Categorie: Hall of Famer

Il Grande Rosso dai piedi di cristallo

In questi giorni, a guidare dalla panchina i Golden State Warriors stante l’assenza di Steve Kerr, vi è un uomo che ha già conosciuto il sapore della vittoria NBA e, soprattutto, ha un cognome pesante ed importante. Luke Walton, infatti, ha fatto parte dei Lakers campioni con Bryant al comando, prima di diventare il traghettatore di una squadra che, dopo aver vinto il titolo 2015, sembra inarrestabile e lanciatissima. Luke aveva sul parquet momenti di visioni geniali, passaggi illuminanti ma non supportati da un talento generale ed un atletismo da stella NBA. Tutto il contrario del padre.

Già perché, somiglianza fisionomica a parte, il genitore di Luke è stato un giocatore a tutto tondo, celestiale, uno spettacolo da poter ammirare. Ha fatto parte di 3 squadre, tra NCAA ed NBA, che hanno dominato il panorama della pallacanestro americana per un certo periodo di tempo, con lui, il Grande Rosso, a fornire un contributo imprescindibile. Un personaggio che, probabilmente, rappresentò appieno l’essenza degli anni’70, con uno stile di vita ed un look davvero peculiari nella storia della Lega. Senza quei maledetti e ripetuti infortuni, molto probabilmente la percezione che si avrebbe oggi della carriera di Bill Walton sarebbe sicuramente diversa.

Oltre 2 metri e 10 su di un fisico asciutto e magro, Bill Walton fece notare sin dalla giovane età un estro con pochi eguali, tanto sui parquet che fuori da essi. Già al liceo nella natia California, dove faceva onde, conobbe il primo sapore amaro degli infortuni. Ciononostante, questi non gli impedirono di poter spiccare il volo verso un lido importante, il migliore probabilmente in quel periodo: UCLA e coach John Wooden.

I Bruins erano diventati una forza del panorama collegiale, uno strapotere derivante da un allenatore decenni avanti rispetto ai propri colleghi ed al reclutamento di grandissimi prospetti, tra cui primeggiava l’irraggiungibile Lew Alcindor. L’arrivo del Grande Rosso doveva aiutare UCLA a mantenere gli ormai consueti standard. Detto fatto. Nei suoi primi due anni arrivarono altrettanti titoli NCAA, sublimati dalla straordinaria prestazione di Walton nella Finale del 1973, un clamoroso 21/22 dal campo per 44 punti, a far capire chi era il dominatore della aree collegiali del periodo.

Bill fece incetta di premi e riconoscimenti in quel favoloso periodo sotto Coach Wooden: oltre ai due suddetti titoli, con altrettanti trofei di miglior giocatore delle Final Four, vinse infatti per 3 volte il titolo di miglior giocatore NCAA ed in 2 occasioni quello riservato dalla Associated Press, vedendosi ritirato il proprio numero 32. I Bruins, durante le sue prime due stagioni, conclusero da imbattuti assoluti le annate, vincendo ad un certo punto anche 88 partite di fila. Purtroppo il Grande Rosso non potette godersi un ultimo taglio della retina in quanto UCLA venne clamorosamente sconfitta, in doppio overtime, nella semifinale del Torneo 1974.

Fuori dal campo, però, come già accennato, quel giovane ragazzo faceva parlare di sé. Divenne un attivista politico, venendo pure arrestato per proteste contro il governo e non mancando di far sentire la propria voce di dissenso per quanto stava avvenendo in Vietnam. Vegetariano quando ancora non era di moda, anticonformista convinto, uno spirito libero che girava in bicicletta e rifiutava tanti vizi a cui erano avvezzi i giovani, soprattutto quelli con soldi nelle mani. E poi quel look inconfondibile (anche se messo a dura prova da Wooden), con quella massa incolta di capelli rossi, resa ancora più buffa dall’uso di sgargianti fascette multicolore.

A dispetto di tutto ciò, per i detentori della prima scelta assoluta al Draft 1974, i Portland Trail Blazers, era ben più importante quanto visto sotto i canestri: Bill Walton sarebbe stato il loro uomo. Una franchigia stava per svoltare l’angolo.

I flash di grandezza del Grande Rosso nell’Oregon furono immediatamente visibili; allo stesso modo, però, lo fu anche la fragilità fisica. Nelle sue prime due stagioni nella Lega, in una squadra comunque da bassifondi, andò sempre in doppia doppia, ma gli infortuni iniziarono subito a bussare alla porta. Bill giocò solo 35 partite da matricola ed una cinquantina da sophomore, rompendosi nel frattempo diverse ossa, sparse su tutto il corpo, senza fare distinzioni. I fan dei Blazers iniziarono ad interrogarsi. Walton era un giocatore fenomenale quando poteva stare il campo, con la capacità di arpionare rimbalzi, di poter segnare in diversi modi, di avere il timing giusto per stoppare e nell’effettuare passaggi spettacolari. Il problema era uno solo: quanto sarebbe riuscito a giocare?

La stagione 1976-77 si aprì senza grandi prospettive. Sicuramente Big Red aveva voglia di rivalsa e di mostrare con continuità sul parquet quanto fosse forte, ma i tifosi della Rip City non cullavano ambizioni in grande. Eppure, con un Walton finalmente sano, la squadra decollò. Con Jack Ramsay a predicare dalla panca, vi era un gruppo compatto, coeso e soprattutto molto interessante, forte di elementi come la rocciosa ala Mo Lucas, il tipico enforcer del tempo, Lionel Hollins, l’attuale allenatore dei Nets, e Bob Gross. A guidare tutti, ovviamente, il grande Bill. Nell’annata che lo consacrò al primo dei due All Star Game in cui venne selezionato, Walton fu devastante, chiudendo l’anno come primo di Lega per rimbalzi (14,4) e stoppate (3,2), cifre a cui aggiungeva oltre 18 punti e quasi 4 assist ad incontro. Portland spiccò il volo sin dalle prime partite, accumulando subito vittorie su vittorie, con un’intera città ai propri piedi e pazza di quella formazione: era scoppiata la Blazermania. Walton, il solito naif, continuava ad andare in bicicletta alla partita, solo che, successo dopo successo, sempre più persone lo accompagnavano allo stesso modo per le vie della città, in una scena dal sapore di Rocky sulla scalinata a Phila. Dopo aver vinto 49 incontri, i Trail Blazers si qualificarono per i primi Playoffs della propria storia, senza avere piena coscienza di quali potessero essere i limiti e le possibilità di quella squadra. Che, al contrario di quanto si potessero aspettare gli addetti ai lavori, erano immense. Portland superò di slancio Chicago, Denver e, soprattutto, gli apparentemente invincibili Lakers di Abdul-Jabbar, addirittura sweeppati con un secco 4-0 (anche se con distacchi minimi). Quasi inaspettatamente, i Blazers si trovarono catapultati alle NBA Finals 1977, opposti a quella che era considerata la formazione simbolo di quel periodo, i Philadelphia 76ers di Julius Erving, Darryl Dawkins e chi più ne ha più ne metta. I valori in campo sembrarono rispecchiare fedelmente i pronostici; i Sixers, infatti, trascinati da Dr. J, volarono sul 2-0, sembrando sul punto di conquistare l’anello. Era arrivata al termine la Blazermania? Sul finire di gara-2 scoppiò una violenta rissa tra Lucas e Dawkins, che ebbe come risultato quello di risvegliare Portland. Sul parquet amico, nella terza partita, fecero fuoco e fiamme, guidati da un Walton in tripla doppia e capace di piazzare due alley-oop quasi consecutivi, che furono da esempio nel momento cruciale nel quarto quarto. I Trail Blazers presero coraggio sotterrando gli avversari nell’incontro successivo e pareggiando la serie. In un’importantissima quinta partita, con l’incoscienza tipica delle squadre che non hanno niente da perdere, riuscirono ad espugnare lo Spectrum, guidati dai 24 rimbalzi di Walton, con l’incredibile opportunità di chiudere i conti davanti ai propri tifosi in gara-6. Erving diede il tutto per tutto per cercare di forzare la “bella”, ma l’ultimo possesso della partita non capitò tra le sue mani. Portland era avanti di due punti, ma doveva effettuare una difesa perfetta sull’ultimo tiro di Philadelphia per aggiudicarsi l’anello. George McGinnis ricevette palla e scoccò il tiro, che però rimbalzò sul ferro. Bill, dall’alto della sua enorme intelligenza, sentendo l’attaccante avversario piombarsi sul rimbalzo per il tap-in da una posizione più favorevole alla sua, non volle provare a controllare la sfera, bensì la deviò sapientemente, con la punta delle dita, verso un compagno libero. La sirena suonò. L’incredibile era successo: i Portland Trail Blazers, alla prima apparizione in postseason, erano diventati campioni NBA. Bill Walton, dopo una prestazione da 20 punti, 23 rimbalzi, 7 assist ed 8 stoppate, venne meritatamente nominato MVP delle Finals; lui, da par suo, non smentì la propria personalità istrionica. Prima riempì di champagne l’abito del compito sindaco, poi, durante la parata per le vie della città, prese il microfono e chiese pubblicamente che gli venisse restituita la bicicletta, che gli era stata rubata pochi giorni prima, cosa che poi puntualmente accadde. Walton aveva vinto da protagonista anche tra i pro, era il padrone di una città ai suoi piedi e di una Lega pronta ad accoglierlo nel proprio Olimpo. Cosa avrebbe potuto rovinare questo quadretto idilliaco?

Nessuno, apparentemente. L’anno successivo i Blazers spazzarono la concorrenza in regular season, con il Grande Rosso nominato MVP della stagione, da perno di una squadra da 58 vittorie. Non lo poteva sapere ma sarebbero stati gli ultimi scampoli con la maglia di Portland. In gara-2 del Primo Turno contro i Sonics ecco il maledetto crac al solito piede, un infortunio devastante e sicuramente aggravato anche dall’affrettato rientro in campo. Il problema era particolarmente serio, tanto che lo costrinse a stare fermo un anno, ma i guai erano appena iniziati. Walton, frustrato, si sfogò contro lo staff sanitario della propria squadra, a suo avviso incapace di curarlo e trattare con la dovuta precauzione i problemi che erano sorti. Chiese addirittura di essere ceduto, di andarsene da quella città che lo aveva eletto il proprio Re. Il caso finì in tribunale. Nella offseason del 1979, solo due anni dopo esser stati sul tetto del mondo cestistico, le strade di Bill e dei Blazers si allontanarono per sempre: Walton, infatti, firmò per i San Diego Clippers.

Cambiò la propria pettinatura selvaggia, il proprio stile di vita e le abitudini, per portare alla vittoria la sua nuova squadra. In California, però, la situazione-infortuni addirittura peggiorò. Disputò solo 14 partite nella prima stagione, la 1979-80, prima di venire costretto a saltare per intero le due successive annate. Nessuno credeva che sarebbe mai più tornato a giocare, sommerso tra tante operazioni a quei piedi di cristallo e lunghissime riabilitazioni. Con grandissima tenacia e forza di volontà Walton lo stesso volle ritornare ad essere un giocatore di basket. Nel 1982-83, centellinando gli sforzi e le apparizioni, finalmente rivide i parquet della Lega. Nelle due stagioni successive (tra cui quella del passaggio dei Clippers a Los Angeles), ebbe limitati problemi, ma fu una presenza costante nella squadra. Certo, non poteva più dominare come una volta, ma già il solo fatto di contribuire (mettendo assieme buoni numeri), dopo tutte quelle sofferenze, era molto gratificante. Mancava solo una cosa al Grande Rosso: tornare a vincere.

In quegli anni la NBA era diventata il territorio di caccia di due superpotenze, impegnate a scambiarsi su di un metaforico ed ideale ring, corrispondente al nome di NBA Finals, pugni di una tonnellata ciascuno. I Los Angeles Lakers dello showtime, nel 1985, avevano avuto il proprio momento di gloria ai danni degli odiati arci-rivali, costretti quindi ad effettuare le contromosse per tornare al vertice. Per questo motivo, i Boston Celtics, ascoltando proprio l’auto-promozione dello stesso giocatore (che si era offerto anche ai giallo-viola, in verità), decisero di acquistare Bill Walton, addirittura cedendo uno dei propri giocatori-simbolo, Cedric Maxwell. Il Grande Rosso era eccitatissimo, si mise al servizio dei compagni come un ragazzo appena uscito dal liceo. Il suo entusiasmo elettrizzante fu contagioso per tutta la squadra che acquisì non solo un talento dalle mani ancora sopraffine, ma un vincente nel vero senso della parola. Bill giocò addirittura 80 partite, record personale, formando, con Larry Bird, Kevin McHale e Robert Parish, probabilmente la più forte front-line di tutti i tempi. Dopo aver già vinto i trofei di MVP della stagione regolare e delle Finals, Walton vinse anche quello di Sesto uomo dell’anno, unico nella storia della Lega. I minuti erano contingentati, l’apporto qualitativo no. I bianco-verdi, senza mezzi termini, demolirono la concorrenza. Anche le NBA Finals 1986, contro gli Houston Rockets, ebbero una competitività relativa. Il Grande Rosso ce l’aveva fatta: seppur da comprimario, aveva vinto il secondo titolo personale, a coronare una rincorsa iniziata dai tavoli chirurgici di qualche anno prima. Terminata la decisiva gara-6, si recò a casa di uno stremato Larry Bird, rimanendo sulla sua poltrona, sveglio dall’eccitazione del momento, per tutta la notte, luogo dove lo trovò l’indomani mattina Larry Legend, che aveva invece dormito beatamente nel proprio letto.

Quelli furono gli ultimi attimi di vita NBA per Bill Walton. Nell’annata successiva un infortunio lo costrinse ai box per quasi tutta la stagione. Tornò in tempo per disputare i Playoffs ed un’altra Finale, quella del 1987, questa volta persa contro i Lakers. L’anno seguente lo passò in lista infortunati e, dopo aver tentato un infruttuoso rientro, decise che era giunto il momento di ritirarsi. Nel frattempo, aveva fatto pace con i Blazers, che giustamente ritirarono nel 1989 la sua maglia numero 32. Successivamente, si gettò con grande profitto nel mondo dei telecronisti, riscuotendo un certo successo col pubblico americano.

La carriera di Bill Walton è stata alquanto particolare. Stiamo parlando di un giocatore che è stato eletto non solo nella Hall of Fame ma anche tra i 50 migliori di sempre, a Cleveland nel 1997. Che ha vinto a qualsiasi livello ma che ha conosciuto tanti manrovesci, soprattutto per via di quei piedi cagionevoli. Tranne che nelle stoppate (posizione numero 82), non è tra i primi 100 in nessuna delle principali categorie statistiche della storia della Lega. In 13 anni di roster NBA, il Grande Rosso ha disputato solamente il 44% delle partite disponibili. Eppure, considerando anche la grande popolarità nella vita quotidiana che godette per tanto tempo, nonostante le tante assenze, Bill viene ricordato come uno dei più grandi centri di tutti tempi, sicuramente tra i più completi e con le mani fatate, che, senza quei dolorosi infortuni, avrebbe sicuramente lasciato un segno ancor più indelebile sulla Lega e per la franchigia di Portland.

Il commento finale va all’uomo che lo allenò in quella stagione del miracolo della Blazermania, Jack Ramsay, che così si espresse negli spogliatoi, davanti ai giornalisti, subito dopo aver vinto il titolo:

Non ho mai allenato un miglior giocatore, non ho mai allenato un miglior spirito competitivo e non ho mai allenato una migliore persona di Bill Walton.”

Alessandro Scuto

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Alessandro Scuto

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