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L’intangibilità nella NBA: l’idea nasce dalla similitudine tra NBA e UE.

Nell’articolo introduttivo è stato spiegato l’obiettivo principale del lavoro: dimostrare la relazione positiva tra le conoscenze tacite e i risultati di un team.

Abbiamo parlato dell’Individual Tacit Knowledge e della Group Tacit Knowledge, individuando nella prima la capacità e abilità intangibile del singolo e nella seconda lo stock di conoscenza tacita che nasce dalla cooperazione dei giocatori per il raggiungimento di un obiettivo comune.

La parte dello studio che spiega la misurazione di queste due grandezze è preceduta da un’accurata scelta delle variabili. Queste, infatti, sono state selezionate tra le moltissime statistiche che costellano il mondo NBA e nei successivi articoli saranno analizzate nel dettaglio, mostrando i motivi sottostanti al loro utilizzo nel modello matematico.

La NBA non è una lega come le altre, ha una propria stabilità finanziaria che consente a tutti i partecipanti (proprietari, management, staff tecnici e giocatori) di lavorare in modo efficiente e di trarne beneficio.

Ed eccoci al secondo argomento del lavoro: la struttura della NBA.

L’idea della mia tesi nasce studiando la teoria di Mundell che, nel 1961, idealizza un sistema economico che definisce Area Valutaria Ottimale (AVO), in pratica la prima bozza di Unione Europea. Mundell spiega che “conviene creare un’area valutaria con cambi fissi, data la facilità degli scambi dei fattori produttivi”. Sebbene il fine ultimo di questa teoria sia individuare i presupposti per adottare una moneta unica, nel mio studio è stata utilizzata per capire quali sono i fulcri su cui poggia un’area ottimale di business, intesa come luogo in cui gareggiano più competitor.

Il primo fattore in comune tra il modello di Mundell e la NBA è la presenza di un gruppo di soggetti (i Paesi Stato nell’AVO, le trenta franchigie nella NBA) tra i quali esiste una competizione nel rispetto di regole comuni utilizzando gli stessi strumenti di perfomance.

I due requisiti principali della teoria di Mundell che possono spiegare meglio il motivo per il quale la NBA sia una Lega vincente sono sostanzialmente due:

  • La mobilità interregionale di forza lavoro e capitali;
  • Fiscalità centralizzata.

Il primo requisito spiega l’importanza di spostare, all’interno dell’area, la forza lavoro e i capitali. Nella NBA questi due elementi sono protagonisti nella fase di Trade, in altre parole il trasferimento dei giocatori (forza lavoro) che implica anche uno spostamento di capitali (salari). I due meccanismi che hanno facilitato questo processo di mobilitazione sono il Draft e il Salary Cap.

Il secondo, invece, fa riferimento a un generatore centrale di regole che ha anche il compito di modificarle e garantirne il rispetto.

E nella NBA questo organo è rappresentato dal Commissioner. Ed è proprio su questa particolare figura facciamo un focus, dalle sue origini alla sua autorità controversa ma fondamentale.

Qual è la storia del Commissioner?

Le origini risalgono al 1919.

Otto giocatori dei Black Sox, in cambio di un compenso elargito da due scommettitori, decidono di perdere intenzionalmente la finale del campionato di baseball.

A seguito di questo episodio, la MLB (Major League Baseball), forte del consenso dei proprietari delle franchigie, decide di istituire una figura che “protegga l’integrità della Lega e limiti gli episodi di moral hazard”.

Successivamente, anche la NFL (1920) e la NBA (1946) optano per l’inserimento del Commissioner previsto dalla NHL , invece, solo dal 1993.

Storicamente, il Commissioner ha ampliato i confini della sua autorità e, sebbene la terminologia cambi leggermente, le quattro Leghe conferiscono loro “il potere di tutelare i  migliorare gli interessi dello sport”.

Questa definizione lascia un’ampia discrezionalità interpretativa e se si aggiunge che questi “ha l’autorità di disciplinare gli atleti professionisti in merito a diverse attività, dentro e fuori dal campo da gioco” si può concludere che il Commissioner può controllare qualsiasi condotta che egli ritiene dannosa per l’immagine e l’integrità della Lega.

E a volte, tutto ciò, ha creato qualche problema. Un esempio è la famosa regola di David Stern sul dress code dei giocatori NBA. Obbligati a vestire in un certo modo (business o conservative attire) dalla stagione 05/06, la regola fu decisa dal Commissioner con l’obiettivo di limitare il fenomeno del Look Hip-Hop  coprendo tutte le attività nella NBA, dall’arrivo al campo di gioco alle interviste, compreso l’abbigliamento in panchina durante gli infortuni.

E il braccio di ferro tra Board e giocatore ebbe inizio.

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Chiaramente Iverson fu uno dei promotori della lotta alla dirigenza, lasciando dichiarazioni ad alto contenuto riflessivo.

“Sento che ci vogliono far vestire in un certo modo. Stanno etichettando i ragazzi che vestono come me; i ragazzi che vestono hip-hop. Solo perché metti un ragazzo in un Tuxedo non vuol dire che sia un bravo ragazzo. Puoi mettere un assassino in un vestito, ma rimane sempre un assassino. Questo manda un messaggio sbagliato ai ragazzi.”

A seguito dei malcontenti all’interno della Lega, la NBPA (National Basketball Player Association), attraverso la stesura del contratto collettivo (CBA), garantì ai giocatori il diritto di arginare l’operato del Commissioner chiedendo l’intervento di un arbitro imparziale per accertare:

1.  la buona fede del Commissioner;

2.  che la punizione inflitta dal Commissioner rientri nella sua sfera di autorità;

3.  la correttezza procedurale dell’intervento.

Proprio sul dress code,  il tribunale sentenziò il tal modo: “E’ una regola che andrebbe prima discussa con il sindacato dei giocatori”.

Ma così non è stato. David Stern bypassò questo step e la sua direttiva fu declassata da regola a “norma di buonsenso”.

Per la felicità di Russell Westbrook.

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Senza dubbio Stern ha mostrato due facce della stessa medaglia.

Ma se nell’ultimo ventennio la NBA è esplosa lo dobbiamo alla sua lungimiranza e dedizione nel creare una Lega solida con ricavi che superano i quattro miliardi a stagione, con previsioni di crescita costante fino al 2021 (e oltre, dopo aver siglato il contratto televisivo da ventiquattro miliardi con TNT e ESPN). Può non essere andata a genio la sua invadenza nelle sfere personali ed extra cestistiche, ma c’è da dire che ha perfezionato molti dei meccanismi che oggi consentono alla NBA di avere un assetto unico che molte leghe, anche di altri sport, cercano di imitare.

La figura centralizzata della NBA è di vitale importanza.

Con l’uscita dei prossimi articoli capiremo meglio quanto sia stata influente la figura del Commissioner evidenziando le innovazioni immesse nella lega. E questo sarà visibile analizzando sia i microsistemi (i team) sia il macrosistema NBA.

Nel primo caso ci soffermeremo sulle variabili scelte per il calcolo delle competenze tacite e in che modo queste possono far registrare risultati positivi.

Nel secondo analizzeremo i pilastri sui quali poggia la Lega: si parlerà di Draft, di Basketball Related Income (BRI) e di Trade System.

Il giusto bilanciamento tra il macro e microsistema genera una competizione redditizia per tutti. I team che riescono a trovare il giusto compresso tra regole esterne ed efficienza interna sono capaci di raggiungere obiettivi importanti utilizzando e tutelando nel migliore dei modi la pedina fondamentale, il giocatore.

AUTORE: Giovanni Mori

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Redazione NbaReligion

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