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A Fall from Grace

Vi sono due vie principali che si possono perseguire, una è quella della natura e l’altra quella della bellezza: nell’ambito della competizione sportiva non solo la prima è l’unica valida, basata innanzitutto sulla legge del più forte -dalla quale dipende ogni singolo risultato, che poi è il fine ultimo di una competizione-, ma correla a sé la seconda in maniera indissolubile. Inutile giudicare lo sport con i parametri della vita o dell’arte, anche se talvolta possono combaciare, dato che il contesto costringe a considerare la realtà in base a ciò che è in quel determinato luogo, fisico o ideale che sia. Nel luogo sport non c’è vera bellezza nella sconfitta, specialmente per chi ha già vinto: ci sarà dignità, di certo non vergogna, ma, rimanendo nel contesto della presupposta regolarità dei risultati, non c’è motivo per cui il perdere possa essere preferibile al vincere o essere più puramente bello e perfetto, forse lo si può rendere tale per iscritto, trasfigurandolo, ma la realtà concreta è questa. Tra le gocce di sudore dello sport la natura ha la meglio sulla grazia, salvo i rari casi in cui si vada oltre ai confini sportivi, eventualità che per quanto si debbano giustamente sottolineare rimangono occasionali in una visione d’insieme. Certamente è centrale il già accennato fatto che questa realtà sia particolarmente amara per chi ha già conosciuto il trionfo e che la situazione non faccia altro che peggiorare con l’aumento della frenquenza di questa stessa eventualità: sarebbe infatti sbagliato credere che la rarità di un successo dia maggiore valore alla conquista dello stesso, dal quale quindi sarebbe più arduo distaccarsi, quando è risaputo che è l’ abitudine ciò a cui l’uomo è più intimamente affezionato.

Ora, nel contesto del college basketball nessun programma ha -negli ultimi trent’anni- fatto dell’abitudine a vincere la propria ragion d’essere come Duke sotto l’egida di Mike Krzyzewski (in senso generale, non si intenda per vittoria solo il titolo finale che va ad uno solo, sebbene i Blue Devils eccellano anche lì con cinque titoli in venticinque anni): nelle ultime trenta stagioni sono state due quelle che hanno visto il numero delle sconfitte in doppia cifra e una, quella 1994-1995 – la peggiore in questo lasso di tempo, con 18 vinte e 13 perse a referto-, vide Coach K a bordocampo per sole 12 partite (record di 9-3) a causa di un infortunio alla schiena che lo tenne fuori dal parquet per il resto della stagione, prontamente sostituito dall’assistente allenatore Pete Gaudet, in quella che è una parentesi che a Durham preferibbero lasciare nel dimenticatoio.

La situazione, ad oggi, dice che questi Blue Devils sono in linea per unirsi a queste non memorabili versioni del passato con sei sconfitte già a referto e un record di 4-4 nella ACC, con le sconfitte tutte giunte nel corso delle ultime cinque uscite. Le tre sconfitte consecutive subite contro Clemson, Notre Dame e Syracuse (le ultime due giocate in casa, nello storico Cameron Indoor Stadium) sono qualcosa che non si vedeva dal 2006-2007, l’altra stagione incriminata, il che sottolinea come la sconfitta sia qualcosa di quasi inconcepibile a Durham, infatti è una eventualità rarissima che una versione di Duke dall’ 1985 in poi si sia ritrovata ad accumulare più di due débacle consecutivamente: basti pensare che, senza contare la parentesi Gaudet, era accaduto solo quattro volte nelle precedenti trenta stagioni  (per darvi un’idea di ciò di cui stiamo parlando: a North Carolina, non proprio l’ultimo dei programmi, una striscia di 3+ L è capitata undici volte nelle ultime venti stagioni), restando la sconfitta un qualcosa di pressoché incidentale, un piccolo inciampo in una strada lastricata di successi.

Le motivazioni della situazione che si presenta quest’anno sono facilmente spiegabili a livello empirico e non necessitano di particolari approfondimenti: persi quattro dei suoi cinque migliori giocatori durante l’estate (i freshmen Okafor, Winslow e Tyus Jones e il senior e leader carismatico Quinn Cook), i Blue Devils hanno poi soprattutto dovuto fare i conti con l’infortunio al piede di Amile Jefferson nel corso della stagione, trovandosi così privati del giocatore ampiamente più importante per una squadra priva di lunghi di qualità in grado di offrire difesa interna e presenza a rimbalzo, aspetti che il senior colmava ottimamente, dando una dimensione da top-10 alla squadra; la zona non è efficace sia che si usi una 2-3, una 1-3-1 o un 3-3-9 e Grayson Allen e Brandon Ingram difensivamente sono spesso più fuori posto di Alberto Tomba come attore, ma d’altro canto i 26 rimbalzi offensivi concessi a Syracuse o il 16 su 57 da tre nelle ultime due sconfitte parlano della condizione della squadra meglio di qualsiasi analisi. I freshmen di questa stagione, nonostante siano dotati di buon talento, in particolare Brandon Ingram, non hanno le capacità e la maturità -l’unico play della squadra, Derryck Thornton, per anagrafe dovrebbe essere ancora alla high school e Derek Jeter, sulla carta sostituto di Okafor, ha collezionato 11 falli e 0 punti negli ultimi 16 minuti d’impiego– del gruppo di primo anno della scorsa stagione che, per impatto, perfetta coesione e obiettivi raggiunti, ha rappresentato un unicum, o quasi, nella storia del college basketball. D’altra parte dopo la prima versione di Duke largamente basata sui one-and-done (nelle ultime annate era solo uno all’anno il “rookie” di valore assoluto -che fosse Irving, Jabari Parker o Austin Rivers-, non era ancora capitato che fossero tre alla volta) è normale che vi sia un cambio di fronte netto, con tante incognite e poche certezze nell’annata successiva, chiedere a Calipari.

Considerata la situazione attuale, dunque, le sconfitte di Duke non dovrebbero poi creare tanto stupore, ancor più in una stagione in cui l’immacolatezza dei record delle squadre anche più forti è concetto risibile e da scartare a priori: tuttavia non tutte le cadute sono uguali e specialmente non sono equiparabili coloro che le devono affrontare. La ragione ci dice che verosimilmente Duke, dopo un anno di, a questo punto, probabile transizione, tornerà già il prossimo anno a lottare per un posto alle Final Four, con questa stagione che, nel quadro più ampio della storia di Krzyzewski a Durham, non sarà altro che l’equivalente delle singole sconfitte che hanno puntellato qua e là le stagioni più gloriose dei Blue Devils, ma proprio perché non ci troviamo, realisticamente, davanti all’inizio di una nuova era -come verosimilmente sarà quando Coach K si ritirerà-, è ancor più interessante osservare quale sia la realtà di un programma caratterizzato dall’abitudine alla vittoria di fronte ad una situazione che non sembra più arridergli e in cui, anzi, il destino sembra essere persino avverso (329esimi nella nazione per quello che viene chiamato “Luck rating” secondo KenPom.com).

Dopo la sconfitta contro Syracuse Krzyzewski si è distinto con quella che passerà alla storia come una delle conferenze stampa più celebri della sua carriera, certamente scritta più sul parquet che non davanti ai microfoni, ovvero l’ “Amazing” press conference che verrà ricordata con la parola protagonista del suo monologo, così come quella celeberrima di Allen Iverson è evocabile a qualsiasi appassionato di basket con la sola parola “Practice”. Ma lasciamo che siano le parole a mostrarsi da sé:

L’uso del sarcasmo per punzecchiare gli arbitri riguardo alla penultima giocata della partita è lapalissiano – anche se in realtà si tratta di un accettabile non-fischio su una hustle play non così memorabile di Matt Jones -, ma arriva a livelli parossistici andando perfino oltre i suoi stessi confini paragonando l’ultima azione di Jones ad una delle sette meraviglie del mondo e aggiungendo un “God bless America” quasi dadaista per capacità di destabilizzare gli spettatori: rispetto al caso di Iverson l’ironia oltre al chiaro messaggio trasmesso sembra celare qualcos’altro, se per AI era evidente e sincero il rigetto per l’allenamento propriamente detto, per Krzyzewski oltre alla sarcastica polemica sembra esserci un più celato ripudio quasi fisico nei confronti della sconfitta, un sincero malessere mascherato da un’ironia poco brillante e ripetitiva fino all’esasperazione. Come un bambino troppo cresciuto che cerchi rifugio nel seno materno, ma questo non gli venga concesso, dando inizio a quel processo che porta il figlio ad un rifiuto di quello stesso corpo, così troviamo Coach K cui il fato, nella persona fisica degli arbitri, sembra, per una delle rare volte nella sua carriera, aver soffiato contro un vento avverso.

Mike Krzyzewski non è un bambino viziato ed è tranquillamente considerabile il più grande allenatore nella storia del college basket -ed uno dei più grandi in senso assoluto-, ma è riscontrabile in lui un’innata difficoltà nell’accettare il concetto stesso della sconfitta, probabilmente mutuato dal suo mentore Bob Knight, specialmente quando questa sembri smettere di essere solamente un qualcosa di incidentale o, meglio, rapidamente risolvibile: non è la prima volta in cui Coach K si ritrova in una situazione del genere, seppur rara, e i motivi dell’attuale condizione in cui versa il programma sono ben più chiari a lui che a chiunque altro, ma forse per questo è ancor più inconcepibile e doloroso realizzare la pochezza di ciò che si ha di fronte quando ne si è consapevoli e si è stati artefici di tanta grandezza anche nel più recente passato.

Lamentazioni come quelle della conferenza stampa dopo la partita con Syracuse possono quindi sembrare capricci infantili ed è anche possibile che lo siano, ma nello stesso modo in cui lo erano quelli degli dei greci, non certo come potrebbero esserlo quelli di qualche allenatore di seconda fascia sull’orlo del licenziamento. Coach K è un dio vivente del college basketball che si ritrova a dover trasformare della pirite in oro e, nel momento in cui non riesce nel proprio intento, non può che ritrovarsi incredulo e afflitto, come un comune mortale che non riuscisse nella più basilare delle azioni quotidiane: un destino, questo, riservato solo ai grandi. In molte delle interviste post-partita in seguito a delle sconfitte, questa stagione e non solo, Coach K sottolinea spesso come la sua squadra non lo abbia deluso dal punto di vista del gioco e dell’impegno e che quindi possa considerarsi complessivamente soddisfatto della partita, tuttavia raramente manca di sottolineare la durezza di quella stessa resa (“every loss is a tough loss, but the toughest is always the next one”): è nel bello e buono del gioco che cerca un rifugio chi sa di poterlo e volerlo ottenere pienamente solo con le vittorie, come ha sempre fatto, conscio che, in certi contesti sportivi, la bellezza –che sì, può essere anche una singola giocata, seppur non per forza quella di Jones contro Syracuse- sia sterile se non supportata dal predominio.

Duke e Krzyzewski, ormai considerabili un’unica entità, si ritrovano oggi in una situazione a loro quasi sconosciuta o comunque talmente lontana da esserne quasi dimentichi, dovendosi vedere -loro, da tempo immemore, un tempo così lungo da essere quasi un sempre, riflessisi nello specchio della grandezza- con gli occhi della normalità, in quella medietà che, per talune elette realtà, è indifferente dal disastro. La buona notizia, oltre ad un eventuale ritorno di Amile Jefferson per il finale di stagione, è che per una grande organizzazione i momenti di crisi posso portare a solo due conclusioni: una rapida riscoperta della propria grandezza o un lungo oblio e, finché Mike Krzyzewski continuerà ad essere l’anima straordinaria, insoddisfatta e talvolta persino volubile del programma, la prima opzione sarà sempre molto più probabile della seconda.

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Pubblicato da
Giacomo Cabras

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