Perdere e perderemo

“Lei ha capito benissimo, perdere e perderemo”.

Qualche aficionado dei b-movie all’italiana avrà di certo riconosciuto a che film appartiene la battuta qui sopra, mentre per tutti gli altri basti sapere che è tratta da “L’allenatore nel pallone”. In particolare fa parte di uno scambio tra il presidente della Longobarda e il suo allenatore Oronzo Canà (Lino Banfi) nel quale il primo impone, alla vigilia dell’ultimo match di campionato, che la squadra perda, in maniera tale da rendere sicura la retrocessione e risolvere dei problemi di mala gestione finanziaria.

Ora probabilmente vi starete chiedendo cosa possa centrare un film sul pallone di 25 anni fa con il basket, ancor di più con la famosa lega oltreoceano. La risposta ovviamente è niente, però provate a immaginare lo stesso dialogo con protagonisti due membri dell’NBA dei giorni d’oggi e valutarne la plausibilità. Da un lato nei panni del presidente Sam Hinkie, GM dei Philadelphia 76ers, e dall’altra parte Brett Brown (allenatore dei 76ers) in quelli di Canà. Visti i recenti risultati ottenuti dalla squadra della città dell’amore fraterno non appare cosi impossibile come incontro vero? Ovviamente non è avvenuto e mai Hinkie ha anche solo pensato di chiedere al suo allenatore di perdere apposta. Non ne ha bisogno. 17 sconfitte consecutive a inizio 2014/2015, 18 quest’anno (record in coabitazione con i Nets 2009/2010) e 28 sconfitte consecutive tra la scorsa regular season e la presente non sono il risultato di una richiesta del GM, non sono il risultato di una gestione incompetente, ma di un piano tanto rivoluzionario quanto controverso che sta procedendo cosi come è stato idealizzato. Per arrivare a parlare di questo piano bisogna però fare un salto nel passato. Trust the process.

LE FAREMO SAPERE

28 Aprile 2012. All’United Center di Chicago si gioca Gara 1 del primo turno dei Playoff. Da un lato i padroni di casa, i Chicago Bulls, qualificati con il seed numero 1 e un record di 50-16 (la stagione aveva avuto inizio solo a Dicembre causa lockout), dall’altra i Philadelphia 76ers con l’ottava posizione in griglia e un record di 35-31. A 1’ 20” dalla sirena finale l’avvenimento che cambia le sorti in primis di Chicago e del suo leader Derrick Rose, ma anche in maniera indiretta quello di Philly.

I tori stanno portando a casa una facile vittoria, sono sopra di 12 punti e in totale controllo. Quello che avviene negli ultimi 13 secondi dell’azione offensiva incriminata è tristemente noto a ogni tifoso NBA, ma sono le conseguenze che più ci importano in questo caso. I Bulls vinceranno quella partita, ma perderanno la serie e come scopriranno successivamente anche i legittimi sogni di vincere il titolo negli anni a venire.

Philadelphia si ritrova invece ad aver vinto la prima serie dei playoff dal 2003 e di averlo fatto eliminando la testa di serie numero uno ad est (quinta volta nella storia NBA), oltre che aver portato i Celtics a gara 7 nel turno successivo (poi perso). La squadra si scopre improvvisamente più forte di quelle che erano le aspettative di inizio stagione e con un gruppo che può diventare una sicurezza per i playoff degli anni a venire. Di questo soprattutto la nuova proprietà ne è convinta. È difatti di un anno prima (il 13 Luglio 2011) l’acquisto della franchigia da parte di un gruppo d’investimento che vede a capo il miliardario John Harris per 280 milioni di dollari.

Harris, co-fondatore della Apollo Global Management, cosi come altri elementi della cordata (come David Blitzer e David B. Heller, rispettivamente socio della Blackstone Group e membro per 23anni della Goldman Sachs), possiede una discreta abilità nel replicare i migliori modelli di gestione anche in ambiti a lui non familiari. Il primo obbiettivo della nuova proprietà è difatti la ricerca di quale strategia NBA “rubare” ed è in questo contesto che nell’estate del 2012 avviene il primo incontro con il futuro GM Sam Hinkie.

Harris assieme ai suoi collaboratori identifica due modelli di organizzazione da cercare di replicare.

Il primo è l’approccio di squadre come San Antonio e Thunder, franchigie famose per lo sviluppo dei giocatori e per la cultura interna in fatto di basket. Il secondo vede il metodo usato da squadre come i Celtics e i Rockets, franchigie che fanno del loro punto di forza la conoscenza approfondita del CBA e delle statistiche, soprattutto del loro utilizzo. La figura di Sam Hinkie ricalca esattamente il secondo approccio (in quel momento Hinkie è il più giovane VP dell’NBA sotto la guida di Morey ai Rockets). Al primo incontro con la proprietà Sam mette in mostra tutte le sue capacità, mostrando il lavoro da lui svolto a Houston, dalla costruzione di modelli predittivi sulle stagioni NBA fino allo studio dei migliaia di possibili impatti di un giocatore su di un determinato sistema.

Tutto ciò però non basta. La proprietà decide di perseguire un’altra strada, quella che appare più rapida per il titolo. In uno sport di cinque contro cinque, comandato da regole di salary caps, scelte al draft e contratti massimali, questa via può apparire con l’avere in squadra una star (un’analisi del sito FiveThirtyEight mostra come nelle ultime 40 squadre a giocare le Finals il miglior giocatore di entrambe rientra nel 96° percentile delle statistiche di plus/minus, il secondo nel 90°, il terzo nel 79°).

Il dilemma è come procurarsi questa star.

Nell’estate del 2012, forti del cammino nei playoff appena conclusi, Harris e soci sono convinti di aver trovato il modo di acquisire quel tipo di giocatore. Philadelphia prende di fatto parte alla trade a quattro squadre che vede il trasferimento di Howard ai Lakers dai Magic, aggiungendo al proprio roster il centro Andrew Bynum (in un momento in cui tragicomici infortuni derivanti dal bowling e tagli di capelli opinabili ancora devono arrivare). Harris e il resto della dirigenza sono convinti di aver trovato il loro giocatore da 96° percentile, anche se a caro prezzo (i 76ers cedono il loro migliore giocatore, Iguodala, una prima scelta del draft 2017 e il giovane centro Vucevic).

Hinkie avverte la proprietà che non solo stanno sopravvalutando Bynum, ma che l’intera squadra risulta peggiore di quella dell’anno prima. A fine stagione il record recita 34-48 e 0 minuti giocati dalla nuova star della squadra a causa di reiterati problemi alle ginocchia (e a una scarsa professionalità fuori dal campo). L’esclusione dalla post-season è la goccia che fa traboccare i già difficili rapporti tra una proprietà interessata a un approccio innovativo e una dirigenza old-school. Esempio è il concetto espresso dal coach di Philadelphia, Doug Collins, quando interpellato dalla stampa sulla possibilità di consultare analisi statistiche risponde, citando le esatte parole: “I’d blow my brains out”.

È in questo quadro che nell’estate 2013 avviene il secondo incontro tra Hinkie e Harris, un anno dopo il primo. Invitato per una cena a Manhattan Sam si presenta con un portatile e quella che reputa essere l’arma giusta per convincere i suoi interlocutori, una presentazione in power point in cui illustra punto per punto, trade per trade, come gli Houston Rockets siano riusciti ad accumulare il giusto numero di asset che hanno permesso l’acquisto della superstar James Harden.

Un mese dopo il GM di Philadelphia, Tony DiLeo, viene licenziato. È giunto il momento per Hinkie di mettere in pratica la sua visione.

E LEI, MR. HINKIE, QUANTO OFFRE?

Due stagioni e mezzo da GM di una squadra NBA sono bastate a Hinkie per farsi fama di abile negoziatore. È comune ritrovare nei commenti di vari siti internet e anche nei dialoghi tra addetti ai lavori l’idea che sedersi al tavolo delle trattive con il GM di Philadelphia equivalga alla certezza di uscirne sconfitti già in partenza (ne sanno qualcosa i Sacramento Kings, che quest’anno si sono ritrovati a scambiare la scelta numero otto al draft 2014 Nick Stauskas, il veterano Carl Landry e Jason Thompson, oltre che una futura prima scelta al draft e la possibilità per Philadelphia di scambiare le scelte 2016 e 2017 per nulla, se non la possibilità di creare spazio salariale).

Su questa abilità contrattuale si basa parte del piano di ricostruzione attuato da Hinkie. In particolare la capacità di accumulare montagne di asset, soprattutto seconde scelte. Quest’ultime possono essere viste come le penny stock del mondo NBA (per chi non sapesse cosa siano le penny stock si rimanda a una accurata visione de “Wolf of wall street”), e nessuno, in tutta la lega, ne possiede quante Philadelphia.

Basti pensare che i 76ers sono l’unica squadra ad avere una scelta extra per il 2021, quando i possibili giocatori di quel Draft hanno attualmente 12/13 anni. Per Philadelphia ognuna di quelle seconde scelte rappresenta la possibilità di una trade futura o un importante guadagno nel giorno del Draft, quando altre squadre metteranno gli occhi su diversi prospetti senza avere le scelte per prenderli.

Sam sarà lì, pronto a cedere le sue scelte per qualsiasi tipo di profitto che pensa sia vantaggioso, oppure pronto a tenerle per se, nella speranza di trovare il nuovo Manu Ginobili o Chandler Parsons. Giocatori come Jeramy Grant (o K.J. McDaniels prima di lui), scelto alla trentanovesima chiamata, rappresentano l’ideale di giocatore che in questo momento Philadelphia privilegia. I primi due anni di contratto sono garantiti per le somme di 885.000$ e 845.000$, 300.000$ in più di molte altre seconde scelte, cosa che funge da incentivo al giocatore oltre che non pesare sulla squadra, dato il grande spazio salariale in cui si trova a operare. L’elemento interessante per Philly è che il terzo e quarto anno di contratto di Grant non sono garantiti, cosi da permettere di poter valutare il giocatore per i primi due anni e verificarne i progressi.

Oppure tagliarlo a costo zero.

Se raccogliere il maggior numero di seconde scelte è una delle parti del “process”, un’altra parte è rappresentata dalle gestione delle prime scelte. Nei tre Draft finora affrontati da GM dei 76ers Hinkie si è attenuto a una semplice regola: prospetti infortunati e giocatori stranieri. Eclatante è stata la sua realizzazione soprattutto al primo Draft condotto, quello del 2013.

La scelta di scambiare il 23enne All-star Jrue Holiday per Nersel Noel e una prima scelta protetta 2014 suscitò diversi interrogativi non solo sulle intenzioni dei Sixers, ma anche sulla sanità mentale del loro GM. Indubbiamente se l’intenzione del primo anno di gestione Hinkie fosse di avere una squadra competitiva i dubbi erano leciti. Ma Philadelphia non voleva assolutamente esserlo. Noel si era infortunato gravemente al ginocchio pochi mesi prima del Draft e questo l’aveva fatto scendere di molte posizioni (prima dell’infortunio veniva dato come prima scelta assoluta), spaventando molte squadre sulla sua possibile tenuta fisica.

Non Philadelphia, che anzi opererà un piano di riabilitazione che definire “conservativo” risulta quasi eufemistico. Noel rimase seduto per tutta la prima stagione, conclusa con il record di 19-63 dalla squadra e la terza scelta al Draft 2014. Scelta che si tramutò nell’interessantissimo big man (come Noel) Joel Embiid, anche lui infortunato e che al momento della scrittura di questo articolo non ha ancora giocato un minuto sui parquet americani. Per quanto discutibile, la scelta di prendere un giocatore nella stessa posizione del prospetto dell’anno precedente riflette perfettamente la logica di scelta di Hinkie.

Miglior prospetto al momento della scelta? Si. Infortunato? Si (fattore positivo nell’ottica di Sam). Necessità di vincere nel suo anno da rookie? No. Ottimo allora. Sempre in quel Draft Hinkie mette in pratica la seconda parte della sua regola scegliendo di scambiare la propria decima scelta Elfrid Payton con la dodicesima scelta di Orlando, Dario Saric, acquisendo inoltre una seconda scelta 2015 e una prima scelta 2017. La particolarità della scelta del giocatore croato è l’assenza dell’opzione per il buyout NBA nel suo contratto con l’Efes (il club europeo per cui gioca) per i primi due anni.

Anche in questo caso quello che viene considerato da molti front office NBA come un aspetto negativo in sede di scelta assume invece un valore positivo per Philadelphia. Le scelte all’ultimo Draft seguono la linea di pensiero delineata negli anni precedenti: diverse scelte al secondo giro per giocatori impiegati nel vecchio continente (come Guillermo Hernangomez) e prospetti da valutare (RIchaun Holmes) e il miglior talento disponibile al momento della scelta al primo giro (il centro Jahlil Okafor). Il terzo big man scelto in tre Draft lascia diversi dubbi sulle intenzioni future della franchigia, non fosse per la gestione del ROY 2014 Michael Carter-Williams.

L’undicesima scelta al Draft 2013 dopo una prima stagione condita da diversi premi e record personali e una prima metà della stagione da Sophomore su livelli simili il 19 Febbraio 2015 viene scambiato con Milwaukee per la prima scelta protetta top-5 dei Lakers al Draft 2015, uno scambio ritenuto inspiegabile per una franchigia normale. Per Philadelphia invece assume un senso. Oltre all’insaziabile voglia di ammassare asset su asset la decisione è basata su un semplice fattore: sviluppo.

Senza dover ricorrere a un’analisi avanzata si nota facilmente un peggioramento in quasi tutte le statistiche base e una mancata evoluzione del gioco della giovane promessa. Basandosi su dati tecnici più specifici e considerazioni sul potenziale inesplorato Hinkie valutò MCW non il giocatore da 96° percentile, ma sacrificabile nella ricerca di quest’ultimo sfruttando l’appetibile valore di mercato acquisito. Lo stesso tipo di considerazioni sono in atto per qualsiasi giocatore della rosa, ancor più per Noel e Okafor. I due giovani big man sono le facce della stessa moneta, due possibili dominatori delle rispettive meta campo, quella difensiva per Noel e quella offensiva per Okafor. La compatibilità tra i due è tutta da scoprire, anche se più interessante sarebbe scoprire la compatibilità di uno dei due con Embiid, considerato quest’ultimo il prospetto di maggior talento. Ad ogni modo agli occhi di Hinkie appaiono sempre come infinite possibilità.

THE EMPIRE (WILL) STRIKES BACK

Guardando giocare Philadelphia non si è portati a pensare che la squadra giochi per perdere, anzi si può essere addirittura spinti a pensare che il gioco sviluppato abbia anche della qualità. Semplicemente la squadra è assurdamente priva di talento. I roster delle ultime stagioni sono costruiti principalmente da seconde scelte e undrafted, basti pensare che in quella attuale sono presenti solo sei giocatori scelti al primo giro (tra cui gli infortunati Embiid e Kendall Marshall).

Si tratta per lo più di giocatori senza esperienza, in cui la più lunga militanza nella lega sono le tre stagioni di Tony Wroten e che hanno speso buona parte della loro breve carriera perlopiù su un campo di D-League. I numeri raccontano di una delle peggiori squadre che la lega ha mai visto, basti pensare che nella stagione 2013-14 i 76ers hanno giocato la pallacanestro a più alto ritmo, con un pace (possessi per 48minuti) di 99,2, il tutto però con il peggior attacco (99,4 punti ogni 100 possessi). Sono risultati i peggiori per turnover (14,2%) e percentuale reale dal campo agli avversari (0.524). Nella stagione successiva la musica non è cambiata: 95,7 di pace, 95,5 di offensive rating, 16 di turnover%.

A vedere un netto miglioramento soltanto l’oppFg%, sceso a 0.497 (in parte dovuto all’inserimento di Noel in squadra). In tutto questo però la posizione del coach Brett Brown non è mai stata in dubbio, e questo perché fortemente spalleggiato dall’uomo che li l’ha messo e che fortemente l’ha voluto, Sam Hinkie. Scelto per il passato alle dipendenze di Popovich agli Spurs e soprattutto per l’abilità nello sviluppo dei giocatori Brown aveva posto una sola precisa condizione al momento dell’assunzione: la durata del contratto.

“Non avrei accettato il lavoro se non fosse stato per quattro anni. Quando la gente parla di ‘costruire una cultura’ mi arrabbio sempre. Richiede tempo”.

Il nativo del Maine rappresenta solo la punta dell’iceberg di un’organizzazione rivoluzionata in molti suoi aspetti. Lo staff alle dipendenze del coach è quanto più variegato possibile, come dimostra la presenza di Lance “Doc” Pearson, dottorato in sistemi neurali e cognitivi alla Boston University e laurea in matematica, computer science e filosofia a Kentucky. O da un Navy SEAL, impegnato part time nell’insegnare la costruzione di un gruppo. Il livello di innovazione non si ferma a questo.

Dal primo giorno di gestione Hinkie i giocatori sono stati dotati di Gps per valutare il livello di fatica durante gli allenamenti (chissà cosa ne avrebbe pensato Iverson di questo). Oltre ciò al termine di ogni partita un team di otto membri dello staff stila un report contenente i giudizi sulla gestione di ogni possesso da parte dei giocatori secondo gli obbiettivi prefissati dalla squadra. Ad esempio, in attacco, volendo ricercare un alto ritmo lo staff misura il tempo in cui vengono compiuti i primi tre passi dei giocatori in seguito a una palla recuperata. Se questo non fosse sufficiente le percentuali al tiro dei giocatori non vengono soltanto raccolte durante le partite, ma anche durante il riscaldamento pre-partita e negli allenamenti.

Come ammesso da Jason Richardson “non puoi nasconderti”. Guardando una sessione di tiro pre gara dei 76ers due cose saltano subito agli occhi, oltre ai membri dello staff che appuntano e registrano ogni possibile dato: primo che escludendo Covington e Stauskas nessuno dei restanti giocatori sa “tirare”. Secondo che la lunghezza delle braccia di molti di loro è sopra la media, anche per gli standard NBA. Le due cose non sono una coincidenza, ma la conferma dell’interesse ai dettagli. Sviluppare l’apertura “alare” (un’abilità difensiva spesso sottovalutata) è scientificamente impossibile, ma come dimostrato da giocatori quali Kawhi Leonard è possibile allenare e sviluppare il tiro nel tempo. Quelli elencati sono solo alcuni dei molteplici cambiamenti portati dalla nuova gestione.

In tutto questo Philadelphia momentaneamente sta giocando la pallacanestro che vuole e non sarà nessun record negativo a farle cambiare ciò. Non sarà il rischio di non riuscire a trovare le star che stanno cercando nei prossimi due anni a cambiare ciò. Non sarà neppure la possibilità di una gestione mediocre per una o due anni a farlo, come ribadito da Sam durante l’incontro con la proprietà:

“In un mondo governato dalla casualità è il processo che porta ad una decisione a contare più che la decisione stessa”.

Perciò fino a che Hinkie non deciderà di passare alla prossima fase del progetto la squadra tirerà ancora con il 33% da tre, continuerà ad avere uno dei peggiori attacchi di sempre e correrà quanto più le sarà possibile, nel tentativo di riempire il più possibile il box statistiche dei propri giocatori alla ricerca di acquirenti (come MCW e Thaddeus Young prima di loro). Come coach Brown è pienamente conscio: “la squadra che sto allenando non è la squadra che allenerò tra qualche anno”.

Nel frattempo non rimane che una cosa: trust the process.

Luca Mazza

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Pubblicato da
Redazione NbaReligion

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