60. Soltanto sessanta. È questo il numero di fortunati che ogni anno riesce ad entrare dalla porta principale della Nba, dalla porta dorata che porta il nome di Draft. Certo la fortuna non è il principale attore di un duro percorso che ognuno di questi ragazzi è chiamato a percorrere. Un percorso che li ha portati a scalare una scala, gradino dopo gradino – una carriera da star all’high school, le offerte dai migliori programmi collegiali, la conferma in Ncaa – fino alla destinazione finale, l’Nba. Ma molti finisco con il fermarsi soltanto sull’orlo di quella porta, arrivati ad un solo passo da un sogno che per molti rimarrà tale.
Un sogno che resterà vivo all’interno di carriere fatte di esperienze nel vecchio continente, D-League, contratti di dieci giorni. È l’esercito degli undrafted, la moltitudine di giocatori che non sono riusciti a rientrare in quei fatidici sessanta, per i quali si prospettano carriere da protagonisti in Europa o da mestieranti con la valigia in mano, ad ogni modo sempre in attesa di una seconda chance. Queste sono le storie di coloro che da quelle possibilità hanno scritto pagine di storia Nba.
A guadarlo oggi nella sua veste di opinionista per Espn, accompagnato dall’immancabile papillon di colorazioni improponibili, appare difficile riconoscere quello che per una decina di anni è stato l’incubo di molti giocatori Nba.
Giocatore rude, intelligente ed estremamente efficace è tutt’oggi difficile da escludere da qualsiasi discussione sui migliori difensori perimetrali che hanno messo piede sui parquet Nba. Esiste però un’altra classifica da cui solitamente non viene escluso: i migliori giocatori non scelti al draft.
Al Draft ’93 il futuro tre volte campione Nba non fu infatti scelto.
E dire che il ragazzo non difettava certo di determinazione, cosi come di una grande fiducia in se stesso e una buona dose di sfacciataggine. Sembrerebbe infatti che ai tempi del liceo decise che non c’era miglior pubblicità di quella che poteva farsi da solo. Fu cosi che prese il telefono e chiamò l’allenatore di Cal-State Fullerton, Donny Daniels, e cercando di imitare una voce più vecchia e confidenziale disse:” Qui è coach Bill Engel, allenatore di Edison High School. Ho qui un ragazzo che dovresti vedere, ha potenziale. Prossima settimana sarà ad un torneo nelle vicinanze della vostra università”.
Al torneo Bowen segnò 38 punti in una partita e vinse l’MVP del torneo, ma quello che non poteva ancora sapere è che aveva cambiato il suo futuro. Infatti la sua chiamata di qualche giorno prima aveva dato i suoi frutti e tra gli spettatori si era presentato anche Daniels.
Quattro anni al “suo” college non furono però sufficienti per aprirli le porte della Nba e cosi l’originario di Merced, California decise di fare i bagagli per il vecchio continente per costruirsi lui la chiave. Quasi 30 punti di media il primo anno a Le Havre (conditi da diversi problemi con l’allenatore) e la stagione successiva sempre in Francia, a Evreux. Poi il ritorno in America, in CBA però, alla corte dei Rockford Lightning nel ’95-’96 e l’anno successivo un’altra stagione in Francia, a Besançon. Sono passati quattro anni dal Draft del ’93 quando nel Febbraio del ’97 fa ritorno ai Lightning. Ormai sembra delineata la carriera da journeyman player quando arriva la chiamata di Miami e la tanto agognata chiave per l’Nba ha la forma di un contratto da dieci giorni. Risultato? 1 partita, 1 minuto, 1 stoppata. Quello che però conta è che la porta è stata aperta.
La stagione ‘97-’98 lo vede per la prima volta nel roster di una squadra sin dall’inizio della stagione e la chance arriva dai Boston Celtics, con i quali gioca 61 partite (nove come starter) la prima stagione e 30 la seconda. Mantenendo fede alla nomea di journeyman inizia la stagione ’99-’00 con i Philadelphia 76ers, prima di essere scambiato e subito tagliato da Chicago per poi rifirmare con i Miami Heat. Ed è con la franchigia della Florida che arriva la consacrazione come giocatore Nba nella stagione successiva. In un solo anno gioca più minuti (2685 vs 2678, segna più punti (623 vs 606) e triple (103 vs 54) che nelle quattro stagioni precedenti combinate assieme oltre che una reputazione di forte difensore che va consolidandosi con l’inserimento nell’ All Defensive Second Team.
Bowen ha trent’anni esatti quando si unisce ai San Antonio Spurs nella stagione ’01-’02. Il legame tra i due durerà otto stagioni e il contributo dell’ala californiana sarà fondamentale in ognuno dei 3 titoli vinti in questo lasso di tempo. L’apporto di Bowen a San Antonio è tutt’altro che marginale, come dimostrano le 500 partite giocate consecutivamente dal 28 Febbraio 2002 al 12 Marzo 2008 in un team che comprendeva l’Hall-of-Fame David Robinson oltre che Tim Duncan, Tony Parker e Manu Ginobili. Arrivano anche cinque elezioni consecutive nel primo quintetto difensivo dal 2004 al 2008 (e tre nel secondo quintetto dal 2001 al 2003) oltre che la definizione sempre più usata all’interno della lega di dirty player a causa di uno stile di gioco molto fisico, duro e spesso oltre il limite. Non sono poche infatti le multe comminateli dalla lega nei vari anni, dai 7500 $ per il calcio in faccia a Wally Szczerbiak ai 10000 $ sempre per un calcio questa volta a Ray Allen.
Citando le esatte parole dell’opinionista Bill Simmons “a cheap player who’s going to seriously hurt someone someday”, ma che “ultimately makes his team better”. Infatti oltre al grande lavoro difensivo spesso non viene riconosciuta anche la grande capacità di rendersi pericoloso in quella offensiva attraverso un tiro da tre ad altissima percentuale dagli angoli, tiro frutto di una grande etica del lavoro e costruito in ore di allenamento (un progetto in casa Spurs proseguito con giocatori come Sefolosha e Danny Green).
Ma l’elemento fondamentale su cui si poggia l’intera carriera è il lavoro nella metà campo difensiva. L’abilità difensiva non deriva da grandi statistiche in stoppate o palle rubate, ma in una più specifica abilità nel ricercare di limitare le migliori opzioni al proprio avversario. Ogni giocatore ne possiede diverse: passare, finire a canestro, tirare da diverse posizioni del campo. Solitamente ogni giocatore tende a preferire una opzione rispetto alle altre e il gioco difensivo di Bowen era mirato all’eliminare dal gioco quel tipo di opzione, oppure a spingere l’avversario verso le lacune del proprio gioco. Giocatori che preferivano finire a canestro finivano a trovare spazio per il tiro dal mid-range, ma con ogni linea di penetrazione chiusa (come un giovane LeBron ebbe modo di testare nelle Finals del 2007, chiusa con il 36% dal campo). Giocatori da catch and shoot invece si trovavano sporcata ogni singola ricezione, nei limiti regolamento (e a volte anche oltre) (guardare alla difesa su Peja Stojakovic nelle semi-finali di Conference del 2008).
Vent’anni dopo essersi auto reclutato a Cal-State Fullerton ed essersi reso protagonista di una carriera che nessuno degli addetti ai lavori o il più ottimistico dei tifosi potesse immaginare, il 21 Maggio 2012 Bowen arrivò a compiere l’ultimo gradino di quel fantastico viaggio, vedendo ritirato il suo numero 12 da parte dei San Antonio Spurs (numero che con il suo permesso è stata concesso di indossare all’All Star LaMarcus Aldridge a partire dalla stagione ’15-’16). Una carriera onorata anche dagli avversari, come dimostrano le parole di Kobe Bryant che lo ha inserito nei migliori difensori affrontati.
Dotato di un talento probabilmente ben al di sotto del livello medio Nba Bowen ha saputo rappresentare il miglior esempio a cui un undrafted player può ispirarsi, soprattutto per quel che riguarda la determinazione in se stessi e l’etica del lavoro.