Draft, la Scelta Sbagliata – Chris Washburn: in quel Draft Maledetto

And if the cloud bursts, thunder in your ear
You shout and no one seems to hear
And if the band you’re in, starts playing different tune
I’ll see you on the dark side of the moon

Pink Floyd, “Brain Damage”, the Dark Side of the Moon, 1973

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La NBA è un mondo scintillante e fantasmagorico, fatto di luci e riflettori, palcoscenici e flash dei fotografi, contratti milionari e sano supereroismo made in U.S.A. Un mondo sfavillante, che ammalia gli occhi e i sensi con la fama, le giocate spettacolari, gli sponsor, i soldi. Una facciata stupenda e multicolore, una facciata di sorrisi smaglianti e gesti di rispetto, una facciata di fans in delirio, di statue di metallo brunito all’ingresso delle arene. Una facciata che nasconde, a volte, un lato più oscuro, più triste e drammatico. Che nasconde le pressioni, le insicurezze e le fragilità di ragazzi giovani molto più di quanto la loro statura potrebbe far credere. Che nasconde gli eccessi, la sregolatezza, quel pizzico di follia di troppo che finisce per dare la spinta definitiva, oltre il limite, in un baratro di cui non si riesce a vedere il fondo. L’emblema di questa faccia nascosta, di questo lato oscuro della lega, è quello che è passato alla storia come Cursed Draft, il Draft Maledetto, quello dei “belli e dannati”, il Draft del 1986. Ed è proprio di uno dei giocatori di quel Draft la storia che stiamo per raccontare.

Hickory è una piccola cittadina del North Carolina immersa nel verde a circa 58 miglia a nord di Charlotte, che deve il suo nome a un grosso albero di noce americano (in inglese hickory, appunto) sotto il quale, nel lontanissimo 1850, un certo Henry Robinson costruì una taverna. Intorno a questo arcaico punto di aggregazione si formò la città, che venne inizialmente chiamata Hickory Tavern. Passarono moltissimi anni dalla costruzione di quella taverna, l’albero di noce venne tagliato e la città superò una grave epidemia di polio, poi, il 13 maggio 1965, nacque Christopher Scott Washburn. Chris era un ragazzino allegro e iperattivo a cui non riusciva mai di stare fermo. Non gli piaceva la scuola (a chi piace la scuola dopotutto?) ma amava lo sport. E soprattutto, Chris aveva un fisico strepitoso. Era più alto di tutti i suoi amici, e al campetto da basket li umiliava tutti. Ben presto Chris Washburn capì che proprio verso il basket doveva orientare la sua vita, il suo futuro. Fu per questo che, quando si trovò sul punto di scegliere il liceo, la sua attenzione fu immediatamente attratta da una sola scuola, da un solo nome.

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Il Laurinburg Institute era una storica scuola per afroamericani, famosa per un programma sportivo glorioso, soprattutto nel basket. A Laurinburg si erano diplomati, tra gli altri, Sam Jones (pluricampione e Hall of Famer NBA con la squadra più vincente di sempre, i Boston Celtics di Bill Russell) e Charlie Scott (cinque volte All Star tra ABA e NBA e campione NBA, sempre coi Celtics, nel 1976, quando Chris aveva 10 anni e il basket lo guardava ammirato in tv). La storia scintillante degli ex allievi e il fantastico programma di basket erano soltanto due dei motivi di vanto dell’istituto, ma furono tutti quelli che servirono a Chris per decidere di lasciare la sua Hickory e di trasferirsi nella casa dei Tigers. A Laurinburg, Washburn diventò una stella assoluta: alto ormai 2.11 m, si impose come centro dominante e devastante, innalzando il suo nome alle cronache nazionali. Venne nominato All-American (nel 1984), ma cominciò a dare anche qualche segno di insofferenza all’autorità. Non era esattamente uno studente modello, anzi, tutt’altro. Era svogliato, incontrollabile e aveva l’irresistibile tendenza a mettersi nei guai. Ma aveva anche un’esuberanza atletica fuori dal comune. Al termine della sua esperienza liceale, era considerato insieme a John Williams e a Danny Manning, uno dei tre prospetti più promettenti degli Stati Uniti. Era un centro mobile, veloce, atletico fino all’esasperazione, e dotato anche di mani educate a completare il suo fisico dirompente.

Jim Valvano, credits to: twocrapples.blogspot.com via Google

Era il 1984. La North Carolina State University decise di consegnare una squadra straordinaria al proprio coach, Jim Valvano. Nel roster c’erano già Spud Webb (una point-guard di 1.70 m con un atletismo straripante e un’elevazione fuori dal comune, circa 1.1 m, basandosi sulle misurazioni effettuate a NC State), l’ala grande Charlie Shackleford (ottimo schiacciatore che avrebbe avuto una buona carriera tra la NBA e l’Europa) e l’ala Chucky Brown (futuro campione NBA con gli Houston Rockets di Olajuwon).

Da sinistra: Spud Webb, Charles Shackleford e Chucky Brown, credits to: ncsu.edu via Google

Inoltre North Carolina State pescò benissimo nella recruiting class 1984, affiancando ai tre giocatori simbolo, la combo-guard Nate McMillan, che sarebbe poi diventato una star ai Seattle Supersonics, la guardia tiratrice Vinny Del Negro, futuro campione NBA con i San Antonio Spurs (e campione d’Italia con la Benetton), e, ultimo ma non ultimo, il ragazzone di casa, quel Chris Washburn che tutte le università guardavano come un frutto proibito.

Nate McMillan e Vinny del Negro, credits to: spokeo.com via Google

Sin dal suo arrivo a NC State Washburn dimostrò tutto il suo potenziale atletico e tecnico: mise a segno 10.7 pts e 5.9 rbd in 25 minuti circa di media già nella sua stagione da freshman deliziando il pubblico con giocate veramente pregevoli.

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Ma a queste luci corrispondevano anche moltissime, fin troppe, ombre. Appena Washburn arrivò al college, infatti, i suoi problemi comportamentali andarono fuori controllo. Fu colto in flagrante mentre rubava uno stereo, e venne trascinato in tribunale, dando vita al primo di molti scandali che, nel giro di pochi anni, avrebbero colpito la North Carolina State University, e che avrebbero posto fine alla carriera del suo coach, Jim Valvano. Durante il processo, Washburn venne attaccato duramente dal procuratore del distretto di Wake County, che riuscì a mostrare alla giuria anche i risultati del suo SAT (lo Scholastic Aptitude Test necessario per l’accesso nelle università statunitensi). Il punteggio di Washburn era stato inferiore ai 500 punti (su un massimo di 1600), con il limite minimo fissato a 400. Lui stesso avrebbe dichiarato, qualche anno più tardi:

Gli allenatori che erano lì mi avevano detto:«Hai già firmato, sei già entrato a scuola, devi solo fare questo test, giusto per accedere al college.» Quando mi dissero che non importava che risultato avessi ottenuto, ci misi tipo 22 minuti. Buttai soltanto giù [le risposte]: segna qui, segna lì…

Venne messa in dubbio (forse a ragione) anche la sua etica del lavoro, con lo scout Bob Gibbons pronto a dichiarare, attirandosi addosso le ire dei tifosi NC State e le smentite di Valvano, che Washburn non sarebbe mai riuscito a far parte del programma di basket dell’università e che:

Non è mai stato tanto in gamba quanto la sua reputazione.

Questi problemi giudiziari gli costarono 46 ore in carcere e cinque anni di libertà vigilata, oltre a costringerlo a giocare soltanto sette partite in quella stagione 1984/85.

credits to: ncsu.edu

Per questo c’era moltissima curiosità di vederlo all’opera nella sua prima annata completa per NC State. Fu un successo: 17.6 pts, 6.7 rbd, il 56% dal campo sono soltanto dati statistici, che rendono in modo crudo e freddo lo spettacolo che Washburn seppe mettere in campo, emozionando il pubblico che accorreva alla PNC Arena per tifare i Wolfpack. La vetta più alta, Washburn la raggiunse la sera del 23 febbraio 1986 quando, di fronte alle telecamere della tv nazionale, NC State ospitò i “cugini grandi” della University of North Carolina, i Tar Heels che erano stati di Michael Jordan e che adesso erano del fortissimo centro Brad Daugherty. In quella partita Washburn domò e dominò il ben più quotato avversario, segnandogli in faccia 26 pts nella vittoria capolavoro della sua NC State per 76-56.

La copertina di “Personal Fouls“, di Peter Golenbock, credits to: sltampa.com via Google

Alla termine della stagione Chris Washburn si dichiarò eleggibile per il Draft NBA, lasciando l’università dopo soli due anni. Ma la sua turbolenta esperienza collegiale era destinata ad avere gravissimi strascichi. Nel 1989, infatti, un giornalista sportivo del New York Times, Peter Golenbock, famoso grazie ad alcuni libri sul baseball, scrisse un libro-inchiesta dal titolo “Personal Fouls”. Fin qui nulla di particolarmente interessante. Ma la reazione di Jim Valvano fu molto particolare: poco prima dell’uscita del libro fece pervenire alla casa editrice, la Simon & Schuster, un lettera in cui minacciava di portarla in tribunale insieme all’autore e di chiedere un risarcimento di proporzioni inimmaginabili (circa 250 milioni $). La Simon & Schuster non se la sentì di rischiare, e lasciò cadere l’idea del libro. Idea che sarebbe stata raccolta poi, un anno dopo, da una piccola casa editrice, la Carrol & Graf. Ma dov’era la ragione di tanto accanimento da parte del coach di NC State contro l’inedito scritto di Golenbock? Basta leggere il sottotitolo per capire meglio: the Broken Promises and Shattered Dreams of Big Money Basketball at Jim Valvano’s North Carolina State. Il libro era, nella sostanza, un’indagine sulla NCAA degli anni ’80, incentrata sulle irregolarità che si sarebbero verificate alla corte di Jim Valvano in quel periodo. Pur non essendo sempre impeccabile per documentazione, una volta pubblicato nel 1990, il libro portò alle dimissioni il rettore Bruce Puolton e al licenziamento di Valvano. I pezzi forti dell’opera erano il caso di Charles Shackleford (che viene accusato da Golenbock di varie violazioni al regolamento NCAA, come aver fatto uso di sostanze stupefacenti e aver ricevuto del denaro da parte di un imprenditore del New Jersey) e, neanche a dirlo, quello di Chris Washburn. In “Personal FoulsGolenbock aveva raccolto le dichiarazioni di tal Richard Lauffer, un ex componente del consiglio del dipartimento di educazione fisica di NC State, che, intervistato nel 1989, aveva candidamente dichiarato che i voti di Washburn erano stati alterati per permettere al giocatore di rimanere in squadra senza squalifiche per lo scarso rendimento scolastico (come invece successe a Shackleford). Queste accuse, essendo ben nota a tutti la scarsa predisposizione allo studio di Washburn, furono ritenute perfettamente plausibili: North Carolina State avviò due distinte indagini interne, una condotta dal consiglio universitario, l’altra da due componenti del dipartimento di educazione fisica, rivedendo tutti i file di Washburn e dichiarando poi di non aver trovato prove a sostegno delle affermazioni di Lauffer.

Lasciandosi alle spalle i polveroni, le polemiche e i misteri di NC State, Chris Washburn si avviò verso una carriera che ci si immaginava già come splendente e luminosa, fatta di trionfi e premi personali. Ma prima c’era il Draft. Washburn era certamente considerato uno dei prospetti più forti in circolazione, ma aveva la concorrenza di altri due lunghi di assoluto livello. Da una parte proprio quel Brad Daugherty che era la stella dei Tar Heels post-Jordan, dall’altra un’ala forte che veniva da Maryland e si chiamava Len Bias. La Draft Lottery concesse la prima scelta ai Los Angeles Clippers e la seconda ai Seattle Supersonics, ma entrambe le franchigie avevano ceduto le loro scelte, i Clippers ai Cleveland Cavaliers, i Supersonics ai Boston Celtics. Dietro di loro sarebbe stato il turno dei Golden State Warriors. Cleveland aveva bisogno di un centro di livello, in grado di garantire più qualità di Melvin Turpin e Mark West, a Boston, campione NBA uscente, serviva invece un’ala forte che facesse rifiatare la star assoluta Kevin McHale, garantendo minuti di qualità dal pino. Golden State cercava a sua volta un centro con più punti nelle mani rispetto a Jerome Whitehead. Così nella notte del 17 giugno 1986, a New York City quando David Stern salì sul podio riservato al commissioner per annunciare le scelte al Draft, il primo nome che chiamò fu quello di Brad Daugherty. Subito dopo, con la seconda scelta, i Boston Celtics chiamarono Len Bias. E fu così che, alla scelta #3, i Golden State Warriors draftarono Chris Washburn.

Fu sicuramente un momento indimenticabile quello in cui Washburn salì sul podio, al fianco del commissioner, fasciato in un abito elegantissimo e con il cappello dei Warriors sulla testa. La sua eccitazione arrivò alle stelle. Ma quello era il Draft Maledetto, anche se ancora nessuno lo sapeva.

Len Bias e Chris Washburn, credits to: hoopshype.com via Google

Chris Washburn era un amico di Len Bias. Durante la notte del Draft disse che sarebbe passato a trovarlo in Maryland con la sua nuova Mercedes mentre tornava in North Carolina. Era un serata di sorrisi e di abbracci, e loro due erano giovani, forti e schifosamente ricchi. Si sentivano dei supereroi. Washburn rimase a New York, mentre Bias andò prima a Boston, e poi tornò nel Maryland, per impacchettare tutte le sue cose e partire verso la sua nuova vita. Ma i suoi amici gli organizzarono una festa d’addio. Per tutta la notte tra il 18 e il 19 giugno 1986, Len Bias ballò, bevve, ma soprattutto sniffò cocaina. La mattina dopo il suo giovane cuore collassò. Len Bias morì appena due giorni dopo il momento più bello della sua vita, nella sua stanza a Maryland. Quella stessa notte, anche Chris Washburn, a New York, partecipava a un festino con alcool e droghe, a cui erano presenti anche altri giocatori NBA. La mattina dopo lo aspettava un evento della Lega della Polizia proprio lì a New York. Chris si sentiva particolarmente nervoso:

Non vorresti mai avere intorno la polizia quando sei stato in piedi tutta la notte a drogarti.

Ma mentre camminava per le strade della Grande Mela una notizia durissima lo raggiunse:

Qualcuno mi riconobbe e mi gridò:«Ehi, hai sentito di Len?». Io gli feci:«Smettila di dire bugie!». Allora lui mi mise un giornale sotto al naso. La notizia era sul retro del New York Post. Ci stetti male. Non avevo mai conosciuto nessuno fino a quel punto della mia vita che fosse morto, e lui fu il primo.

La notizia della morte di Bias fu solo il primo anatema su quel Draft. Anni dopo William Bedford (che era stato la scelta #6) si prese una condanna a otto anni di carcere per dei problemi di droga, e Ron Tarpley, scelto alla #7 si guadagnò una squalifica a vita dalla NBA a causa di una dipendenza da cocaina. Molto più avanti, al terzo giro, fu scelto anche Dražen Petrović, il cui triste destino fu uno dei drammi peggiori della storia della NBA e del basket mondiale. Guardando indietro con un pizzico di amarezza, Ed Badger, head scout dei Boston Celtics nel 1986, l’uomo che aveva scelto Bias, ebbe a dire:

Fu un Draft sfortunato per molte squadre.

Ma Chris Washburn era ancora giovane. In quell’età in cui anche i drammi peggiori vengono lentamente metabolizzati e si torna presto a vivere come prima. Lui non fece eccezione. Entrò nel grande circo della NBA per diventarne il padrone indiscusso.

credits to: thesportster.com via Google

Ma le cose andarono in modo ben diverso da come se le era immaginate. Nonostante i Warriors avessero organizzato uno scambio per portare in California l’esperto centro veterano Joe Barry Carroll, soltanto per vegliare sullo sviluppo di quel talento turbolento, l’atteggiamento sprezzante di Washburn rese tutto inutile. Eppure le cose sembrarono iniziare bene. In un match di preseason della sua stagione da rookie contro i New York Knicks, nonostante una pesante sconfitta di 23 punti, Chris fece segnare 16 pts. Quello rimase il suo unico acuto tra i professionisti. A inizio stagione, infatti, cominciò a soffrire di tendinite: il dolore limitava le sue prestazioni, così Washburn cominciò a prendere degli antinfiammatori. Ma un sovradosaggio del medicinale finì per causargli un problema renale, che si manifestò violentemente nel gennaio 1987. Ma non fu quello l’unico problema di una stagione da rookie che Washburn avrebbe chiuso a 3.8 pts e 2.9 rbd di media in 35 partite (solo due da titolare): il 28 gennaio, infatti, dopo aver fallito un primo test antidroga, Chris Washburn entrò in una clinica di disintossicazione a Van Nuys, in California, per i problemi legati alla cocaina. Tornò a fine marzo, ma già non era più lo stesso giocatore. Nella successiva stagione 1987/88 Washburn giocò solamente otto partite con i Warriors, rimanendo in campo per appena 10.8 minuti di media e facendo registrare 4.1 pts e 2.5 rbd. Poi la franchigia di Oakland decise di disfarsene, mandandolo il più lontano possibile, nello specifico sull’altra Costa. Nel dicembre 1987 Chris Washburn si unì agli Atlanta Hawks, in cambio di niente (o meglio dei diritti sul mai più pervenuto Ken Barlow). Il GM dei Warriors, Al Attles, dichiarò:

Beh, è una sfortuna. Eravamo stati così impressionati dalla sua prepotenza atletica. Era un ragazzo così affascinante, con quel grosso sorriso.

Ma la sua situazione di Washburn, se possibile, peggiorò. Giocò sei minuti di media in 29 partite, infilando cifre drammatiche: 2 pts e 1.9 rbd a partita. Poi fallì anche il suo secondo test antidroga.

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Nonostante tutti questi fallimenti l’atteggiamento di Washburn non migliorò affatto, e lui rimase un superbo ragazzo viziato e troppo sicuro dei suoi mezzi. Uno dei numerosi esempi di questa mancanza di etica del lavoro fu la risposta che Chris consegnò alla stampa che gli chiedeva cosa ne pensasse della partita amichevole che gli Hawks avrebbero giocato in Russia:

Russia? Io non andrò a giocare in nessuna Russia! Me ne andrò a casa in North Carolina, è lì che passerò il mio tempo libero.

Una spavalderia e una sregolatezza che Washburn stava per pagare nel peggiore dei modi. Nel giugno 1989 venne sottoposto a un terzo test antidroga. Risultò positivo. La NBA non ebbe altra scelta se non quella di squalificarlo a vita.

All’improvviso Chris Washburn si rese conto che tutto quello per cui aveva lavorato in vita sua, tutto quello che avesse per lui un qualche minimo significato, era crollato. Caduto su se stesso. Finito. La sua vita cominciò ad andare alla deriva. Se ne andò a Houston, dilapidando velocemente i soldi guadagnati in una girandola senza uscita di droga e degrado. Viveva nello squallore più totale. Toccò il fondo.

Ero un senzatetto. Dormivo in case fatiscenti o in edifici abbandonati. Andavo in un alimentari, nel reparto della frutta, per mangiare qualcosa, oppure dove stavano i sandwich e tiravo fuori la carne perché era qualche giorno che non la mangiavo. […] Mangiavo dai secchioni della spazzatura.

Giunto al punto più basso della sua intera vita, Chris Washburn decise che era ora di rimettersi in piedi. Di risalire, di mettersi a scalare. Smise con la droga, si rimise in sesto. Lentamente si ricostruì una vita dignitosa. Giocò un po’ oltreoceano, si trovò qualche lavoro.

Oggi Chris Washburn guarda a quei giorni in modo lucido e razionale, con la piena comprensione dei suoi errori. Ha confessato che quando era a NC State beveva e fumava marijuana prima delle partite, motivo per cui calava nelle seconde frazioni. Ha ammesso di aver cominciato a far uso di cocaina a New York, durante i trials che precedevano il Draft. Ha raccontato di non aver “mai dormito” quando era a Golden State, di notti brave e di giorni passati a drogarsi, dal momento in cui gli allenamenti finivano fino al mattino successivo. Ha tirato fuori quel lato oscuro della NBA che a nessuno piace guardare, quello che sta dietro ai flash dei fotografi, dietro alle telecamere, dietro alle interviste e ai discorsi ufficiali. Dietro alle ipocrisie e ai momenti strappalacrime.

credits to: hickoryrecord.com via Google

Certo, essere un ex giocatore professionista ha avuto anche i suoi lati positivi: Washburn ammette candidamente che questo l’ha aiutato a ottenere posti di lavoro che altrimenti nessuno gli avrebbe dato. Ma ora che è pulito e che ha avviato un business di successo nella sua nativa Hickory (un fast food che vende principalmente pollo fritto) Chris Washburn vuole diventare un esempio. Un esempio per tutti i giovani che si avviano a una carriera come la sua, perché possano evitare di fare gli errori che ha fatto lui. In questo sarà affiancato da altri due rappresentanti di quel Cursed Draft del 1986: Ron Tarpley e William Bedford.

Ho visto attraverso cosa sono dovuto passare e ho incontrato William in carcere. […] Vuole che lo aiuti a mettere su qualche conferenza nella quale lui possa andare un po’ in giro a parlare ai ragazzi delle high school e dei college per aiutarli. […] Noi tre possiamo fare questi discorsi. Può essere una cosa buona sentire la terza, sesta e settima scelta del Draft 1986 che hanno avuto problemi di droga.”

Il dramma di Chris Washburn, Len Bias, William Bedford e Ron Tarpley è stato per la NBA quello che negli Stati Uniti si chiama wake-up call, un brusco risveglio. Anche a causa di questi episodi David Stern varò, negli anni ’90 il durissimo regolamento anti-droga in vigore ancora oggi, inaugurando una battaglia senza quartiere tra lo sport professionistico e la dipendenza da sostanze stupefacenti.

Il Cursed Draft del 1986, credits to: sacbee.net via Google

Nonostante tutto quello attraverso cui è passato, però, Chris Washburn dedica sempre un pensiero al suo vecchio amico, Len Bias.

Spesso guardo indietro e penso che avrei potuto essere io. Sarei facilmente potuto essere nei suoi panni. […] Spesso dico alla gente che lui ne è uscito facilmente. È morto. Io ho dovuto viverci. […] Quando dico che ne è uscito facilmente intendo che non ha dovuto aver a che fare con tutte le umiliazioni. […] Ma io sono ancora qui, e mi sento fortunato per questo.”

La maledizione del Draft 1986 lui alla fine l’ha esorcizzata. Adesso lo possiamo incontrare sul lato luminoso della Luna.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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