Draft, la Scelta Sbagliata – Pervis Ellison: Vittima del Fato

La vita non è altro che un cammino, irto di ostacoli, pieno di bivi, labirintico, a volte quasi claustrofobico, un cammino che si attraversa facendo delle scelte e sfruttando al massimo tutte le nostre capacità e potenzialità. In questo senso lo sport, e soprattutto la scelta di diventare uno sportivo a livello professionistico, può rappresentare una metafora della vita. Chi fa questa scelta si trova davanti una strada in salita, che richiede sacrifici, fatica, sudore, ore e ore di applicazione e allenamenti. Una strada costellata di ostacoli più o meno grandi, e più o meno difficili da superare. Ostacoli che per ogni singolo atleta possono avere dimensioni ed entità diverse. È una strada dura quella verso il top, e percorrerla non è affatto semplice. Qualcuno lascia prima, spaventato dalla difficoltà del cammino. Qualcuno non raggiunge mai la vetta semplicemente perché non ne fa il suo scopo primario, non ci mette la giusta cattiveria. E poi c’è chi non riesce ad arrivare a causa di quegli ostacoli, voragini sul cammino troppo lunghe da saltare, troppo profonde da attraversare, troppo larghe da aggirare. Vittime del Fato, quello con la “F” maiuscola, bendato (sì, come la Fortuna) e bastardo, che decide di togliere quello che sembrava a portata di mano. E lo strumento preferito del Fato, almeno in ambito sportivo, è quello dell’infortunio. Se raccontare una storia può diventare un requiem alle carriere perdute di migliaia di giovani promesse senza nome; se narrare di dolori, ferite, fratture e sofferenze può servire a innalzare un’ode a questi eroi mancati, martoriati e pieni di cicatrici (esteriori e interiori), questa non può che essere la storia giusta. La storia perfetta. La storia di Pervis Ellison.

Questo posto è fantastico! È come se fosse un “Via col Vento” alla mescalina.[…] Stammi a sentire, qui portano a spasso cani immaginari, Garland, pure al guinzaglio, chiaro? E sono tutti armati e ubriachi. New York è pallosa!

La città di Savannah, credits to: eagle-entrepreneur.com via Google

È in questo modo che il giornalista John Kelso, interpretato da un ottimo John Cusak, descrive al suo editore la città di Savannah, nel film del 1997Mezzanotte nel giardino del bene e del male”, per la regia di Clint Eastwood. E proprio Savannah è il nostro primo palcoscenico. Capitale storica dello stato della Georgia e scalo portuale di una certa importanza, la città vanta una storia antica (almeno per lo standard statunitense) e alcuni dei più begli scorci architettonici e paesaggistici del Nord America, che attraggono, anno dopo anno, orde di turisti. Nonostante questo però, Savannah non ha mai ricoperto, nell’immaginario comune, il ruolo delle altre grandi città della East Coast, e anche in Georgia, ben presto, la sua fama è stata oscurata da quella di Atlanta, capitale di oggi, priva magari di quel fascino “storico” che hanno gli edifici a Savannah, ma con un appeal economico e demografico molto maggiore. Un sorpasso che si è sentito anche a livello sportivo, con Atlanta che oggi monopolizza il panorama dei major sports in Georgia, e la più antica Savannah che non solo non si fregia di alcuna franchigia, ma anzi, nemmeno di giocatori che abbiano avuto un impatto importante in almeno uno di quei sopraccitati major sports (al di là di Bucky Dent, MVP delle MLB World Series del 1978). Eppure una possibilità c’era stata, quando, il 3 aprile 1967, proprio a Savannah, nacque un bambino che rispondeva al nome di Pervis Ellison. Agli occhi di chi lo guardava crescere, in quegli anni giovanili nel sud della Georgia, saltava subito la sua fisicità poderosa. Pervis era altissimo, aveva una muscolatura straripante, un’apertura alare strepitosa, era tutto quello che qualsiasi coach avrebbe desiderato in un lungo. Esplosivo, dotato della giusta dose di violenza, tecnico al punto giusto, impressionante anche solo da guardare. Alla Savannah High School Pervis Ellison fu una star assoluta. Quella sua fisicità lo rese il fulcro della squadra di basket della scuola che con lui cominciò a volare un po’ più in alto di quanto non fosse mai stata abituata. Pervis non era soltanto popolare, era un vero e proprio Re, talmente idolatrato da riuscire quasi ad abituarsi alla sensazione di avere un riflettore puntato addosso, a quel formicolio che sembra pervaderti la pelle quando gli sguardi di tutti si fissano su di te e continuano a squadrarti. Non che le attenzioni gli scivolassero addosso, ma, oltre al fisico straordinario, Pervis Ellison sviluppò una capacità di concentrazione e una determinazione di ferro che sembravano renderlo immune all’emozione. Quell’emozione che attanaglia i muscoli e le membra durante le partite importanti, quelle che pesano. Quell’emozione che può salire alla testa quando vieni considerato tra i migliori prospetti dello Stato, forse tra quelli della Nazione. Quell’emozione che necessariamente ti percorre il corpo quando i college cominciano a farti la corte.

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Diplomatosi con successo, nell’estate del 1985 Pervis Ellison scelse di frequentare l’università a Louisville, Kentucky, entrando a far parte dei Cardinals. Il cambiamento sarebbe stato già di per se stesso spaventoso: solo in una città nuova, completamente diversa dall’accogliente Savannah dove era nato e cresciuto, Pervis Ellison avrebbe dovuto imparare a cavarsela, in un ambiente in cui non sarebbe più stato il totem e l’idolo che era alla high school. Ma non andò esattamente così, perché Ellison aveva scelto Louisville appositamente per dominare.

Il coach Denny Crum, credits to: northlittlerock.com via Google

Quando approdò in Kentucky alla fine dell’estate 1985, i Cardinals erano agli ordini di coach Denny Crum, futuro Hall of Famer e istituzione riconosciuta, l’uomo che, fin dal suo arrivo nel 1971, aveva trasformato Louisville in una superpotenza del basket collegiale, conducendola alla vittoria del suo primo titolo NCAA nel 1980 (contro UCLA, alma mater dello stesso Crum). I punti di forza di quella squadra erano tre.

Da sinistra verso destra: Herbert Crook, Billy Thompson e Milt Wagner

Herbert Crook, Billy ThompsonMilt Wagner. Il primo era il “ragazzo di casa”, un’ala al suo terzo anno universitario, proveniente dalla Eastern High School di Luoisville, che era stato Metro Conference Player of the Year nel 1983 (sarebbe stato la scelta #61 al Draft del 1988, ma non avrebbe giocato un solo minuto in NBA); gli altri due invece, entrambi senior, entrambi prodotto della Camden High School di Camden, New Jersey, erano un’ala e una guardia dalle grandi potenzialità; Thompson (scelta #19 al Draft 1986) avrebbe giocato due anni da comprimario nei Los Angeles Lakers dello Showtime portandosi a casa due anelli, prima di diventare uno dei pionieri della NBA in zona South Beach, quando venne scelto nell’expansion draft del 1988 dai Miami Heat; Wagner invece (scelto al secondo giro di quello stesso Draft 1986) avrebbe avuto più difficoltà ad affermarsi, riuscendo comunque a vincere un titolo NBA, sempre con i Lakers, nel 1987/88.

Kenny Payne, credits to: redvbluefilm.com via Google

A questi tre giocatori, che formavano la solida base dei suoi Cardinals, Crum volle affiancare qualche scelta oculata dalla recruting class del 1985. Fu così che a Luoisville arrivò (oltre, chiaramente, a Pervis Ellison) Kenny Payne, ala piccola dalla Northeast Jones High School di Laurel, Missisipi (sarebbe poi stato una deludente scelta #19 al Draft del 1989 dei Philadelphia 76ers).

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Questi cinque giocatori formarono lo zoccolo duro e talentuoso dei Luoisville Caridinals edizione 1985/86. Nomi non altisonanti, di certo non la squadra da cui ci si aspetterebbe una cavalcata trionfale. Ma, come dicevamo, Pervis Ellison era stato abituato a essere un idolo, era stato abituato a dominare. Così il gigante di Savannah si prese la squadra sulle spalle e fece quello che sapeva fare meglio: vincere. Guidati dalla mano magica e ferma di Crum e da un Pervis Ellison sensazionale, a tratti irresistibile, i Cardinals collezionarono un record di 32-7 accedendo così alla March Madness con la seed #2. I tifosi estasiati che accorrevano alle partite, con lo sguardo cercavano solo lui, Pervis Ellison, un centro di calma e metodicità nel caos e nella concitazione tipica di un parquet pieno di ragazzi. Per quel suo tipo di gioco, per la sua impassibilità, per la sua freddezza, cominciarono a chiamarlo Never Nervous” Pervis. Mai nervoso, mai emozionato, mai agitato Pervis Ellison. Di sicuro non agitato al primo turno del torneo NCAA, quando Louisville passò come una schiacciasassi su Drexler, né al secondo quando simile sorte toccò a Bradley. Nessuna emozione negli occhi o nelle sue mani da centro titolare quando i Cardinals sconfissero con ampio margine North Carolina, e poi Auburn, guadagnandosi l’accesso alle Final Four. C’era solo fermezza in lui quando in semifinale la sua Luoisville frantumò (con 11 punti di scarto) LSU, accedendo alla finale contro una delle superpotenze storiche del basket NCAA: la Duke di Mike Krzyzewski. Il 31 marzo 1986, alla Reunion Arena di Dallas, Texas, il Destino bussò per la prima volta alla porta di Pervis Ellison. In quella finale infuocata, il centro georgiano segnò 25 pts, catturando 11 rbd e distinguendosi come il miglior giocatore in campo, l’artefice principale della vittoria 72-69 di Luoisville, che si guadagnò così il secondo titolo (su due tentativi) della sua storia. Pervis Ellison venne nominato Most Outstanding Player delle Final Four, il primo freshman a riuscire nell’impresa dopo il leggendario Arnie Ferrin, che si era preso quel riconoscimento nel 1944, con Utah (dopo di loro ci sarebbe riuscito soltanto Carmelo Anthony, nel 2003, vestendo la maglia di Syracuse). Durante quei momenti l’emozione dovette assalirlo, dopotutto. Pervis Ellison era una realtà solida nel panorama cestistico degli Stati Uniti. Una realtà che faceva gola a molti.

Ellison sulla copertina di Sports Illustrated dopo la vittoria del titolo NCAA, credits to: cardinalsportszone.com via Google

Ma i fasti di quella stagione 1985/86 tardarono a ripetersi. Nei suoi altri tre anni collegiali Pervis Ellison e i Louisville Cardinals non riuscirono mai a superare le Sweet 16, senza più avvicinarsi a quel risultato straordinario che aveva coronato la sua stagione da freshman. Nonostante ciò, Ellison chiuse il suo periodo universitario con statistiche di tutto rispetto (15.8 pts e 8.4 rbd di media) che non sminuirono affatto le sue quotazioni agli occhi dei dirigenti della NBA.

La fine degli anni ’80 fu un periodo particolare per la NBA. Con il dominio dei Chicago Bulls di Michael Jordan ormai alle porte, e l’era dei centri grossi, duri e cattivi nel suo pieno fulgore, le franchigie si contendevano accanitamente i migliori lunghi su piazza. E un centro dominante era proprio quello che mancava ai Sacramento Kings che, nonostante un Danny Ainge e un Vinny Del Negro nel roster, avevano chiuso la stagione precedente con il deprimente record di 27-55. Un record che aveva avuto il solo pregio di consegnare alla squadra californiana la prima scelta al Draft 1989.

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In quel 27 giugno, sulle spalle del GM dei Kings pendeva una pesante responsabilità. Certo si trattava di spalle larghe, anzi larghissime, dal momento che il nome di quel GM era Bill Russell. L’uomo con più anelli che dita aveva per le mani i destini di tutta la franchigia e decise di puntare su un ragazzo che qualche ardito, forse impropriamente, forse a ragione, aveva cominciato a paragonare proprio a lui. Fu così che con la prima scelta del Draft NBA 1989 i Sacramento Kings scelsero Pervis Ellison. Dopo di lui, con la scelta #4, i Miami Heat chiamarono tal Glen Rice, con la #14 i Golden State Warriors si portarono a casa Tim Hardaway, con la #17 i Seattle SuperSonics presero Shawn Kemp, e infine alla #26, i Los Angeles Lakers scelsero il fenomeno europeo Vlade Divac.

Da sinistra verso destra: Glen Rice, Tim Hardaway e Shawn Kemp

Nella mente di Bill Russell e del coach dei Kings, Jerry Reynolds, ogni pezzo del puzzle era andato al suo posto, e Sacramento aveva la superstar che serviva a fare il salto di qualità. Cosa sarebbe potuto mai andare storto? Semplicemente tutto. La stagione da rookie di Pervis Ellison fu un disastro, un vero e proprio calvario, un incubo senza fine. Martoriato dagli infortuni alle ginocchia, giocò soltanto 34 partite su 82, partendo 22 volte da titolare e mettendo insieme cifre tristissime per un giocatore dalle sue potenzialità (8 pts, 5.8 rbd e 1.7 blk, tirando con il 44% dal campo).

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Il suo compagno di squadra Danny Ainge, arrivò a coniare per lui il soprannome, musicale e decisamente sarcastico, di Out of Service” Pervis. La delusione, la sua e quella dei Kings, avvelenò il suo rapporto con l’establishment dei californiani: in un ambiente come quello di Sacramento, perennemente schiacciato dalla pressione del confronto con la vicina L.A., non c’era spazio per l’attesa, non c’era spazio per il recupero, per la riabilitazione. Pervis Ellison venne ingloriosamente ceduto, nell’estate del 1990, ai Washington Bullets, in cambio di Steve Colter, playmaker da 6.3 pts e 2.8 ass in carriera, di certo non la più memorabile tra le stelle NBA. A mandarlo via fu proprio Jerry Reynolds che, nel corso della stagione era succeduto a Russell nel ruolo di GM, lasciando la panchina a Dick Motta.

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Ma il cambio di maglia portò inaspettati e insperati benefici a Pervis Ellison. I Bullets erano una squadra decisamente priva di ambizioni e potevano tranquillamente permettersi di spendere tempo ed energie ad aspettare il ritorno di un giocatore dalle grandi potenzialità come lui. E fu così che nella capitale federale Pervis Ellison rinacque a nuova vita. Con gli infortuni alle ginocchia ormai alle spalle e la fiducia del coach, Wes Unsled, Ellison cominciò a togliersi tutte quelle soddisfazioni che il suo anno da rookie gli aveva precluso: giocò 76 partite, 30 delle quali come starter, a 25.5 minuti di media, segnando 10.4 pts, 7.7 rbd e 2.1 blk con il 51% dal campo. Abbastanza per guadagnarsi il ruolo di centro titolare per la successiva stagione 1991/92. Unseld gli mise in mano le chiavi della squadra, sperando che potesse caricarsi i Bullets sulle spalle (come aveva fatto ai bei tempi di Louisville) e condurli attraverso le avversità di una stagione che si prospettava oscura. Andò come da previsione, con Washington a compilare l’umiliante record di 25-57, ma con un Pervis Ellison in grado di distinguersi a un livello superiore: doppia doppia di media stagionale per lui, con 20 pts, 11.2 rbd, 2.9 ass, 2.7 blk e il 53% dal campo. Numeri quantomeno importanti, che lo portarono anche al titolo di Most Improved Player of the Year, un riconoscimento che, soltanto due anni prima, sembrava essere distante anni-luce dalla sua portata.

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In quel momento, in California, doveva esserci qualcuno che rimpiangeva amaramente il fatto di non aver saputo aspettare. Ma anche quella stagione esaltante aveva avuto i suoi lati negativi. Al di là del pessimo record di squadra, che non poteva certo essere motivo di vanto, qualche infortunio minore lo aveva tenuto fuori dai campi per 16 partite, dieci in più rispetto all’anno precedente. Un brutto campanello d’allarme, vista la propensione delle sue ginocchia ad abbandonarlo proprio nei momenti fondamentali. Un campanello che Pervis Ellison non considerò con la dovuta attenzione. Così l’anno successivo, nonostante le sue prestazioni fossero solo un po’ inferiori rispetto a quelle fatte registrare nella sua stagione di grazia (17.4 pts, 8.8 rbd, 2.4 ass e 2.2 blk), una vasta varietà di infortuni alle ginocchia lo costrinse a saltare 33 partite di regular season. I fantasmi di Sacramento tornarono prepotentemente a farsi vivi nella mente di Pervis e in quella dell’establishment dei Bullets, ma i numeri del prodotto di Louisville erano indiscutibili, e lui era tra i giocatori migliori di Washington. La dirigenza non iniziò nemmeno a pensare a uno scambio e trattenne Pervis Ellison per l’ultimo anno del suo contratto. Fu di nuovo un incubo. La piaga degli infortuni tornò, violenta, e lo costrinse non solo a saltare 35 partite, ma a limitare la propria presenza in campo e il proprio apporto alla causa dei Bullets. 25 minuti scarsi di media sui parquet, conditi da 7.3 pts e 5.1 rbd. Peggio della sua disastrosa stagione da rookie. Pervis Ellison era tornato nell’incubo.

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I Bullets lasciarono che il suo contratto scadesse e che Ellison diventasse una delle pedine della free agency del 1994. Quell’estate c’era una squadra alla ricerca di riscatto, alla ricerca di rinascita, alla ricerca di una nuova partenza. Non una squadra come tante, ma una squadra con una storia, o piuttosto, una squadra che aveva scritto la storia. Era la squadra più titolata. Erano i Boston Celtics. La loro stagione 1993/94 era stata disastrosa: 32-50 di record sotto la guida di coach Chris Ford con il solo Robert Parish, ormai alla sua 17esima stagione, a fare da guida carismatica in campo. Un panorama desolante, soprattutto considerando quella che era la storia recente della franchigia. Qualcosa doveva cambiare. Il front office intervenne sul mercato e, visto anche il ritiro di Parish, chiamò proprio Pervis Ellison. Era il profilo ideale: un giovanotto orgoglioso e dotato, in cerca di riscatto dopo anni difficili, anni nei quali era stato piegato dal Caso cieco. Insieme a lui approdò in Massachusetts la stella assoluta Dominique Wilkins, giunto al suo 12esimo anno nella lega. Boston era pronta a ripartire. Ma non tutto andò secondo i piani. Effettivamente i Celtics tornarono dove competeva loro, ai playoff, ma lo fecero con un record negativo (35-47) e contro gli Orlando Magic di un giovanissimo Shaquille O’Neal, che li eliminarono in quattro gare. Pervis Ellison fu tutt’altro che il rinforzo cercato a Boston: in regular season giocò 55 partite (11 da titolare), a circa 19 minuti di media, segnando 6.8 pts e catturando 5.6 rbd, mentre in quei playoff che furono la sua unica e sola esperienza di post season, riuscì soltanto in un vago miglioramento (6 pts e 4.3 rbd). E fu solo l’inizio di una tristissima parabola discendente.

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Nelle sue altre quattro stagioni come Celtic, Pervis Ellison riuscì a incidere sempre meno sul parquet e giocò decisamente poco. Le sue cifre crollarono mentre gli infortuni non gli concessero mai di giocare più di 69 partite (raggiunte nella stagione 1995/96). Nel 1996/97, addirittura, comparve soltanto in 6 match, prima che gli infortuni mettessero fine alla sua stagione. Riuscì a crearsi una buona dose di problemi anche da solo, quando durante un trasloco si rovesciò un tavolo sull’alluce. Sarebbe potuta sembrare una cosa da nulla, ma si tradusse in un infortunio che lo tenne lontano dai parquet per la maggior parte delle partite tra il ’96 e il ‘98. Nelle sue ultime tre stagioni con i Celtics giocò un totale di 69 partite, saltando addirittura una stagione intera, quella 1998/99, mentre alla squadra, ogni anno, non riusciva l’accesso ai playoff. C’erano tutti gli elementi per considerarlo un fallimento, e dal momento che, nel 1997/98, alla guida di Boston era giunto un uomo notoriamente allergico ai fallimenti come Rick Pitino, ci si sarebbe potuti aspettare un rapido e inclemente taglio. Una ghigliottinata dritta e precisa. Ma il taglio non arrivò, anzi, tutt’altro. Perché quello che a Pervis Ellison ormai chiaramente mancava, ossia la salute e la capacità di spostare gli equilibri sul campo, era lautamente ricompensato dal suo cuore, dalla sua capacità di unire le persone, di fare gruppo. Tanto che nel 1998 venne addirittura nominato capitano della squadra.

credits to: forums.nba-live.com via Google

Alla scadenza del suo contratto con i Celtics, nel 2000 la carriera di Pervis Ellison era ormai al capolinea, ma lui decise di regalarsi un ultimo giro di giostra, firmando un contratto con i Seattle SuperSonics, che all’epoca non erano neppure più una contender. Furono 9 apparizioni tristi, a 4.4 minuti di media, facendo segnare cifre terribilmente scarse (0.7 pts e 1.3 rbd). Poi ci fu solo il ritiro. Chiuse con medie tutto sommato rispettabili (9.5 pts, 6.7 rbd e 1.6 blk), ma soprattutto con un sapore amaro in bocca: quello della consapevolezza. Consapevolezza di esserci andato vicino, di aver sfiorato il sogno e di non essere riuscito ad afferrarlo solo e soltanto per sfortuna.

Pervis Ellison non ha mai disconosciuto il basket. Non si è allontanato, come hanno fatto LaRue Martin, Sam Bowie e Chris Washburn. Ha continuato a nutrire sempre e comunque lo stesso amore nei confronti del Gioco che tanti dolori, ma anche qualche grossa gioia, gli ha consegnato durante la sua vita. Lo ha insegnato a sua figlia Aja e a suo figlio Malik, e continua a insegnarlo tutti i giorni ai giovani della Life Center Academy di Voohrees, in New Jersey, dove è coach fin dal 2011. La sua storia si legge con un sorriso mesto e la sensazione, che pervade la mente come un prurito fastidioso, che quegli infortuni ci abbiano davvero privato di qualcosa di molto, molto bello.

Pervis Ellison circondato dai suoi giocatori, credits to: nj.com via Google

Si chiude qui la storia di Pervis Ellison e con essa il canto in onore degli sconfitti. Degli sconfitti dal Destino, dei bersagliati dal Caso, di coloro che, a tutti i livelli, si sono visti sbarrare il cammino verso i propri sogni da una lastra, una risonanza magnetica, fredde e inclementi espressioni dei propri limiti fisici. Di coloro che, nonostante tutto, hanno il cuore ancora lì, come Pervis Ellison, eroe mancato, vittima del Fato.

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Pubblicato da
Simone Simeoni

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