Le più grandi squadre a non aver mai vinto l’anello-Sacramento Kings (1999-2006)

Se le tue possibilità di vittoria di un anello NBA dipendessero da un tiro da tre, non contestato, del tuo migliore specialista in materia, come non si potrebbe essere fiduciosi sull’allestimento della parata celebrativa per le vie della città? Questo ritornello, nella capitale della California, se lo sono sentiti direi giusto quel migliaio di volte nell’ultimo decennio. Perché avere in dote-dalla fortuna e dalla difesa avversaria-un’occasione ghiotta del genere non sempre è capitato alle altre protagoniste della nostra rubrica sulle formazioni belle ma sfortunate. Il caso in questione, legato indissolubilmente a tale episodio, ci farà rivivere l’epopea dei grandi Sacramento Kings di inizio millennio.

I Protagonisti

Squadra che non vince non si cambia, soprattutto se ci si avvicina sempre di più all’obbiettivo grosso e il nucleo di giocatori cresce assieme, stagione dopo stagione. Da un punto di vista meramente statistico, il numero 1 dei Kings in quegli anni fu Chris Webber. Il prodotto di Michigan nella California del Nord fece esplodere in maniera fragorosa tutto il proprio immenso talento, facendo strabuzzare gli occhi degli addetti ai lavori per la completezza, il genio ed il tocco fatato, non sempre attributi riconoscibili ad una power forward. Per il numero 4, tuttavia, il lato oscuro della Luna, come sarebbe emerso purtroppo in quelle cavalcate, era costituito da un’incapacità, divenuta poi cronica, nel prendersi le responsabilità quando la palla scottava nei Playoffs. Alla posizione di playmaker, Sacramento vide alternarsi due giocatori che rappresentavano, probabilmente, l’antitesi nella concezione del ruolo: Jason Williams, l’immortale White Chocolate, istrionico, esuberante, passatore dagli istinti supremi, e Mike Bibby, meno spettacolare ma più solido, concreto ed affidabile dal punto di vista realizzativo. I Kings furono una delle prime squadre ad avvalersi, inoltre, di una Legione Straniera non perimetrale alle sorti della franchigia, ma anzi decisiva per l’accumularsi delle vittorie: oltre ad un giovanissimo Hedo Turkoglu, come non dimenticare le gesta in maglia bianco-viola di Peja Stojakovic, protagonista suo malgrado di alterne fortune, e del padre putativo della formazione, Vlade Divac?

Allenatori

In questo caso si dovrebbe parlare al singolare. Già perché, per tutto il periodo in questione, a condurre Sacramento fu uno ed uno solo coach, Rick Adelman. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta aveva guidato i Portland Trail Blazers a due Finali NBA, rispettivamente perse contro i Pistons Bad Boys ed i Chicago Bulls di MJ. Dopo non esser riuscito a replicare quanto fatto in Oregon ai Golden State Warriors, fu ingaggiato dai Kings, dove ebbe il merito di dare maggiore spazio alle intuizioni di un assistente, che già era presente in seno alla franchigia. Fu da questo connubio con la Princeton Offense di Pete Carril che ebbero inizio le fortune dei Sacramento Kings.

La Genesi

Arrivati da Kansas City nel 1985, i Kings erano rapidamente diventati uno degli zimbelli della Lega. In 15 anni, infatti, si qualificarono alla postseason in due sole occasioni (’86 e ’96), ovviamente senza mai superare lo scoglio del Primo Turno; nel mezzo, sempre e solo tante delusioni, anche a dispetto della presenza di un All-Star di livello come Mitch Richmond. L’anno di svolta fu il 1998, proprio quando la NBA veniva scossa dal famigerato lockout. In quella offseason, la dirigenza, capitanata da Geoff Petrie, mise a segno dei colpi da maestro, che avrebbero cambiato le sorti della franchigia. Dopo aver assunto Adelman, si concentrarono sul parco-giocatori. Dal Draft selezionarono con la settima scelta assoluta Williams, al contempo facendo arrivare Stojakovic dalla Grecia, dove aveva giocato sin dalla sua chiamata al Draft’96. Dai free agent venne firmato Divac, reduce da un’esperienza a Charlotte, ma il colpo da maestro arrivò con la trade che portò in dote un riluttante Webber, che all’inizio non fu molto entusiasta della nuova destinazione. Quasi dal nulla, il nucleo della squadra era stato formato. Tra lo scetticismo generale, Sacramento mostrò subito le immense qualità del proprio roster, giocando un basket spettacolare che faceva proseliti. Con un grande sprint, ed un Webber vincitore della classifica dei rimbalzi, riuscirono a qualificarsi ai Playoffs, dove affrontarono al Primo Turno gli Utah Jazz, reduci da due Finali NBA e forti di Stockton e Malone. I giovani Kings diedero tantissimo filo da torcere ai ben più esperti e quotati avversari. Li portarono sino alla “bella”, in gara-5, prima di soccombere nell’overtime, dietro all’inesperienza che si manifestò sotto forma di banali palle perse. Certo, col senno di poi i segnali di un fosco futuro erano già là da vedere (elimination game perso e Webber avulso dai giochi nel supplementare), ma era diventato chiaro che si stava profilando all’orizzonte una nuova contender nella Western Conference.

Nascita della rivalità

Nella stagione 1999-2000, il gruppo continuò ulteriormente a migliorare. Webber era ormai diventato un All-Star di nome e di fatto, mentre White Chocolate faceva impazzire i tifosi da una costa all’altra d’America. Arrivarono 44 vittorie in stagione regolare, roba che non si vedeva in casa Kings da quasi 20 anni. Al Primo Turno dei Playoffs l’accoppiamento era alquanto ostico (ed agnostico): i Los Angeles Lakers di Shaq&Kobe. Nessuno poteva sospettarlo, ma stava per nascere una delle più accese rivalità del millennio. I giallo-viola erano i favoriti d’obbligo, dopo una regular season condotta in alta quota. Sacramento, da par suo, voleva rendere cara la pelle, come 12 mesi prima. A complicare ulteriormente l’assunto, il solito perfido Phil Jackson. Coach Zen, in un video motivazionale durante la serie, fece mettere una foto di Adelman accanto ad una di Hitler; questo, unito ai commenti sempre poco lusinghieri sulla città di Sacramento, fece inasprire gli animi al punto giusto. Pronti via e Shaq ne mise subito 46, subito bissato dal trentello di KB8 nella partita successiva, per un 2-0 secco. Serie finita? Non per i Kings. Con C-Webb ad un passo dalla tripla doppia rimontarono nell’ultimo quarto di gara-3, evitando l’eliminazione, poi pareggiarono i conti nell’incontro successivo sempre con la loro ala grande a far registrare statistiche imbarazzanti per completezza. La decisiva gara-5 non fu però altrettanto combattuta, in quanto i Lakers fecero corsa di testa ed umiliarono i propri avversari, cucendo sulla loro pelle quasi 30 punti di vantaggio. Presto si sarebbero incontrate di nuovo.

Prima della regular season 2000-01 il management fece ulteriori ritocchi al roster. Al Draft venne selezionato Turkoglu, dai free agent arrivò l’utilissimo mastino Bobby Jackson mentre la ciliegina sulla torta arrivò dallo scambio con i Toronto Raptors. In Canada venne mandato il fedelissimo Corliss Williamson, in cambio della guardia, con spiccate doti difensive, Doug Christie, una mossa che spalancò a Stojakovic le porte del quintetto. I Sacramento Kings decollarono. Peja si attestò sui 20 punti ad incontro, finendo secondo nella votazione per il Giocatore più Migliorato, e solo perché ad Orlando era esploso un fenomeno di nome T-Mac. Webber fece di più, disputando un’annata da MVP, terminata con medie di 27 punti ed 11 rimbalzi e sublimate da una prestazione da 51+26 contro Indiana. Nel bel mezzo di una stagione da 55 vittorie, tutta la Lega era rimasta incantata dal gioco offensivo dei Kings, una vera macchina perfetta e dai meccanismi collaudatissimi. Sports Illustrated, in Febbraio, uscì con la famosa copertina dedicata al quintetto di Sacramento, con l’azzeccatissimo titolo The Greatest show on Court, il più grande spettacolo sul parquet, tale era l’armonia e la bellezza di quella Princeton Offense e dei suoi interpreti. I Kings vinsero la loro prima serie di postseason dal 1981, superando di slancio i Phoenix Suns. Nella Semifinale dell’Ovest, ecco l’atteso rematch contro gli ormai odiati Lakers. Le speranze di una fiduciosa Sacramento vennero presto infrante da una Los Angeles in missione. O’Neal ne segnò 44 in gara-1 e 43 nella successiva, entrambe vinte, anche se di poco. Nella California del Nord il testimone poi passò a Bryant: 36 nella terza partita e, soprattutto, 48 nella quarta, vinta di nervi dalla lunetta nel finale. Il più grande spettacolo era finito, seppellito da uno sweep con poche possibilità di replica. In cuor loro, però, i Kings non vedevano l’ora di potersi finalmente vendicare.

La Grande Occasione

Peja aveva sognato sin da bambino un momento del genere. Partita decisiva della stagione NBA, punteggio in bilico, il tiro finale che spetta a lui. Sino a quel momento, tra regular season e Playoffs, aveva visto infilarsi nel canestro 461 triple. Ne avrebbe insaccate altre 1461 nel prosieguo della sua avventura NBA. La più importante, della sua carriera e della storia della franchigia, se la prese a 13 secondi dal termine di gara-7 delle Western Conference Finals 2002, con i suoi sotto di un punto. Senza difensori nei paraggi, si elevò dall’angolo mentre il respiro di tutti gli astanti dell’Arco Arena si fermava per interminabili secondi.

La stagione 2001-02 era nata sotto il segno della rivalsa. Ancora una volta Petrie intervenne in maniera eccellente sul roster, a rischio anche di decisioni impopolari. Williams era il beniamino dei fan, con lui la squadra era finalmente risalita dalle ceneri degli anni Novanta. Eppure, più il gioco si faceva duro, meno garanzie dava l’estroso playmaker, col risultato che a terminare le partite di postseason era, spesso e volentieri, Bobby Jackson. Per questo motivo, in quell’estate, il front-office premette il grilletto, mandando Jason a Vancouver in cambio del solido e concreto Mike Bibby. Webber, inoltre, mise a tacere ogni speculazione su possibili cambi di maglia firmando un nuovo contratto con i Californiani. I Kings, se possibile, migliorarono ulteriormente. Lo spettacolo era sempre di altissimo livello, in una squadra che funzionava come un orologio svizzero e che in casa era accompagnata da un boato assordante ed indimenticabile. Le partite vinte in regular season furono 61, ma il banco di prova era costituito dagli imminenti Playoffs. Al Primo Turno, con qualche patema di troppo, eliminarono i soliti Utah Jazz; nel turno successivo, invece, spettacolo offensivo contro i Dallas Mavericks di coach Nelson, eliminati 4-1 nella serie che rivelò al mondo quanto Bibby fosse forte. Proprio contro i Texani, per gli eroismi nel finale (facilitati anche da una connivente difesa avversaria), il play da Arizona chiarì a tutti chi fosse il leader designato nei finali infuocati, una cosa che era mancata nelle stagioni precedenti. Sul cammino verso la gloria si parava innanzi la vecchia nemesi, dal nome di Los Angeles Lakers, anche se questa volta da affrontare col vantaggio del fattore campo. In gara-1, però, il medesimo copione: giallo-viola corsari e Sacramento a ripiombare nei vecchi dubbi. Questa volta, però, i Kings volevano dimostrare di che pasta fossero fatti. Vinsero la seconda partita, sbancarono lo Staples in gara-3, infliggendo una dura lezione ai Lakers, e si presentarono in vantaggio di oltre 20 lunghezze nel primo tempo del quarto incontro. Tutto era pronto per il passaggio di consegne, per la vittoria finalmente giunta alle spese degli odiati rivali. Il copione, però, era stato scritto dagli sceneggiatori di Hollywood. I Lakers misero in piede una furiosa rimonta in gara-4. Sacramento condusse per 47 minuti e 59 secondi. Nel basket, però, conta chi lo è alla fine dei 48 regolamentari. In un’azione confusissima, di stile rugbistico più che cestistico, la sfera capitò nella mani sapienti di Robert Horry, coi suoi sotto di due. Ricezione, caricamento, tiro scoccato, sirena che suona: il 2-2 era cosa fatta. Sacramento era però dura a morire. In una serie ormai divenuta leggenda, in gara-5 Mike Bibby segnò il canestro della vittoria, mandando i suoi ad una sola vittoria dalle NBA Finals. Fu il punto più alto, probabilmente, della storia dei Kings.

Los Angeles pareggiò i conti in una contestatissima gara-6, in cui Sacramento, sentendo forse anche un po’ di nervosismo dovuto al momento, se la prese con l’arbitraggio, non sempre esente da colpe, a dire il vero. Si arrivò dunque alla fatidica gara-7, al redde rationem, alla resa dei conti definitiva. Sacramento sbagliò ben 14 tiri liberi quella sera, non proprio il massimo in una partita andata al supplementare.

I Lakers erano avanti di uno, ma la rotazione difensiva era stata imperfetta. Stojakovic aveva saltato alcune partite della serie, causa infortunio e la caviglia non era sicuramente in perfette condizioni fisiche. Tuttavia, quel tiro sospinto da tutto il palazzetto, non poteva avere un migliore scenario possibile, soprattutto nelle mani di uno che aveva anche vinto la gara delle triple all’All-Star Game, bissando poi nel 2003. Lo sbagliò. I giallo-viola, nonostante un Bibby eroico da far venire le lacrime, presero il sopravvento nell’extra-time, favoriti da un altro errore di un tiratore di Sacramento piedi per terra e non contestato, questa volta di Christie. A prendersi il titolo, in Finale contro i New Jersey Nets, sarebbe andata LA. I Kings, invece, non sarebbero mai stati più così vicini all’agognato anello.

La maledizione del 7

Sette, maledetto sette. L’annata successiva alle Finali di Conference si aprì come era terminata. Shaq a coniare il neologismo Sacramento Queens ed a prendere in giro tutti i giocatori avversari, Bibby escluso. In preseason, poi, ecco la scazzottata, inevitabile ormai, tra Christie e Fox, proseguita anche negli spogliatoi.

La regular season fu abbastanza tranquilla, al netto anche degli infortuni di Bibby prima e Bobby Jackson poi. L’equilibrio raggiunto tra attacco e difesa, un tempo il punto debole ma ormai tra le migliori della Lega, era da far invidia. Nei Playoffs i Kings si sbarazzarono subito di Utah, prima di concedere il bis ai Dallas Mavericks nelle Semifinali dell’Ovest. Vinsero agilmente in Texas all’esordio, poi, in gara-2, il tremendo crac. Webber aveva segnato in quell’incontro 31 punti in 29 minuti, ed anche se la partita sembrava ormai in mano a Dallas, c’erano grandi speranze che il numero 4 continuasse il proprio trend di ritorno in California. Non sarebbe avvenuto. Il suo ginocchio si infortunò gravemente. Sostanzialmente da allora non sarebbe mai più stato lo stesso.

Senza il proprio leader, e con un Bibby leggermente sottotono, Sacramento diede lo stesso battaglia, in una delle serie dai punteggi più spettacolari di sempre. Tutto venne rimandato alla decisiva gara-7. Questa volta non ci furono momenti drammatici come l’anno precedente, ma lo stesso esito: Kings sconfitti e rispediti a casa.

L’annata 2003-04 aveva un sapore da clima da fine Impero Romano. Era arrivato Brad Miller da Indiana, subito calatosi alla perfezione nella Princeton Offense e capace di sfornare prestazioni inaspettate da tripla doppia. In contumacia Webber, Stojakovic giocò a livelli da MVP per tutta la stagione, ma il ritorno del numero 4 provocò qualche malumore e l’inizio di problemi di convivenza, inaspettati fino a poco tempo prima. Le vittorie in regular season furono comunque tante, 55, ma una nuova beffa si profilava all’orizzonte. Al Primo Turno Sacramento si prese la rivincita sui Mavs, battuti 4-1 e con due importanti difese di Peja, non proprio le specialità della casa, per vincere gara-4 e gara-5. Al giorno d’oggi, si tratta dell’ultima serie di Playoffs vinta dai Sacramento Kings. Al Turno successivo si presentò un nuovo avversario, i Minnesota Timberwolves dell’MVP Kevin Garnett. Questa volta era la franchigia Californiana quella con più esperienza e, a dispetto dello svantaggio del fattore campo e di un Webber lontanissimo dai giorni migliori, le speranze di arrivare alle Finali di Conference erano tutt’altro che peregrine. Conferme su conferme in gara-1, col Targer Center espugnato e bis sfiorato nella sfida successiva, con Christie a sbagliare la tripla del pareggio a dieci secondi dal termine. All’Arco Arena, nel terzo incontro, i Kings rimontarono furiosamente nell’ultimo quarto, trovando il supplementare con una bomba di Stojakovic. Catarsi completata? Non proprio. Nell’overtime il serbo sbagliò due triple cruciali (sull’ultima vibranti proteste per un presunto fallo subito), dando la vittoria ai T-Wolves. La serie arrivò, per l’ennesima volta per Sacramento, a gara-7. Garnett giocò una partita totale, da vero dominatore, ma i Kings nel secondo tempo rimontarono, portando la contesa all’ennesimo finale frenetico. Christie (ancora lui!) sbagliò la tripla del pareggio ma il rimbalzo finì nelle mani di Brad Miller sotto il ferro. KG avrebbe potuto benissimo concedere il canestro da due ma i suoi enormi istinti, erroneamente questa volta, lo condussero a stoppare il tiro dell’avversario, con la palla a finire fuori ed a dare un’altra opportunità ai Sacramento Kings. La bomba per provare a forzare il supplementare finì nelle mani di Webber, a due secondi dal termine. Il più beffardi degli in&out, con la sfera sputata dal ferro, sanciva l’ennesima eliminazione in un’elimination game per i Californiani. Niente sarebbe più stato lo stesso da quel momento in poi.

Epilogo

L’epurazione di quel magnifico gruppo iniziò quasi conseguentemente all’uscita contro Minnesota. In estate Divac, proprio lui che aveva contribuito a plasmare quel gruppo, con i giocatori che addirittura usavano frasi di lingua slava durante le partite, firmò con gli odiati Lakers. Turkoglu aveva già salutato un anno prima, destinazione San Antonio, essenzialmente per questioni salariali. Nel corso della stagione 2004-05, poi, arrivarono due scambi molto fragorosi. Dapprima Christie venne spedito agli Orlando Magic, in cambio di Cuttino Mobley, che diede comunque il suo contributo in quell’annata. Poi, a Febbraio, ecco la clamorosa trade: Webber, la stella del Greatest Show on Court, venne ceduto ai Philadelphia 76ers. Il passo dei tempi era stato segnato. La squadra uscì al Primo Turno, in sole cinque partite, contro i Seattle Sonics. Il repulisti venne completato nel Gennaio 2006, quando anche Stojakovic fu coinvolto in una trade che lo portò agli Indiana Pacers, in cambio di Ron Artest.

Il futuro Metta World Peace disputò un ottimo scampolo di annata, comportandosi in maniera esemplare e guidando i suoi ad un buonissimo Primo Turno contro i San Antonio Spurs nel 2006, perdendo per 4-2 ma in maniera meno netta di quello che si potrebbe pensare. Ad oggi, rimane l’ultima volta in cui i Sacramento Kings hanno disputato i Playoffs, un digiuno ormai lungo un decennio. Al termine di quell’annata toccò a coach Adelman salutare, dopo un periodo davvero irripetibile. E con la squadra che iniziò a sprofondare verso i bassifondi dell’Ovest, l’ultimo a rimanere a combattere fu Bibby, prima della sua cessione, nel Febbraio del 2008, agli Atlanta Hawks. Le macerie della ricostruzione sono ancora visibili nella California del Nord. I tifosi, sempre rumorosi, dell’Arco Arena aspettano ancora, da troppo tempo, una rinascita della franchigia, oggi appoggiata sulle spalle di DeMarcus Cousins. Ed il pensiero corre ancora a quella squadra bella, bellissima, che non riuscì a compiere l’ultimo passo, quello decisivo. Ed a quel maledetto tiro di Stojakovic…

Alessandro Scuto

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Alessandro Scuto

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