The importance of being Kawhi

Quando Oscar Wilde, al tramonto del XIX secolo, scrisse la commedia teatrale “The Importance of Being Earnest” il suo scopo primario era quello di iperbolizzare l’eccessiva cura per le apparenze che dominava l’età vittoriana. In qualche modo lo scrittore voleva associare un nome ad un significato nemmeno troppo latente per mandare un messaggio forte al suo pubblico. Ancora oggi parecchi nomi propri hanno un significato, ovvero i genitori scelgono un determinato nome da dare alla loro progenie perché quel nome ha valore per loro. La signora Kim Robertson, quando parla di suo figlio, evidenzia il fatto che sulla scelta del nome suo marito, tale Mark Leonard, non è sceso a compromessi. La donna racconta che il bimbo si chiama Kawhi perché era il nome di un principe africano e il signor Mark attribuiva a questo nome una forza intrinseca introvabile tra i vari appellativi americani.

Tralasciando il lascito sempiterno il padre era un uomo buono, ma lavorava in un autolavaggio a Compton ovvero a un’ora di distanza da dove il bambino ha cominciato a muovere i primi passi (Riverside, California). Quando Mark tornava a casa la sera si metteva con il figlio a tirare a canestro, a giocare a football; ma la prima cosa che gli insegna è l’etica del lavoro, qualunque esso sia. Infatti qualche volta il piccolo Kawhi aiuta il padre nell’autolavaggio e Mark non lo fa smettere finché la macchina di cui si sta occupando non splende sotto il sole californiano. Per chi non lo avesse ancora capito il nome completo del bambino è Kawhi Anthony Leonard.

Per quanto riguarda lo sport il ragazzo si distingue, oltre per l’altezza un po’ sopra gli standard, per due cose: l’ampiezza delle mani e l’apertura alare. Il che possono farne o un ottimo ricevitore a football o un ottimo centro a basket. Negli Stati Uniti i ragazzi con il corpo simile a quello di Leonard si tende a farli giocare a football. Se superano il metro e novantacinque e con la palla a spicchi se la cavano, allora diventano buoni per il basket. È esattamente quello che succede a Kawhi: gioca a football da safety, perché evidentemente l’attitudine difensiva è intrinseca nel suo DNA, quando lo vede il coach del basket non ci pensa nemmeno un secondo e lo mette sul parquet. Frequenta la Canyon Springs High School ma dopo due anni si accorge che può ambire ad un livello più alto e si trasferisce alla Riverside Martin Luther King High School, il liceo migliore da quelle parti per quanto concerne il programma cestistico. Ha un fisico per il quale molti modelli pagherebbero bei soldi, inoltre ha queste braccia che, abbinate ad un intuito fuori dal comune, gli permettono di compiere delle letture difensive inaccessibili ai suoi coetanei. La sua carriera è in rampa di lancio ma rischia seriamente di fermarsi a sedici anni per motivi che con il parquet hanno ben poco a che fare. Un pomeriggio una delle quattro sorelle di Kawhi chiama la madre in lacrime. Le sta per dire che il suo ex marito è morto (avevano divorziato da una decina di anni). Riverside non è un bel posto, ma niente in confronto a Compton. Il tasso di criminalità è elevatissimo e Mark è stato freddato da una scarica di colpi durante una comune giornata di lavoro. I colpevoli non verranno mai identificati, il movente non verrà mai scoperto. È il 19 Gennaio 2008 e quando Kawhi lo scopre gli manca il respiro. La persona che lo ha cresciuto, con cui ha condiviso sogni, passioni e progetti se n’è andato a 43 anni. Kawhi è l’unico uomo rimasto in casa ma reagisce malissimo, se prima era un ragazzo di poche parole adesso utilizza la bocca quasi esclusivamente per mangiare. Vorrebbe urlare al mondo tutta la sua rabbia e la sua sofferenza ma il padre non gli ha insegnato questo, gli ha insegnato a controllarsi, a dedicarsi al proprio lavoro e ad incanalare le emozioni in qualcosa di produttivo. Chris Paul dopo la morte del nonno, durante la partita successiva, segnò 61 punti (l’età del nonno al momento della sua morte) prima di scoppiare in lacrime, Leonard ne mette 17 e in lacrime ci scoppia comunque. È Los Angeles, ci sono morti ogni giorno, la vita va avanti, deve andare avanti. Quella di Kahwi è ancora tutta da scrivere e al suo anno da Senior viene eletto California Mr. Basketball. Tony Snell, al tempo suo compagno di squadra, quando parla di Kawhi usa una parola che al sottoscritto piace moltissimo: “mindset” che in italiano sarebbe “mentalità”. È la mentalità che ti fa andare avanti in questi casi, è una forza che proviene dalla mente e dal cuore che ti spinge ad essere migliore, a continuare sulla tua strada senza paure, è la mentalità che lo porta ad essere un giocatore che in allenamento lavora tantissimo su quello che gli riesce peggio e ancora di più su quello che gli riesce meglio. L’etica del lavoro che gli ha insegnato Mark è il lascito più grande.

Quando bisogna scegliere il college il pendolo cade su San Diego State. In California ci sono una moltitudine di atenei con un programma di basket anni luce migliore di quello degli Aztecs, ma San Diego è la prima a muoversi e inoltre ad allenare la squadra c’è Steve Fisher. È un santone del college basketball, ha vinto un titolo con Michigan dei Fab Five (per chi ha più memoria) e ha visto nel ragazzo di Riverside delle caratteristiche che non vedeva da tanto tempo. Al primo incontro tra i due il coach gli dice: “Tu per me giochi ala piccola”. L’altro annuisce. Fisher, che di cose ne ha viste, rimane un po’ interdetto. Kawhi per buona parte della sua carriera liceale ha giocato o a football o da pivot, adesso una persona che non ha mai visto gli dice che giocherà in un altro ruolo e lui invece di chiedere spiegazioni annuisce e va via. È fatto così, non spreca fiato se non è strettamente necessario, è contento di poter giocare a livello di Division I e se questo richiede lavorare per immedesimarsi in un nuovo ruolo poco male. Coach Fisher una volta a settimana viene svegliato dai suoi assistenti che con le borse sotto gli occhi, alle sette del mattino cominciavano la tiritera. “Coach c’è un problema con Kawhi.”-“Strano, Kawhi non dà mai problemi”“Si è portato due lampade da casa e sono due ore che lavora sui suoi fondamentali offensivi, sarebbe ora di mandarlo a lezione”. No, a lezione il ragazzo non raccoglie risultati di livello, al contrario in campo è una forza della natura. Il primo anno mette insieme 12.7 punti e 9.9 rimbalzi a partita, cifre che aiutano la squadra a vincere il titolo della Mountain West Conference. Il secondo anno la squadra bissa il successo e Kawhi diventa il leader indiscusso, almeno da un punto di vista tecnico. 15.5 punti 10.6 rimbalzi e 2.5 assist con la sola pecca di percentuali dal campo un po’ bassine, specialmente da oltre l’arco dei tre punti. Al torneo NCAA trascina la squadra alle Sweet Sixteen per la prima volta nella storia dell’ateneo, dove esce sconfitto per mano di Kemba Walker e la sua UConn che vincerà il titolo. Parlavamo di leadership, beh dipende come la intendete. Se per voi un leader è un uomo che guida la sua squadra con le azioni e la sprona a fare meglio semplicemente giocando ogni possesso al 300% allora Kawhi è un leader nato. Se invece il leader deve avere caratteristiche di motivatore, di trash talking, e deve sprizzare carisma da tutti i pori allora onestamente meglio guardare altrove. Esiste tuttavia una franchigia NBA che sposa totalmente il primo tipo di leadership, una franchigia che guarda caso ha messo gli occhi proprio sul prodotto di San Diego State. Ovviamente stiamo parlando dei San Antonio Spurs ed ovviamente quando ci sono di mezzo loro ci possiamo aspettare di tutto. La franchigia del Texas viene da una stagione con il miglior record NBA e l’uscita al primo turno dei play-off, il che vuol dire solo una cosa: serve un ricambio generazionale. Sulla poltrona di General Manager siede un certo RC Buford, il quale ha lavorato come assistant per diverse università prima di ricevere la chiamata da sua eminenza Larry Brown. Lavora prima agli Spurs e poi ai Clippers sempre alle dipendenze di coach Brown prima di tornare al college alla University of Florida. Quando Popovich si siede sulla panchina dei texani lo richiama ma non nel coaching staff, lo vuole nel reparto degli scout. Dopo una lunga trafila Buford diventa GM nel 2003 e ancora oggi riveste quel ruolo.

Prima del draft 2011 San Antonio possiede soltanto la chiamata numero 28 ma Popovich ha ben altri piani. Si accorge di avere un quintetto troppo piccolo e poco atletico/fisico per la direzione in cui sta andando l’NBA così, quando Buford gli mette di fronte i possibili scenari per arrivare a un esterno forte fisicamente e con grande attitudine difensiva, l’ex agente della CIA non ha dubbi. Vuole a tutti i costi Leonard anche se per averlo deve sacrificare un suo uomo. Il giocatore in questione è George Hill, ragazzo dalle indubbie qualità offensive in grado di giocare sia da 1 che da 2 ma fisicamente messo maluccio. Popovich ha qualche remora a privarsi di Hill così interviene Mike Budenholzer, attuale head coach degli Hawks, al tempo assistente di “Pop”. Budenholzer nota come il ragazzo abbia una mentalità e un etica del lavoro che lo portano a migliorarsi costantemente e quale posto migliore per migliorarsi in NBA se non San Antonio? La notte del draft Buford scambia George Hill con gli Indiana Pacers in cambio dei diritti per Lorbek, quelli per Bertans e la scelta numero 15, utilizzata per chiamare Kawhi Leonard. Un giorno tutti i General Manager del mondo capiranno certe cose e cominceranno a visitare i laboratori di “spursello” (Tranquillo dixit) per portare il loro mestiere al livello successivo. È vero, di giocatori presi con scelte relativamente alte rivelatesi dei campioni ce ne sono, ma onestamente trovare una franchigia che tolti Duncan e Aldrige attualmente a roster ha soltanto giocatori presi con chiamate oltre la decima mi risulta un po’ difficile. Parker alla 28, Ginobili alla 57, Green alla 46, Mills alla 55, Kawhi alla 15 e non vorrei che l’abbiano rifatto con Marjanovic addirittura undrafted e Milutinov alla 26 che ancora non ha fatto il suo esordio in NBA. C’è qualcosa in quel sistema che si può definire esclusivamente con il termine “Spurs culture”. È veramente una cultura, un modo di vivere quello che rende questa franchigia protagonista della scena da più di quindici anni. E adesso che hanno scelto Leonard non resta che inserirlo in questa cultura.

Poco tempo fa alcuni giocatori degli Spurs sono stati interrogati sul carattere di Leonard fuori dal campo. Aldrige ha risposto: “E come diavolo dovrei fare a saperlo?”. West se la cava con un: “in campo e fuori è un lavoratore introverso”. Popovich, onestamente non il più chiacchierone della banda, ogni volta che dà una direttiva al nativo di Riverside si vede rispondere con un cenno del capo. È nato per essere uno Spurs. Il primo giorno di allenamento un assistente si avvicina a Kawhi e gli fa vedere tre foto: un suo tiro, un tiro di Richard Jefferson e un tiro di Kobe Bryant, semplicemente per fargli capire che doveva cambiare il modo di tirare. Solita storia, annuisce e da quel momento non passa un giorno senza che si alleni sul suo tiro. Il primo anno è già stabilmente nelle rotazioni, viene eletto nell’All Rookie first team, e si guadagna la fiducia dei poteri forti a San Antonio (leggasi Duncan). Il secondo anno coincide con la stagione 2012-2013, è storia recente ed è qui che gira buona parte della nostra storia. Gli Spurs in regular season giocano la loro pallacanestro fatta di fondamentali e di spirito di gruppo, pochissimi giocatori giocano più di 30 minuti a partita, uno di questi è Kawhi. I texani ai playoffs scherzano con i Lakers, faticano con la prima versione degli splash brothers, e passeggiano contro i Grizzlies con un Parker leggendario. Ad attenderli in finale ci sarebbero i campioni uscenti, quei Miami Heat guidati da Lebron e lanciatissimi verso il back-to-back. All’American Airlines Arena è già spettacolo con Parker che mette il canestro della vittoria lasciando andare il pallone a 23.9 secondi sui 24 a disposizione, dopo un azione folle conclusa con un palleggio arresto tiro su James. Gli Heat si prendono la rivincita in gara 2 e si riappropriano del fattore campo in gara 4 con Lebron e Wade che ne mettono 65 in due. Con gli Spurs avanti 3-2 arriva la famigerata gara 6, ancora impressa nella memoria degli appassionati e indelebile nella mente di Walter Ray Allen. Tuttavia prima di quel tiro miracoloso, impossibile da eseguire per chiunque su questo pianeta salvo per Allen, gli Spurs avevano la possibilità di rendere vano lo Swarovski di “Jesus Shuttlesworth”. Sul 94-92 per i texani Leonard viene mandato in lunetta. Fino quel momento aveva segnato 17 punti, ma stiamo parlando di un ragazzo che doveva ancora compiere 22 anni, alla prima apparizione alle Finals per di più in quintetto base. E adesso tutta Miami lo sta fischiando. Gli occhi sono sul premio ma il ferro risputa il primo libero. Il secondo è a bersaglio ma quello che succede dopo è noto a tutti. In gara 7 è palese che la mano del destino stia spingendo James al suo secondo titolo. Duncan nel finale sbaglia un tiro che di solito mette nel sonno e sfoga la sua rabbia contro il parquet, Battier vede una vasca da bagno al posto del canestro, James è artefice di una serata da 37+12, indifendibile anche per Leonard. Lo stesso Leonard segna una tripla che dà speranza agli Spurs e qualche secondo dopo manda sul ferro un altro tentativo da tre punti che poteva essere il sorpasso. Il titolo va agli Heat ma questi momenti rimangono nella memoria muscolare di chi li vive, pronti a risorgere se la mentalità è quella giusta.

Leonard continua inesorabilmente a migliorare il suo gioco; ormai è uno dei primi 5 difensori della lega e le sue percentuali in attacco continuano a lievitare. Gli Spurs chiudono la stagione 2013/14 con il miglior record della lega, Popovich è il Coach of the Year e ai playoffs ci arrivano con i favori del pronostico. Nel primo turno i Dallas Mavericks fanno impazzire gli speroni, prendendo il comando delle operazione in gara 3 grazie a una tripla irreale di Vince Carter. San Antonio ha la meglio in sette partite grazie al maggior tasso tecnico e grazie ai soliti Parker e Duncan di cui onestamente non vi sto nemmeno a parlare, troppa la grandezza. Portland è soltanto una formalità ma in finale di conference ci sono i Thunder di Westbrook e KD. La serie è bellissima e gara 6 è il riassunto meglio riuscito di una sfida che sarebbe dovuta finire in parità. Sarebbe, ma per fortuna nel basket c’è un vincitore e c’è un perdente. Finale di gara agonico con una serie di sorpassi e controsorpassi che neanche Rossi e Lorenzo a Barcellona, overtime compreso. Con San Antonio avanti di 1 Ginobili attacca il ferro ma Ibaka gli pianta una stoppata che apre il contropiede di OKC. Reggie Jackson in campo aperto serve Westbrook per il lay-up ma Kawhi legge meravigliosamente la situazione e strappa la palla da sopra la testa del numero 0. Dall’altra parte Duncan sigilla la vittoria e si torna in finale. Questa ve la ricordate bene o male tutti, Leonard gioca un basket celestiale, lo stesso Lebron si deve arrendere allo strapotere fisico e tecnico del californiano. Le prime due partite sono equilibrate, le franchigie si dividono la posta in palio, poi si entra nel magico mondo di Leonard e Diaw e sono tre di fila senza nemmeno sudare troppo. Popovich racconta che dopo gara 2 è andato al ristorante dove stavano cenando Leonard e la madre per dirgli poche cose, ma efficaci: “Stop thinking out there, be aggressive, play your game”. Che in soldoni sarebbe; non mi importa di tutto il resto, gioca la tua partita.

Ci sarebbero un mucchio di storie da raccontare intrinseche al fatto che gli Spurs sono ancora una volta campioni NBA ma visto che ci siamo dobbiamo rimanere da lui, dall’MVP delle Finals che, dopo Michael Jordan e Hakeem Olajuwon, sarà il terzo giocatore nella storia a vincere il premio di Defensive Player of the Year (nel 2015) e quello di MVP delle Finals. Kawhi, durante la serie finale, tira con il 61% dal campo, con il 58% da 3 e chiude con 17.8 punti di media consacrandosi come eccellente difensore e affidabilissimo attaccante. Dopo la consegna del premio l’inviato di Espn pone le domande di rito a Leonard, lui risponde come al solito non lasciando trapelare le emozioni che dovrebbero avvolgere un ragazzino appena salito sul tetto del mondo. Ecco che allora forse aveva ragione il padre, quando pensò ad un nome per il figlio e gli venne in mente un principe africano, impassibile, statuario e concentrato sempre e comunque.Se ne accorge anche l’intervistatore che chiude il suo intervento con un “it’s ok just smile now Kawhi!”. E almeno per una volta,sorride.  

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Pubblicato da
Paolo Stradaioli

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