Kevin Durant, the Second One

L’ambizione non è un vizio da gente di poco conto. Michel de Montaigne, filosofo e politico cinquecentesco, per motivi anagrafici non ha mai avuto modo di assistere ad una partita di basket, tuttavia il suo aforisma può a buon diritto rientrare nelle massime della palla a spicchi. Lo straordinario apporto di questa virtù/vizio è riscontrabile analizzando le biografie di ogni campione cestistico che si rispetti, basti pensare al 24 in maglia gialloviola che da vent’anni ormai cerca di emulare le gesta di “His Airness” Jordan, grazie ad un formidabile mix di talento, forza di volontà e, appunto, ambizione.

28 giugno 2007, Madison Square Garden, New York City. 365 giorni dopo la storica prima scelta spesa dai Raptors per accaparrarsi le prestazioni di Andrea Bargnani torna in scena il Draft NBA, appuntamento attesissimo da tifosi ed addetti ai lavori. Prendete nota: Sam Hinkie, geniale quanto criticato teorico del tanking selvaggio, ci insegna che per una franchigia il giorno del Draft è uno di quelli da segnare sul calendario, fondamentale crocevia per le speranze di successo di ogni compagine. Non gli credete? Provate a parlarne con Kevin Pritchard, all’epoca GM dei Portland Trail Blazers, i suoi argomenti saranno di certo più convincenti. Sono passati quasi 9 anni, ma sono certo che nel sentir parlare di Greg Oden prova ancora un brivido lungo la schiena, ultimo retaggio di tante notti trascorse senza chiudere occhio per via di una decisione non esattamente corretta. E’ questa la punizione per chi ha disertato l’appuntamento con la storia, spazzando via le speranze di vittoria chiamate “Larry O’Brien Trophy” della franchigia dell’Oregon: il processo di ricostruzione avviato quest’estate che ha lasciato Damian Lillard da solo sull’isola non è altro che l’atto finale del ciclo iniziato a New York in quella serata di fine giugno.

Nel mondo NBA vige una regola non scritta: a parità di potenziale, scegliere sempre il prospetto più alto: tutto può essere insegnato, ma non certo i centimetri. La dirigenza dei Portland Trail Blazers deve aver seguito questo ragionamento nel momento in cui la sorte pose nelle sue mani l’ambitissima prima scelta del Draft. Scorrendo la lista dei rookie di quell’anno è evidente come la presenza di giocatori di prima fascia del calibro di Horford, Conley, Noah e Marc Gasol (“snobbato” e scelto a metà del secondo giro) non abbia reso facile la scelta per i piani alti della franchigia dell’Oregon, trovatasi particolarmente in difficoltà di fronte a due giovani talenti che avevano fatto parlare di sè a livello collegiale: Greg Oden e Kevin Durant.

“With the first pick in the 2007 NBA Draft the Portland Trail Blazers selected… Greg Oden, from Ohio State University!” Con il senno di poi sarebbe stato un gioco da ragazzi per Pritchard fare la scelta giusta, tuttavia Oden con il suo indiscutibile talento, unito ad un’ invidiabile fisicità (che invece “Durantula” non possedeva), riuscì ad avere la meglio; i Seattle SuperSonics, proprietari della seconda scelta, dovettero “accontentarsi” di Durant. Per il GM Sam Presti fu il primo di tre memorabili Draft, per Oden invece rappresentò l’inizio di una travagliata carriera costellata di infortuni che ne hanno condizionato il rendimento, con solo 105 partite giocate in 8 anni. Iniziarono a circolare voci su una presunta “maledizione di Portland“, rea di aver scelto il deludente LaRue Martin nel lontano 1972 e soprattutto di essersi lasciata sfuggire un giovane Michael Jeffrey Jordan nel Draft del 1984, preferendogli il centro Sam Bowie, etichettato da molti come peggior scelta di sempre. Sembra che ogni regola, anche in NBA, conosca le sue eccezioni. Infatti, come direbbe De Gregori “il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette”.

La nostra storia ha inizio il 29 settembre 1988, a poca distanza dalla Casa Bianca. Englewood, il degradato quartiere di Chicago in cui nascerà di lì a giorni il futuro MVP Derrick Rose è senza dubbio distante anni luce dalla Capitale, tuttavia l’infanzia del piccolo Kevin non è certo delle più semplici: dopo appena 7 mesi il padre abbandona la famiglia e mamma Wanda si ritrova a dover crescere da sola Tony, Rayvonne, Brianna e Kevin. Altra figura fondamentale nella vita del giovane Durant è la nonna Barbara, grazie a lei impara a non arrendersi di fronte alle difficoltà e a credere nel tipico “american dream”, da conquistare con quella dose di ambizione che a Kevin di certo non manca. Da questo momento in poi la sua storia rientra in quel filone epico-sportivo che lo accomuna ad altri grandi del passato: infanzia difficile, sviluppo precoce, primo approccio al basket, talento sconfinato. Pacato ed introverso, ma anche orgoglioso e suscettibile, non è facile per Kevin relazionarsi con i compagni se già dopo pochi anni ci sono parecchi centimetri a frapporsi tra lui e gli altri. E’ il fratello Tony ad indirizzarlo sulla retta via, giocando con lui nel classico playground in stile americano; con il basket è amore a prima vista, infatti fin dall’inizio Kevin intuisce che quella palla a spicchi rappresenta il mezzo per poter ottenere il tanto agognato riscatto. Ben presto però quel campetto di periferia non sarà più sufficiente per il suo incredibile talento e per questo motivo inizia a frequentare il Recreation Center del quartiere, su suggerimento della madre.

Nell’universo dello sport la figura dell’allenatore troppo spesso è vittima di un ingiusto ridimensionamento, soprattutto a livello giovanile. Sebbene la stragrande maggioranza di essi insegua vanamente la vittoria, esiste un’elite di professionisti del settore che ricerca il giusto equilibrio tra doti sportive ed umane, con quest’ultime spesso sottovalutate e che invece rappresentano la condicio sine qua non perchè un giovane di belle speranze diventi una superstar globale. Fortunatamente coach Charles Craig appartiene a questa cerchia ristretta; protettivo nei confronti dei suoi ragazzi, cerca innanzitutto di tenerli lontani dai guai e dai pericoli, per poi coltivarne i fondamentali cestistici. Affidato alle giovani ma sapienti mani di Big Chucky, che col passare del tempo finisce per sopperire alla mancanza della figura paterna, il giovane Kevin matura esponenzialmente, fino all’approdo nell’Amateur Athletic Union in maglia Jaguars. K-Smoove non è il solo all’interno della squadra destinato ad avere un futuro in NBA: nel roster figura anche un giovane Michael Beasley, già all’epoca croce e delizia di allenatori e compagni, che diventerà amico fraterno del nostro Kevin. Sembra proprio che il futuro campione abbia un debole per i ragazzi difficili, vista anche l’amicizia consolidata con il neoplaymaker dei Rockets, Ty Lawson.

Ogni numero di maglia in Nba ha la sua storia. Alcuni rendono omaggio ad un campione del passato, come testimoniano le canotte con il numero 23 stampato sulla schiena, altri preferiscono indossare il proprio numero preferito, e poi c’è chi decide di dedicare il numero da portare sulle spalle ad una persona importante o ad un avvenimento particolare. Il 30 aprile 2005 Big Chucky viene ucciso dopo aver cercato di sedare una rissa: la sua morte rappresenta un’inattesa tragedia per il sedicenne Durant, che da quel momento in poi decide di indossare il numero 35, come gli anni del primo grande mentore.

Dopo svariati licei cambiati ed innumerevoli prestazioni degne di nota, le luci della ribalta si erano finalmente accese per il giovane Durant: i media, locali e non, iniziavano a mostrare interesse nei suoi confronti, così come gli scout dei più prestigiosi college americani. Le porte della NCAA si stavano finalmente aprendo per Kevin, che tra le numerose offerte sul piatto decide di cambiare aria e traferirsi ad Austin: l’University of Texas, dopo un lungo corteggiamento, rappresenta la prossima tappa della sua carriera. Con la canotta dei Longhorns e l’amatissimo 35 sulle spalle illumina il torneo con le sue giocate. Grazie ad una media di 29 punti e 12 rimbalzi ad allacciata di scarpe viene eletto “Player of the Year” della Division I e dopo un solo anno di college si dichiara eleggibile al Draft 2007.

Non dev’essere stata una serata facile per Kevin Durant quella del 28 giugno: essere draftato da quei SuperSonics rappresentava una specie di incubo per i rookie che si affacciavano al basket professionistico. Il roster della franchigia di Seattle è particolarmente povero di talento e la stella della squadra, quel Ray Allen che farà le fortune di Boston prima e Miami poi, viene sacrificato quella stessa sera sull’altare del ringiovanimento della squadra in una trade non proprio felicissima per i Sonics. Quella in cui il nostro Kevin è suo malgrado costretto ad immergersi è dunque una realtà difficile, proiettata verso un lungo periodo di rebuilding e idealmente molto distante dai sogni di gloria che animano il giovane Durant. Denver rappresenta la prima tappa del suo viaggio nel mondo dei “grandi”; il diretto avversario è un Carmelo Anthony in formato deluxe, non esattamente l’ultimo arrivato. Di fronte a questo scomodo cliente KD, che in quanto a personalità (e non solo) era già qualche gradino sopra la media, mette a segno 18 punti con ben 22 tentativi dal campo, non certo la classica performance di un esordiente emozionato. E’ evidente come sin dalla prima uscita stagionale Durant tenti di caricarsi la squadra sulle spalle, giocando quasi sempre da guardia come l’idolo Vince Carter. Il risultato non è di quelli da ricordare: pur chiudendo la stagione con 20,3 punti di media, la squadra finisce per la seconda volta consecutiva all’ultimo posto della Northwest Division con un poco gratificante record finale che recita ben 62 sconfitte e soltanto 20 vittorie; l’unica consolazione è rappresentata dal titolo di “Rookie of the Year“. Don’t worry Kevin, le cose stanno per cambiare.

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La stagione 2008-2009 inizia con delle importanti novità: la franchigia si trasferisce ad Oklahoma City nel corso di un turbolento passaggio di proprietà; inoltre il Draft 2008 porta in eredità il giovane Russell Westbrook, esplosiva point guard in uscita da UCLA, che si rivela decisivo fin dall’inizio. Ciò nonostante il roster guidato dal nuovo coach Scott Brooks non riesce ad andare oltre le 23 vittorie stagionali, consentendo a Presti di draftare un promettente James Harden. Le statistiche di KD crescono notevolmente, preludio dell’exploit dell’anno successivo: è infatti nella sua terza stagione tra i pro che Durant si candida ad un posto fisso nell’Olimpo della Lega, chiudendo la stagione da miglior marcatore con 30 punti di media e trascinando i suoi Thunders ai Playoff fino all’eliminazione al primo turno per mano dei futuri campioni losangelini. L’anno successivo Durant si conferma sui livelli dell’anno precedente e i Thunder riescono perfino a staccare il pass per le Finali di Conference, dove la loro cavalcata verrà bruscamente interrotta da un Dirk Nowitzki in stato di grazia. L’appuntamento con le Finals NBA viene dunque rimandato al 12 giugno 2012, quando la truppa di Scott Brooks affronta la squadra più in forma del momento, i Miami Heat di LeBron James, fresco MVP della regular season (provate ad indovinare il nome del secondo classificato). Dopo una Gara 1 ben gestita dai campioni dell’Ovest, l’inesperienza di Durant e soci inizia ad affiorare, a tutto vantaggio della corazzata di South Beach, con James, Wade e Bosh che riescono finalmente a coronare i loro sogni di gloria. Fortunatamente le Olimpiadi londinesi gli offrono un’opportunità di riscatto: 20 anni dopo il Dream Team di Barcellona, la nazionale americana con un’altra formazione stellare domina la competizione conquistando la medaglia d’oro, che va ad aggiungersi a quella conquistata ai Mondiali 2010 con un Durant in versione MVP.

Nascere nella stessa era cestistica del sedicente “Prescelto” non deve essere facile per nessuno, figuriamoci se ti chiami Kevin Wayne Durant e il tuo progetto è quello di dominare la Lega. I Miami Heat sembrano destinati ad un lungo ciclo di vittorie e le ambizioni di KD, ormai da molti considerato come il prototipo dell’eterno secondo, non riescono a tramutarsi in successo. Non è certo un periodo facile quello che il nativo di Washington si trova a vivere: dopo essere arrivato ad un passo dalla conquista dell’anello non è semplice risollevarsi dalla polvere e tornare a combattere. “The Chosen One” è la sua naturale nemesi, sconfiggerlo sembra impossibile se affiancato da campioni del calibro di Wade e Bosh; se a tutto questo aggiungiamo lo scambio quasi obbligato con i Rockets che vede protagonista il barbuto sesto uomo dell’anno, è evidente che lo scenario in quel di Oklahoma City non è dei più rosei. Primeggiare diventa un’ossessione, la sua voglia di riscatto dall’onta di essere il numero due della Lega fin dal Draft del 2007 lo porta a voler dimostrare il suo talento al massimo del suo potenziale: quarantotto minuti ogni sera per vendicare una carriera di ingiustizie, un po’ come per Allen Iverson. Sono queste le ragioni per cui la sua ambizione lo porta ad operare una piccola rivoluzione nel mondo della palla a spicchi.

Cosa ci fa uno studente di Georgetown di fianco ad uno dei cestisti più talentuosi di sempre? Molto probabilmente si limita a chiedere foto o autografi, ma non è questo il caso del trentunenne Justin Zormelo. Per cercare di migliorare le sue già straordinarie medie Durant dà vita ad una felice collaborazione con uno statistico personale, in grado di correggere i movimenti e le scelte del cestista mediante l’analisi delle azioni di gioco: la conquista del titolo di MVP nel 2014 è semplicemente la conferma del buon lavoro svolto da Zormelo nei 3 anni passati a strettissimo contatto con Durant. Al momento nel personalissimo roster di Zormelo figurano una trentina di atleti NBA, tra cui spiccano i nomi di Derrick Rose, John Wall e Paul George.

La squadra, trascinata dal trio Durant-Westbrook-Ibaka, riesce a sopperire alla defezione di Harden e a chiudere la stagione 2012-2013 da prima della classe ad Ovest. Sembra essere l’anno della svolta per i Thunder: in realtà non hanno fatto i conti con la forza fisica e l’arcigna difesa dei Grizzlies, che in rimonta eliminano Durant e soci con un pesante 4-1. L’avventura dei Thunder nella postseason si interrompe inaspettatamente alle Semifinali di Conference, la conquista dell’anello è ancora una volta rimandata.

“You the real MVP”. Wanda Durant rappresenta il centro di gravità all’interno dell’universo KD, è lei il faro della sua esistenza e Kevin non può far altro che ringraziarla per aver cresciuto lui e i suoi fratelli in mezzo a tante difficoltà. E’ anche grazie al suo sostegno che Durant riesce a superare il record di quaranta partite consecutive con più di venticinque punti, precedentemente detenuto da Michael Jordan. Tuttavia ancora una volta, nonostante un Durantula mai così letale, i sogni di gloria dei Thunder vengono infranti in Finale di Conference dagli esperti Spurs di coach Gregg Popovich. La chimica di squadra è ormai consolidata, il talento di certo non manca, vincere è soltanto questione di tempo: la stagione 2014-2015 sembra quella giusta per affermarsi definitivamente. La Dea Bendata però sembra non essere d’accordo, viste le sole 27 partite giocate da un acciaccato Durant, fermo ai box per una serie di infortuni al piede sinistro. Le sorti della squadra sono in mano ad un Russell Westbrook in stato di grazia, che pur caricandosi la squadra sulle spalle non riuscirà a conquistare l’accesso alla postseason.

Una nuvola di incertezza avvolge il futuro di KD: il contratto con i Thunder è ormai prossimo alla scadenza e l’avvento della free agency più ricca di sempre impone scelte oculate. Non ci è dato sapere se Durant giurerà amore eterno alla franchigia che lo ha lanciato nel basket professionistico, se deciderà di portare i suoi talenti in località storicamente vincenti o se invece preferirà tornare nella sua Washington, quel che è certo è che ormai la sua scalata verso il successo sembra essere giunta all’ultima tappa. L’MVP Award gli ha finalmente consentito di scrollarsi di dosso l’etichetta di eterno secondo, anche se la lunga serie di delusioni a livello di squadra non gioca certo a suo favore: vincere l’anello rappresenterebbe il coronamento di una carriera apparentemente votata all’insuccesso. L’ambizione ha fatto sì che il traguardo finale si avvicinasse sempre di più, ora non resta altro che vedere se la sorte lo costringerà a rinunciare ai sogni di gloria, come avvenuto in passato a campioni del calibro di Stockton, Malone e Iverson, o se invece gli riserverà un posto d’onore negli annali del Larry O’Brien Trophy: quello nell’Olimpo del Basket possiamo già considerarlo prenotato.

ARTICOLO DI FEDERICO AMELI

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Stefano Salerno

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