clyde Drexler (alla soglia del suo secondo anno in NBA) in cambio proprio di Ralph Sampson. Una vera e propria proposta indecente. Una proposta che indusse seriamente in tentazione Patterson. Ma alla fine Houston resistette e respinse l’idea di Portland, che si ritrovava così con una rosa di nomi molto interessanti in mano, da selezionare con la seconda chiamata. Inman era convinto che la sua squadra mancasse di un lungo in grado di dominare il pitturato, difendere e prendere rimbalzi. Così, dopo la scelta preannunciata di Hakeem Olajuwon da parte di Houston, quando giunse il loro momento, i Portland Trail Blazers selezionarono, con la seconda scelta assoluta, Sam Bowie, dalla Kentucky University. Subito dopo venne il turno dei Chicago Bulls, detentori del terzo record peggiore della lega. Anche Jerry Krause credeva di aver bisogno di un lungo di primissimo livello, e anche lui aveva accarezzato, solo per un istante, il sogno Olajuwon. Ma perso il suo obiettivo primario, Jerry Krause dovette guardarsi intorno, e decise di puntare tutte le sue fiches su una guardia tiratrice che aveva fatto la fortuna di North Carolina University e del suo coach, Dean Smith. Con la scelta #3 del Draft 1984 i Chicago Bulls chiamarono Michael Jeffrey Jordan.

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Sam Bowie entrò così a far parte dei Portland Trail Blazers, preceduto da molte aspettative e da tanto ottimismo. I Blazers erano una squadra comunque competitiva (la stagione precedente erano approdati ai playoffs, anche se erano stati eliminati al primo turno dei Phoenix Suns), ma volevano che Bowie ripagasse l’investimento fatto per lui. E Bowie diede del suo meglio per non sfigurare: nella sua stagione da rookie giocò 76 partite, facendo segnare 10 pts, 8.6 rbd, 2.8 ass e 2.7 blk. Un buon esordio.

O forse no.

Perché a Houston, Hakeem Olajuwon giocò una stagione da 82 partite con 20.6 pts, 11.9 rbd e 2.7 blk, mentre a Chicago Michael Jordan faceva registrare, sempre in 82 partite, 28.2 pts, 6.5 rbd, 5.9 ass e 2.4 stl, cifre accompagnate dal titolo di Rookie of the Year. 82 partite le giocarono anche Sam Perkins, scelta #4, che fece segnare 11 pts e 7.4 rbd di media in quel di Dallas, e Charles Barkley, scelta #5, che a Philadelphia, registrò una statline di 14 pts, 8.6 rbd, 1.9 ass, 1.2 stl e 1 blk. Il confronto fu inclemente. Bowie era stato il peggiore tra le cinque scelte più alte, anche se questo non gli tolse la possibilità di essere incluso nell’All Rookie Team.

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Ma quell’inizio tutto sommato incoraggiante non era destinato ad avere seguito, a causa degli onnipresenti problemi fisici di Bowie. Già prima del Draft le condizioni della sua tibia sinistra erano state oggetto di preoccupazione per i Blazers, che gli avevano fatto molte domande in merito nei colloqui pre-draft. Ma Sam aveva sempre assicurato che era tutto sotto controllo, che l’infortunio era passato e che non sentiva più dolore. Ma era una bugia. Nella stagione 1985/86, durante una partita contro i Milwaukee Bucks, Bowie saltò a rimbalzo, impattando in aria contro il suo compagno Jerome Kersey. I due ricaddero a terra pesantemente e in modo scomposto, e Bowie sentì un dolore acuto proprio alla gamba sinistra. Venne portato fuori dal parquet in barella e subito in ospedale per accertamenti. E le radiografie diedero il peggior riscontro possibile. Frattura alla tibia sinistra, stagione finita, Bowie di nuovo ai margini per recuperare. Ma il ragazzo non voleva abbattersi. Si mise a lavorare duro per rientrare nella stagione successiva, e riuscì nel suo intento. Iniziò la stagione da titolare, giocando le prime cinque partite, viaggiando a 16 pts, 6.6 rbd e 2 blk di media.

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Ma di nuovo le sue gambe si misero in mezzo. I Blazers ospitavano i Dallas Mavericks, e Sam Bowie stava giocando con una fiducia nei propri mezzi che mai aveva mostrato prima nella NBA. Decise di gratificare il pubblico di Portland con un pezzo di bravura, una pura espressione di competenza tecnica, uno sky-hook. Così fece una finta e provò a saltare per eseguire il tiro. Tutti videro chiaramente che qualcosa non stava andando per il verso giusto. La gamba destra di Bowie si inarcò innaturalmente all’esterno e cedette di schianto, il giocatore si ritrovò disteso a terra prima ancora di poter capire cosa fosse successo. Poi cominciò a piangere e a sbattere il pugno sul parquet, in preda al dolore e alla frustrazione. La sua tibia destra si era spezzata, la stagione era di nuovo finita. E non solo quella. Tornato finalmente disponibile durante la preseason del 1987/88, Bowie doveva tornare in campo nella partita contro i Cleveland Cavaliers. Ma qualcosa non andava. Durante il riscaldamento cominciò ad avvertire un dolore alla gamba destra, che si faceva sempre più forte e penetrante a ogni movimento. Il centro chiamò il suo compagno Clyde Drexler e gli disse:

Clyde, credo di essermi rotto ancora la gamba.

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Ma Sam Bowie aveva una profonda dignità. Non voleva che i suoi tifosi, che lo aspettavano da tanto tempo, lo vedessero uscire di nuovo dal campo sdraiato su una barella. Stoicamente rimase in piedi, poi i suoi compagni di squadra lo presero in braccio e lo portarono verso gli spogliatoi, dove gli venne diagnosticato un raro tipo di frattura da stress alla tibia destra che, solitamente, affliggeva le gambe dei ballerini classici. A causa di questo nuovo, grave, infortunio, Bowie saltò l’intera stagione 1987/88 e nella successiva giocò soltanto venti partite, nessuna delle quali da titolare, assommando 8.6 pts e 5.3 rbd a partita, le sue medie più basse dall’ingresso nella NBA.

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Portland aveva avuto tanta pazienza, fin troppa forse, ma Sam Bowie aveva giocato soltanto 63 partite in quattro anni, dopo la sua stagione da rookie, e sembrava che il fantasma di LaRue Martin avesse cominciato ad aleggiare sulla sua testa. I Blazers non avevano più voglia di aspettare, non volevano rischiare di essere spettatori di un altro suo infortunio. Così il 24 giugno del 1989, Portland allestì una trade con i New Jersey Nets: in Oregon sarebbe andato Buck Williams, mentre in cambio i Nets avrebbero ricevuto Bowie e una scelta al Draft. Nel New Jersey il prodotto di Kentucky sembrò rinascere. Risparmiato dagli infortuni, mise in fila le sue migliori stagioni in termini quantitativi e qualitativi. Riuscì anche a far registrare una doppia doppia di media (14.7 pts e 10.1 rbd) nel 1989/90, e non saltò mai più di venti partite a stagione (il suo “career high” saranno i 79 match giocati nella stagione 1992/93). Ma i postumi degli infortuni passati e l’età che inesorabilmente avanzava, ne ridussero comunque l’apporto. Nella sua ultima stagione sulle rive del fiume Delaware, Bowie fece segnare solo 9.1 pts e 7 rbd in 26 minuti di media. Nell’estate del 1993 i Nets si misero d’accordo con i Los Angeles Lakers e mandarono Bowie a Hollywood, ottenendo in cambio il centro Benoit Benjamin.

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Ma l’esperienza losangelina di Bowie non fu più felice di quella in Oregon. In due anni riuscì a giocare soltanto 92 partite (17 in quintetto base) per il ritorno di problemi alle gambe. Le sue medie precipitarono, arrivando fino a soli 4.6 pts e 4.3 rbd a partita. Sam capì che, con la dignità che l’aveva contraddistinto in tutta la sua carriera, era il momento di farsi da parte. Si ritirò alla fine della stagione 1994/95. Nella sua carriera fece registrare 10.9 pts, 7.5 rbd, 2.1 ass e 1.9 blk di media, numeri degni di un onesto mestierante, di un buon role player, di un sesto uomo, ma troppo poco per la scelta #2 del Draft delle stelle, del migliore della storia. Non fu chiaramente solo colpa di Bowie: la fragilità delle sue gambe minò seriamente le possibilità di un giocatore che, fin dal liceo, era stato additato come una futura star. Nonostante la richiesta di Jerry West, GM dei Lakers, di rimanere all’interno della società, Bowie preferì allontanarsi un po’, e si dedicò anima e corpo alle corse dei cavalli, comprando e addestrando purosangue da competizione in quel di Lexington, Kentucky, il luogo dove aveva vissuto la fase più felice della sua vita cestistica.

Nel 2005 Sports Illustrated definì la sua scelta in quel Draft del 1984 come la peggior scelta della storia di tutti i major sports nordamericani, un giudizio fin troppo inclemente, condizionato dal fatto che quattro membri di quella draft class (tre dei quali scelti dopo Bowie) sarebbero poi diventati Hall of Famers. È facile affermare, col senno di poi, che draftare Sam Bowie fu un errore dei Portland Trail Blazers, ma lo stesso Jerry Krause ammise che se Bowie fosse stato ancora disponibile nel turno dei Chicago Bulls, probabilmente avrebbe deciso di chiamare lui piuttosto che Jordan. Ma la realtà è che la storia di Sam Bowie è quella di un gigante poggiato su sottili gambe di cristallo che, per inseguire il suo sogno, fu disposto persino a mentire ai medici, a nascondere il dolore, a recuperare da ogni infortunio, nonostante le difficoltà e le sofferenze. La storia di Sam Bowie è quella di un giocatore “normale che venne chiamato prima di Michael Jordan. Di un uomo che venne scelto prima di Dio.

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Simone Simeoni

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