La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso. (Albert Einstein)
Lo dice la qualità del roster, lo dicono numeri e statistiche, lo dice il gioco espresso: i Philadelphia 76ers da almeno 3 anni a questa parte, e forse in particolar modo quest’anno, sono tra le peggiori squadre della Lega, forse LA peggiore per antonomasia. Eppure, com’è ormai piuttosto palese, nulla, ma veramente nulla, è casuale nella franchigia della Pennsylvania: nemmeno le sconfitte, nemmeno i dettagli fisici dei giocatori. La squadra, composta in buonissima parte da giocatori che dovrebbero avere cittadinanza NBA molto più precaria, ha palesi difficoltà offensive (ultimissimi in Offensive Rating, cioè punti segnati ogni 100 possessi, con 91.5; basti sapere che i penultimi, i Bulls, al momento sono a 97.1…), penultimi per percentuale dal campo (41.4%), quintultimi per percentuale da 3 punti (31.7%). Eppure, allo stesso tempo, i giocatori sono chiaramente mediamente di buona taglia fisica in relazione al ruolo e, soprattutto, dotati di braccia piuttosto lunghe rispetto al fisico.
Le lunghe braccia di Nerlens Noel. (credits to www.sportsonearth.com)
Può sembrare un’eventualità, ma come dicevamo nulla accade casualmente nel feudo di Sam Hinkie, già premiato da ESPN nel 2015 come la squadra che più utilizza le statistiche analitiche dell’intero panorama professionistico americano. E non sono casuali nemmeno quelle braccia, tanto lunghe anche a occhio nudo. Stando ad un articolo dello scorso febbraio di ESPN, addirittura 10 giocatori su 14 a roster avevano un’apertura alare (la cosiddetta wingspan, per usare il termine anglofono) di ben 6 pollici (più di 15 cm) superiore all’altezza. Ciò significa che, mediamente, i giocatori non sanno tirare. Ma hanno le braccia lunghe.
A prima vista può sembrare un controsenso: cosa te ne fai di un giocatore dalle leve infinite se non sa mettere un pallone in un canestro? Be, in primo luogo, puoi farlo difendere, come i Sixers in parte fanno: a dispetto del record, Phila si piazza 21sima per Defensive Rating (punti concessi ogni 100 possessi) con 103.3, meglio ad esempio di Houston (105.8), Denver (103.8) e addirittura Memphis (103.7, statistica però in parte viziata dal calendario d’avvio molto complicato per i Grizzlies). La lunghezza delle braccia è spesso sottovalutata in ambito difensivo, mentre è molto importante per recuperare palloni, contestare o stoppare i tiri avversari, prendere rimbalzi. Ma soprattutto, le braccia non si allungano, ma il tiro invece si può allenare. E i modelli in tal senso ci sono, e sono quanto di più lontano si possa pensare dall’attuale contesto di Philadelphia.
Il prototipo di questo tipo di giocatore è chiaramente Kawhi Leonard. Entrato nella Lega come ala atletica e buonissimo difensore sulla palla grazie alle braccia infinite (oltre i 2 metri e 20), nei due anni a San Diego State tirò 16/78 da 3 il primo anno e 25/86 il secondo, in, rispettivamente, 34 e 36 partite giocate. Ciò significa che Kawhi, in oltre 30 minuti di gioco, al college prendeva poco più di 2 tiri dalla lunga a gara, convertendoli con percentuali piuttosto basse (20.5% e 29.1% rispettivamente). E non dimentichiamoci che a livello NCAA l’arco dei 3 punti è pure più corto: in pratica, faticava a segnare dei long-two NBA.
Ma una volta arrivato a San Antonio, non a caso fortemente voluto dalla franchigia texana (per averlo gli Spurs sacrificarono un ottimo elemento della rotazione come George Hill), ha fatto a dir poco passi da gigante in quel fondamentale: se il primo anno le conclusioni rimasero poche (addirittura 1.7 a gara in 24 minuti) e tendenzialmente solo con spazio, dal secondo anno l’incremento fu esponenziale, sfiorando il raddoppio (3 tiri circa) con un minutaggio solo di poco aumentato (sempre intorno ai 30 minuti). In questo primo scorcio di stagione, Leonard sta prendendo 4 tiri da 3 a gara, convertiti con un eccezionale 50%. Non faceva progressi simili in un lasso relativamente breve nemmeno Magikarp quando evolveva in Gyarados.
Hop hop gadget: braccio! (credits to ledaily-dunk.com)
Entrato nella Lega nel 2011, il fenomeno Kawhi è esploso definitivamente dopo il titolo del 2014 con tanto di conquista dell’MVP delle Finals. Ma in quel momento c’era già una squadra in particolare che aveva già iniziato a lavorare per mettere insieme, addirittura, un intero roster selezionato anche, se non soprattutto, sulla base di queste determinate caratteristiche fisiche.
Il 25 giugno del 2009 i Golden State Warriors, con la settima moneta al Draft, mettono le mani su Stephen Curry. L’avvio di carriera dell’ex Davidson è buono nonostante i frequenti problemi alle caviglie, ma la squadra non è neanche lontanamente da playoff e viene da un cronico periodo di quasi ininterrotta ricostruzione (una sola volta in post season nei 15 anni precedenti, nel 2007). E così l’ennesimo nuovo corso, avviato in prossimità della cessione della franchigia a Joe Lacob, decide di puntare sulle caratteristiche del figlio di Dell, esaltate da un gioco in transizione che, finalmente, non paghi dazio da un punto di vista fisico. I primi esperimenti sono Ekpe Udoh, addirittura sesta moneta nel Draft 2010,e David Lee, lungo rapido ma anche di buona presenza sotto i tabelloni. Non andrà benissimo in termini di risultati di squadra, ma Udoh, lungo atletico di 2.08, con 2.25 di lunghezza delle braccia, è un primo esperimento.
Quando poi arriverà in squadra un altro talentuoso esterno offensivo come Klay Thompson nel 2011, il nuovo GM Bob Myers decide di spingere sull’acceleratore per quanto riguarda il progetto basato sui futuri Splash Brothers: in un solo Draft (2012) porta a casa Harrison Barnes con la 7 (2.07 per 2.14 di wingspan), Festus Ezeli con la 30 (2.10 per addirittura 2.30 di braccia) e, con la pick numero 35, chiama anche Draymond Green, due metri scarsi di ala senza ruolo definito per la Lega, ma con braccia che toccano i 2.16. Pur con le evidenti differenze, Green diventa una sorta di Leonard dei Warriors: a Michigan State, nell’anno da freshman chiude con un eccezionale 0/1 dall’arco. Col tempo prenderà più conclusioni già al college, ma entra comunque in NBA come tiratore non certo affidabile: da rookie prende meno di un tiro da 3 a partita, convertito con il 20%. Oggi i tentativi sono circa 4, con un buon 36%. Ed è il cardine del sistema di gioco al momento più efficiente in circolazione.
La squadra è quasi fatta, ma arrivano le classiche ciliegine sulla torta. Nell’estate del 2013 i Warriors puntano forte Andre Iguodala, strappandolo ai Nuggets: oltre alla comprovata attitudine difensiva, anche Iggy porta in dote oltre 2 metri e 10 di braccia sui suoi 2 metri circa di altezza. L’estate successiva, con la squadra ormai più che competitiva, oltre a Kerr a guidare la nuova fuoriserie vengono inseriti anche Shaun Livingston e Leandro Barbosa, aggiunte più che mirate: 2.01 per 2.11 di wingspan il primo, addirittura 1.92 per 2.07 il secondo. E che te lo dico a fare, Donnie?
Draymond Green stoppa il ben più alto Timofey Mozgov durante le ultime Finals. (credits to: irontribune.com)
Con questa squadra, Golden State lo scorso luglio completa una cavalcata trionfale fino al Larry O’Brien, e in questo primo scorcio di stagione inanella 24 vittorie consecutive prima di cadere a Milwaukee. Solo merito di queste particolari doti fisiche? Ovviamente no, c’è dietro un sistema e una mentalità ormai radicata. Ma la struttura fisica dei giocatori voluti prima da Myers ha giocato un ruolo determinante: ha permesso di giocare “piccolo” e alzare il ritmo senza pagare in termini fisici in difesa.
E’ un assunto tanto semplice da apparire banale e scontato, ma bisognava rendersene conto, un po’ come i primi cestisti che recuperavano il pallone nel cesto con la scala prima di intuire di tagliarne il fondo: nel basket l’altezza conta, ovviamente, ma non come l’altezza raggiunta con le braccia protese. Non si gioca con la testa, ma con le mani alzate verso il canestro: ecco perché lo standing reach, la misurazione del punto più alto raggiunto in piedi con le braccia alzate, è ormai guardato più della mera altezza. Questo permette di schierare elementi come Green, come detto 2 metri scarsi, da PF senza grossi problemi, perché ha uno standing reach di circa 2.70 e quindi tiene a rimbalzo e difensivamente. E offensivamente porta in dote una rapidità e un tiro difficilmente immaginabili in un lungo tradizionale.
Golden State è la prima squadra, a inizio anni ‘10 del Duemila, ad aver intuito queste potenzialità e ad aver fatto evolvere il concetto di small ball: rapidi sì, ma allo stesso tempo mediamente alti per il ruolo, o meglio, con standing reach alto. Questo permette di avere elementi che cambiano senza grossi problemi difensivamente, tra loro piuttosto intercambiabili, che giocano in rapidità senza pagare fisicamente e che creano quindi continui mismatch, sia fisici che atletici. Ad eccezione di Curry e dell’unico big man vecchio stampo a roster, Bogut, tutti i giocatori seguono questi parametri. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Credits to: www.csnbayarea.com
Chiaro che il modello Warriors rasenti la perfezione, anche grazie a un motore, Curry, che è ormai un unicum nella Lega. Ma è un modello vincente, che come tale sta iniziando a prendere piede, specie tra chi sta ricostruendo la squadra in questo periodo: detto di Hinkie, c’è poi un altro caso emblematico in fase di ricostruzione più avanzata dei derelitti Sixers, e sono proprio coloro che, guarda caso, hanno interrotto la striscia dei Warriors. Come i californiani, i Milwaukee Bucks hanno iniziato a porre le basi del roster attuale quando il vecchio proprietario Herb Kohl cercava acquirenti, nel 2013, con i Warriors nell’altra costa a mostrare i primi risultati di una squadra costruita in tal modo. In quell’off season, si liberarono, curiosamente, ancora di Monta Ellis e poi di Brandon Jennings, spedito a Detroit in un sign and trade che includeva Khris Middleton (esterno di 2.02 per 2.10 di wingspan). In quella stessa off season 2013 si raggiunse poi il rinnovo del lungo designato come titolare, Larry Sanders, 2.11 dall’assurda wingspan di 2 metri e 28, e dal Draft arrivò il Freak per eccellenza: Giannis Antetokounmpo, esterno di 2.11 con 2.25 metri di apertura alare e mani gigantesche. L’anno successivo fu la volta di Jabari Parker, altro esterno fisico e dalle braccia lunghe (2.03 per 116 chili e 2.13 di wingspan) e poi di Michael Carter-Williams, a dare fisicità anche alla regia (1.95 per 2.05 di braccia). A questi si aggiungono poi i vari Greg Monroe, arrivato in extremis per sostituire il fuggitivo Sanders (2.10 per 2.20 di apertura alare), John Henson (2.11 e addirittura 2.25 di wingspan), Tyler Ennis (piccolo play di 1.87 ma con oltre 2 metri di braccia) e Johnny O’Bryant (2.05 per 2.19).
Da sinistra a destra, John Henson, Larry Sanders e Giannis Antetokounmpo, quasi 7 metri di braccia in totale (credits to: www.operationsports.com)
Alla guida di una squadra così costruita è stato messo un coach giovane, ambizioso, ex playmaker e grande intellettuale del gioco come Jason Kidd (vi ricorda qualcuno?), che la passata stagione ha dato una forte impronta difensiva alla sua squadra, chiudendo con 99.3 di Defensive Rating, secondo solamente a una squadra. Non credo serva ancora che vi dica quale sia…
Complice la perdita di un elemento chiave difensivamente come Zaza Pachulia, in questo primo scorcio di stagione l’efficienza difensiva è peggiorata notevolmente (104.7 di Def. Rating quest’anno). Il lavoro da fare per Kidd è ancora molto, ma ciò non cambia l’assetto della squadra, composta da 4 esterni e un solo lungo di ruolo, tutti elementi atletici, che possono cambiare su ogni blocco e tra loro intercambiabili. Le differenze con Golden State restano abissali, a cominciare dal molto minore ricorso al tiro dalla lunga a vantaggio del puro atletismo, ma la struttura fisica con cui è stata pensata la squadra è molto simile, se non addirittura una sorta di esasperazione del caso Warriors.
E’ ancora recente il lutto per la prematura dipartita di Jonah Lomu, leggenda del rugby neozelandese e mondiale. L’All Black rimarrà nella storia nonostante una carriera tormentata dai problemi ai reni perché, schierato come ala, ha rivoluzionato il ruolo e il gioco stesso abbinando alla tradizionale velocità richiesta nella posizione (correva i 100 metri in meno di 11 secondi) un fisico imponente e mai visto prima in quello spot (quasi 2 metri per 125 kg). Oggi, a 20 anni dalla Coppa del Mondo in Sudafrica che ne lanciò il mito, avere ali fisicamente prestanti e allo stesso rapidissime è la normalità nel rugby di alto livello.
Perché lo sport, come ogni altra cosa al mondo, si trasforma, cambia, evolve. Anche la NBA ebbe i propri precursori “braccioni”: oltre ad un talento straordinario, Scottie Pippen poteva vantare braccia fuori dal comune, che l’hanno agevolato a diventare il tremendo difensore che fu; non a caso Leonard è stato spesso accostato al secondo violino di Jordan. In una NBA ancora dominata da lunghi di peso, Elton Brand, 2.05 scarsi di altezza, a inizio anni Duemila si distinse come macchina da rimbalzi grazie a un’assurda apertura alare di quasi 2 metri e 30. All’incirca nello stesso periodo, Tayshaun Prince (2.05, ma circa 2.20 di wingspan) diventava una delle chiavi tattiche e difensive dei Pistons campioni NBA nel 2004. Ma il gioco è veramente cambiato quando questi non sono più stati solo singoli, ma squadre intere: interi reparti di guardie-ali in grado di coprire quasi indifferentemente tre ruoli, che costruiscono una muraglia difensiva e regalano una duttilità tattica mai vista prima. Non a caso, la Lega pare sempre più piena di questi simil Rubber, neanche avessero moltiplicato i frutti Gom Gom: dopo Leonard, proprio gli Spurs si sono assicurati anche Kyle Anderson (2.01, 2.20 di wingspan); uno dei maggiori talenti della nouvelle vague NBA come Andrew Wiggins è un esterno alto e longilineo, per non parlare poi di una superstar affermata come Kevin Durant (un assurdo 2.26 di apertura alare). Rajon Rondo basa buone parte delle sue doti di stealer e rimbalzista sulle braccia di oltre 2 metri e 5, e anche i lunghi di ruolo, più che imponenti, devono essere atletici e dalle lunghe leve: ne è l’esempio lampante Rudy Gobert e la sua irreale apertura alare di 2.33 (!!!).
Con la sua mania per numeri e statistiche, Hinkie probabilmente l’ha intuito da tempo: è questa l’ultima evoluzione del gioco, è lo standing reach il nuovo parametro fisico da tenere in considerazione più che l’altezza pura. Forse non dell’intera Lega, ma la tendenza sembra andare verso questo tipo di giocatore, e i risultati ottenuti sono al momento lusinghieri. Chissà che, prima o poi, anche i Sixers non raccolgano i frutti di questa propensione: prima però bisognerà imparare a tirare meglio…