Categorie: Editoriali NBA

Le più grandi squadre a non aver mai vinto l’anello-Minneapolis/Los Angeles Lakers (1959-1970)

Dopo un periodo di pausa ritorna il nostro appuntamento con le più grandi squadre che non sono riuscite a fregiarsi dell’agognato anello di campioni NBA. L’episodio di oggi è particolare, dato il soggetto in questione ed il dolce epilogo di questa storia, come avremo modo di vedere. Dopo esserci occupati dei New York Knicks, degli Indiana Pacers, degli Utah Jazz e dei San Antonio Spurs, è la volta di trattare le gesta di una franchigia dall’ancor più illustre pedigree. Epiche battaglie, rovesci memorabili ed una vera e propria maledizione si abbatterono su una versione bella ma decisamente sfortunata dei Minneapolis/Los Angeles Lakers, quella degli indimenticabili anni Sessanta.

I Protagonisti

L.A., si sa, è da sempre associata alle stelle Hollywoodiane che, di riflesso, hanno splenduto sui parquet giallo-viola. Tutto questo, in ambito cestistico, nacque proprio dagli All-Star Team che vennero confezionati nel periodo in esame, con protagonisti di grandezza eccelsa ed irraggiungibile. Il leader di quella formazione fu, semplicemente, colui che, ancora oggi, viene “indossato” su ogni prodotto di marca NBA. Già perché Mr. Logo, al secolo Jerry West, era dotato di una classe e di un’eleganza sopraffine, tanto da meritargli l’indubbio onore di venir stilizzato nel simbolo ufficiale della Lega. A fargli compagnia per tutto il decennio il primo uomo volante della pallacanestro mondiale, quell’Elgin Baylor che mise a ferro e fuoco per anni i canestri NBA, diventando di fatto il precursore di uno stile di gioco che avrebbe fatto proseliti da Julius Erving in poi. Californiano doc, Gail Goodrich fece in realtà la spola, in quegli anni, con i Phoenix Suns, diventando però lo stesso una bandiera della franchigia e guidandola anche nel decennio successivo. Come vedremo, inoltre, l’ultimo segmento temporale di questa vicenda vide arrivare a Los Angeles la prima vera superstar a tutto tondo che questa Lega ricordi, che ebbe un impatto “discreto” sotto le plance dei Lakers.

Allenatori

A parte una stagione, la 1959-60, che vide alternarsi sulla panchina John Castellani e la vecchia gloria Jim Pollard, nel periodo sotto la nostra lente d’ingrandimento gli allenatori dei Lakers furono 4. Il primo fu il leggendario John Kundla, il coach della favolosa dinastia che aveva avuto come perno George Mikan. Dopo aver tastato con mano l’enorme potenziale di Baylor, ed aver condotto i suoi all’ennesima finale della propria carriera, decise di restare a Minneapolis e non proseguire verso la nuova location della franchigia, Los Angeles. Una scelta che i Lakers avrebbero rimpianto. Per 7 stagioni il peso di essere l’allenatore della squadra cadde sulle spalle di Fred Schaus, un passato da giocatore ma un presente minato dalla presenza di una nemesi nel Massachusetts. Anche Bill van Breda Kolff aveva calcato i parquet prima di ottenere una carriera di successo come coach nel college basketball. Proprio per i successi conseguiti a livello NCAA venne chiamato dal front office dei Lakers, dove resistette un biennio (con annesso memorabile momento polemico), lo stesso lasso di tempo che vide Joe Mullaney cercare di guidare i giallo-viola verso il successo.

La Genesi

Come è facile intuire, le origini di quei Lakers vanno rintracciate nel Minnesota, più precisamente a Minneapolis. Dopo esser stati la prima dinastia della pallacanestro a stelle e strisce, inevitabilmente ebbero alcuni anni di alterne fortune. Nel 1958 furono, semplicemente, i peggiori di tutti, con sole 19 vittorie, ma con svolta annessa dietro l’angolo: con la prima scelta assoluta del Draft 1958, infatti, i Lakers selezionarono Elgin Baylor, che rispose subito presente all’appello. In squadra vi erano, oltre al futuro Hall of Famer Vern Mikkelsen, al passo di addio, anche due personaggi che poi divennero icone di altre franchigie: Slick Leonard, in seguito monumento degli Indiana Pacers, ed Hot Rod Hundley, l’indimenticabile voce dei Jazz di Stockton e Malone. La svolta della franchigia fu quasi a 360 gradi. Nonostante un record negativo, i Lakers si ritrovarono in post-season, raggiungendo, un po’ a sorpresa, le Finali NBA 1959. Nessuno poteva saperlo, ma stava per nascere un mito.

Sì perché in quell’occasione, per la prima volta in assoluto, i Los Angeles Lakers affrontarono, in una Finale NBA, i Boston Celtics. Nonostante gli eroismi, Baylor e compagni dovettero soccombere di fronte ai più quotati avversari, che fecero registrare anche il primo sweep nella storia delle Finals.

I giallo-viola ci riprovarono anche l’anno successivo, nonostante un incidente aereo che per fortuna non ebbe gravi conseguenze: sempre partendo da un record pessimo (25-50), arrivarono sino alle Finali di Division, perse contro i St.Louis Hawks in gara-7. Un numero che presto li avrebbe perseguitati.

In estate, però, una volta completato il trasferimento a Los Angeles, dal Draft 1960, arrivò con la seconda scelta assoluta Jerry West, ad ampliare ulteriormente l’arsenale della squadra. La stagione, in cui si segnalarono i 71 punti in una partita di Baylor, fu pressoché uguale alla precedente: altre Western Division Finals ed altra sconfitta alla settima contro gli Hawks, di due miseri punti. A dispetto di tutto, era chiaro che la franchigia era avviata a migliorare esponenzialmente.

La Grande Occasione

Frank Selvy aveva sognato quel momento, come milioni di giocatori NBA. Gara-7, Finali NBA, punteggio in parità, possesso per vincere partita, serie ed anello. Hot Rod Hundley lo aveva trovato apertissimo per un jumper dalla linea di fondo, senza difensori nei paraggi. Selvy, che aveva condotto i Lakers segnando due canestri cruciali in quel frenetico finale, aveva così l’occasione di entrare prepotentemente nella storia della franchigia. Approfittando della libertà concessagli, si prese il tiro per conquistare il titolo.

La stagione 1961-62 fu quella “dei record”: i 100 di Wilt a condire i 50 di media, la tripla doppia di Oscar Robertson e Bill Russell a soffiare ad entrambi il titolo di MVP. Anche Baylor non volle esser da meno. In quell’anno ne mise ben 38 a partita, in soli 48 incontri. Il motivo delle assenze? Era stato chiamato, in quanto riservista, dall’esercito, potendo giocare solo quando gli veniva concessa la licenza. Anche West era ulteriormente cresciuto, toccando i 30 a gara e guadagnandosi il soprannome di Mr. Clutch per gli eroismi nei minuti decisivi delle partite. Con un duo del genere, Los Angeles arrivò sino alle Finali NBA 1962, contro ovviamente i Boston Celtics. Baylor, in un anno davvero di grazia, ne mise ben 61 in gara-5, un record che dura tutt’oggi; sulla stessa falsariga furono i 40 rimbalzi di Bill Russell nella “bella”, anche questa impresa mai più eguagliata.

I Lakers riuscirono ad espugnare nella suddetta gara-5 il Boston Garden, portandosi ad una sola vittoria dal titolo. Sul parquet amico, però, nel sesto incontro, si sciolsero nella ripresa, venendo costretti a rimandare il tutto a gara-7.

E lì, Frank Selvy, ebbe la possibilità di riscrivere la storia, con quel tiro che poteva cambiare, forse, i destini di due franchigie. Sbagliò. I Celtics riuscirono a prevalere nell’overtime e ad aggiudicarsi l’anello. Per i Lakers sarebbero dovuti passare più di vent’anni prima di poter battere i bianco-verdi.

L’incubo

1963, 1965, 1966, 1968. Per Los Angeles era ormai diventata un’abitudine arrivare sino all’atto conclusivo della stagione. Non ci riuscirono solo nel 1964, sconfitti al Primo Turno da St.Louis, e nel 1967, sonoramente battuti nelle Semifinali ad Ovest dai San Francisco Warriors di Rick Barry. Per il resto, il ritornello nella Western Division era sempre il solito; il problema è che si poteva dire lo stesso delle Finali NBA.

Nel 1963, sul parquet di Los Angeles, ebbero l’opportunità di provare a forzare la settima, ma gara-6 terminò con Bob Cousy, all’ultima gara della propria carriera, braccato dai giocatori dei Lakers ma senza perdere il pallone.

Nel ’65 finì 4-1 per Boston, ma per Los Angeles la notizia ben peggiore fu l’infortunio al ginocchio a Baylor. Costretto a guardare per tutta la postseason, da lì in poi, se non a sprazzi, non fu mai più lo stesso.

Tuttavia, con un West entrato nel “prime” della propria spettacolosa carriera, il ritorno di Baylor e l’arrivo dal Draft di Goodrich, LA si ripresentò 12 mesi dopo, più agguerrita che mai.

Il diabolico Red Auerbach aveva deciso di sfidare il mondo intero. I Celtics, imbattuti dal 1959, non solo non avrebbero più avuto il proprio carismatico allenatore sulla panchina dalla stagione seguente, ma addirittura la stessa avrebbe visto sedersi il primo head-coach afro-americano di sempre, Bill Russell. La sfida finale si preannunciava ancor più infiammata del solito. Los Angeles espugnò il Boston Garden all’overtime di gara-1, ma perse i successivi 3 incontri. Con i bianco-verdi vicini al titolo, i Lakers decisero di dare il 110%: vinsero la quinta partita al Garden e quella successiva in casa, arrivando alla settima e decisiva sfida. I Celtics, all’inizio dell’ultimo quarto di gara-7, erano in vantaggio di ben 16 lunghezze, tanto che Auerbach si accese il suo proverbiale sigaro per affermare che ormai i giochi erano fatti. Los Angeles, quasi incredibilmente, mise in atto una furiosa rimonta, tra lo sgomento del pubblico e degli stessi giocatori bianco-verdi. Auerbach, per una volta e proprio all’ultima gara da allenatore, ebbe paura di aver fatto il passo più lungo della gamba, ma i Lakers non trovarono le forze di compiere l’incredibile impresa, soccombendo alla fine per soli due punti.

Altro giro nel 1968, con Los Angeles per la prima volta ospitata dal celeberrimo Forum ad Inglewood. Ennesima nuova battaglia contro Boston, sublimata da una gara-5, sul 2-2, vinta all’overtime dai Celtics, poi capaci di aggiudicarsi il titolo nell’incontro successivo. West era stato ammirevole, quasi irreale, giocando da infortunato ma martoriando la difesa avversaria. C’era però bisogno di un aiuto più consistente, soprattutto nei pressi del canestro, dove Russell spadroneggiava contro avversari di livello inferiore. La squadra necessitava di un centro dominante, in grado di battagliare sul piano fisico contro Bill e garantire un apporto costante su ambedue le metàcampo. L’identikit non poteva che corrispondere ad una ed una sola persona: Wilt Chamberlain.

La maledizione

Gara-7, maledetta gara-7. Anche nel 1969 si era arrivati a quel punto contro i Celtics. Non erano bastati i 53 di West in gara-1, subito bissati da altri 41 nell’incontro successivo per andare sul 2-0 nella serie. Boston era stanca, vecchia ed al passo d’addio, i Lakers affamati, potenti e più giovani. Chi poteva fermarli? Nonostante la sconfitta in gara-3 al Boston Garden, Los Angeles contava di potersi sbarazzare presto degli arci-rivali. Nella quarta partita i giallo-viola erano avanti di un punto a pochi secondi dal termine, ma con possesso per i Celtics. La sequenza successiva sarebbe rimasta impressa nei tifosi di entrambe le squadre. Sfruttando un triplo blocco dalla rimessa, Sam Jones, l’equivalente di West per i bianco-verdi in quanto a canestri decisivi, ebbe la possibilità di effettuare il tiro. Davanti a sé, però si trovò l’imponente massa di Chamberlain, deciso a rimandare la palla nell’Oceano Atlantico. Jones, per di più saltando sul piede sbagliato, tirò ad un mano, con la sirena che suonò. A differenza di Selvy anni prima, questa volta il pallone entrò. Si era sul 2-2, ma psicologicamente lo scenario era cambiato; a peggiorare l’assunto per i giallo-viola, in gara-5, vinta, West si infortunò abbastanza seriamente, pur continuando a giocare. I Celtics riuscirono a rimandare le sorti della serie all’ultimo decisivo incontro, da disputare proprio al Forum. Il proprietario dei Lakers, Jack Kent Cooke, in barba alla scaramanzia, aveva già predisposto la scaletta dei festeggiamenti, allestendo dei palloncini che sarebbero dovuti scendere dal soffitto una volta vinta partita e serie. I giocatori di Boston, con Russell in testa, appena li videro decisero che avrebbero dovuto aspettare un altro bel po’ prima di poter essere usati. Gli stanchi, logori Celtics fecero gara di testa, andando addirittura avanti di 15 lunghezze nell’ultimo quarto. Chamberlain, in un momento delicato, fu costretto ad uscire per un infortunio (cosa che gli alienò le simpatie di Russell per un bel po’ di anni). Dopo diversi minuti in panchina, e Los Angeles impegnata in una selvaggia rimonta, disse a Van Breda Kolff che era pronto a rientrare. Il coach, malauguratamente, glielo impedì, volendo insistere col quintetto che stava producendo. I Lakers, proprio come nel’66, arrivarono ad un passo dalla rimonta. Col punteggio in bilico, Don Nelson (non è un omonimo), segnò un improbabile tiro, con la palla che colpì il primo ferro, si inerpicò di alcuni metri in aria prima di ricadere dentro. Era la settima volta che Los Angeles incontrava Boston in Finale ed era la settima volta che perdeva. Il tutto, con l’ulteriore beffa di West nominato MVP delle Finals pur da perdente, un unicum nella storia della Lega.

La maledizione delle gare-7 per i Lakers però doveva ancora scrivere un ennesimo, amaro capitolo. 12 mesi dopo, nel 1970, all’atto conclusivo non vi erano più i Boston Celtics, ormai sfaldati, bensì i New York Knicks, un alto squadrone che aveva tra le proprie fila gente del calibro di Willis Reed, Walt Frazier e Bill Bradley. Los Angeles sperava di poter finalmente mettere fine agli anni di digiuno, contro un avversario nuovo e, magari, alla portata. Dopo essersi divisi equamente le prime due partite, da gara-3 iniziò il thriller delle NBA Finals 1970.

New York era avanti di due a 3 secondi dal termine con Los Angeles rimasta senza timeout. Un frustrato Chamberlain fece la rimessa ed iniziò ad avviarsi direttamente verso gli spogliatoi. West prese palla e, da 20 metri, segnò uno dei più incredibili buzzer-beater nella storia delle Finali NBA. Una crocetta fu posta sul parquet del Forum per indicare, per sempre, da dove era stato scoccato quel tiro.

La partita fu però, forse, la summa di quei Lakers. Se fosse esistito il tiro da 3 punti avrebbero vinto l’incontro; invece, andati all’overtime, riuscirono a perdere quella partita. In gara-5, sul 2-2, altro colpo di scena. Il capitano dei Knicks, Reed, si infortunò gravemente al quadricipite, dovendo abbandonare la lotta. Los Angeles, e Chamberlain in particolare, aveva strada spianata, ma incredibilmente si smarrì nell’ultimo quarto, perdendo un incontro che sembrava segnato. In gara-6 Wilt ne fece 45, in contumacia Reed, rimandando il tutto a gara-7. Poco prima dell’inizio delle ostilità ecco l’ultimo colpo di teatro: un vistosamente zoppicante Reed entra all’improvviso per giocare la partita. Il Madison andò letteralmente in fiamme quando il proprio capitano, su una gamba sola, segnò i primi punti dell’incontro, ispirando i suoi compagni in maniera decisiva. Affossati da un grande Frazier, i Lakers persero l’ennesima gara-7. Era l’ottava volta in dodici anni che quella squadra si fermava senza compiere l’ultimo e sospirato passo.

Dolce epilogo

Come anticipato all’inizio, a differenza di quanto successo alle altre squadre di questa rubrica, quei Lakers vinsero un titolo, a conti fatti. Dopo esser stati estromessi nel 1971 dai giovani e rampanti Milwaukee Bucks di Lew Alcindor, nel 1972 Los Angeles fu una macchina quasi perfetta, andando a battere in Finale gli stessi Knicks che, 12 mesi dopo, diedero loro un altro dispiacere, infliggendo ai Lakers la nona sconfitta nelle Finals. Quella squadra del’72, capace di vincere 33 partite di seguito (record NBA), però era ormai profondamente cambiata rispetto a quella maledetta degli anni Sessanta. Non c’erano più tutti quei giocatori di secondo piano che avevano fatto nascere la speranza dell’avvio di una dinastia vincente. Hot Rod se n’era andato ed idem dicasi per Selvy, per sempre perseguitato da quel tiro mancato. Più atroce di tutte, però, fu la beffa per Elgin Baylor. Afflitto da ormai troppi infortuni, decise di ritirarsi all’inizio della stagione ’71-’72, proprio pochi mesi prima della vittoria dell’anello. E proprio lui, il primo uomo volante, l’alfiere di quella squadra, bella ma sfortunata, lo meritava forse più di tutti.

Alessandro Scuto

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