Scorrendo l’albo delle stagioni Nba è difficile non notare la presenza di un grosso asterisco a fianco della stagione 1998-1999. Il motivo di tale presenza è presto spiegato con il lockout che portò l’inizio della stagione al 5 Febbraio ’99, riducendo a sole 50 partite la regular season. Ma quell’asterisco segna quella che è una stagione speciale oltre al lockout. È l’anno del primo titolo di San Antonio (inizio dell’eraDuncan-Popovich), vinto 4-1 in finale con i New York Knicks (unica squadra ad essere arrivata alle Finals dopo essere approdata ai playoff con l’8# seed). È l’anno del secondo ritiro da parte di Michael Jordan, annunciato il 13 Gennaio 1999 in pieno lockout (ritiro che spinge i Chicago Bulls fuori dai playoff per la prima volta dopo 15 anni, secondo team detentore del titolo a fallirne l’accesso dopo i Boston Celtics 1969-1970). È l’anno della prima scelta al draft Michael Olowokandi.
I presagi per quella che sarà a tutti gli effetti una stagione fuori dall’ordinario si erano palesati già durate l’estate. A cavallo dei mesi di Luglio e Agosto andava in scena in quel di Atene la tredicesima edizione dei Campionati Mondiali di pallacanestro. La vittoria va alla Jugoslavia (che vede l’unica sconfitta del torneo contro il team italiano) dell’MVP Dejan Bodiroga in una finale tutta a marchio est europeo con la Russia. Gli americani si dovettero accontentare del gradino più basso del podio, ma il risultato porto lo stesso diverse lodi alla squadra arrivando ad essere soprannominata The Dirty Dozen, per la predisposizione al sacrificio e al lavoro di squadra. L’ombra del lockout, che aveva preso forma nei primi giorni di Luglio, era arrivata ad oscurare anche il team USA che alle porte del torneo si trovava senza la possibilità di schierare giocatori NBA. La squadra che avrebbe dovuto essere di Tim Duncan, Kevin Garnett e Gary Payton fu rimpiazzata da una selezione di giocatori dai college, dalla CBA e dal vecchio continente. Nei dodici trova posto anche il centro undrafted Brad Miller, che sole poche settimane prima si era visto passare da tutte le franchigie NBA al Draft ’98.
Guardando giocare l’originario di Kendallville, Indiana non si ha l’immagine del tipico centro NBA in un’era di grandi atleti e highlights. Non il genere di giocatore che la maggior parte dei tifosi penserebbe mai di pagare per vederlo giocare. Forse addirittura il genere di giocatore che molta gente non credeva potesse giocare a basket. Un big man lento, estremamente poco atletico per gli standard NBA. Il pensiero di molti addetti ai lavori non doveva discostarsi molto da quelli qui sopra esposti, spiegando in parte come dopo quattro anni a Purdue University non arrivò la fatidica chiamata portando Miller a firmare il primo contratto professionistico nel vecchio continente, per la Bini Viaggi Livorno. La presenza nel team USA di qualche mese prima lo mantiene però nell’orbita della lega americana e dopo solo tre mesi di esperienza nel bel paese arriva il primo contratto NBA con i Charlotte Hornets in contemporanea alla fine del lockout.
I primi anni nella lega sono spesi da Miller per massimizzare le gradi abilità, cercando di minimizzare le parti del gioco che potevano danneggiare la propria squadra. Due anni a Charlotte, poi altri due a Chicago. Il minutaggio cresce in contemporanea ad un ruolo sempre più da protagonista, arrivando a giocare 76 partite con quasi 30 minuti a gara per 13.6 PPG e 8.2 RPG ad allacciata di scarpe, numeri che lo portano ad un passo dall’All Star Game come il primo dei centri esclusi ad est. La stagione 2002-2003 segna il turning point della carriera di Miller. Viene inserito nello scambio che porta Ron Artest, Ron Mercer e Kevin Ollie a Indiana, mentre la via verso Chicago viene intrapresa da Jalen Rose, Travis Best e Norman Richardson (oltre che una seconda scelta). Nella franchigia del suo stato natio Miller guadagna la chiamata all’All Star Game, primo giocatore a riuscire in questa impresa da undrafted (record condiviso quello stesso anno con un altro giocatore a breve protagonista di questa rubrica) e porta la squadra ai playoff con il terzo miglior record della Eastern Conference (patendo una inaspettata sconfitta contro gli underdog Boston Celtics).
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Miller era un passatore fantastico. Guardarlo giocare dal gomito era un piacere. “He’s one of the most skilled big guys. I’ve been very fortunate. I put him up there with Vlade and Chris Webber as far as skilled guys, knowing how to play, making their teammates better.” Musica e parole di coach Rick Adelman, allenatore dei Sacramento Kings del The Greatest Show on the Court (ottimamente raccontato qui per chi se lo fosse perso). Quei Sacramento Kings erano perfetti per lui e lui era perfetto per quei Sacramento Kings. Un matrimonio che fu suggellato sotto una montagna di soldi con la forma del rinnovo a 68 milioni di $ firmato con Indiana prima di essere scambiato nella postseason del 2003. Nello stato della California Miller si ferma fino al 2009, sei stagioni in cui consolida il suo status di giocatore di alto livello con una seconda chiamata all’All Star Game 2004 (in una Western Conference molto più combattuta nel parco lunghi rispetto alle Eastern dell’anno precedente) e una convocazione per i mondiali 2006 in Giappone (chiusi anche questi al terzo posto come otto anni prima, in un roster che però comprendeva LeBron, Wade, Carmelo Anthony e Bosh tra gli altri).
L’inserimento nel gioco di Adelman fa esplodere il gioco di Miller che arriva a chiudere la stagione la stagione 2003-2004 in doppia-doppia (14.1 PPG e 10.3 RPG, unica volta in carriera) e mantenendo una media di quasi quattro assist a partita per tutti i sei anni a Sacramento (con il picco di 4.7 nel 2005-2006), numeri bel al di sopra di qualsiasi altro big man della lega.
Soltanto un sontuoso Vlade Divac (l’uomo chiamato ad essere sostituito da Miller a Sacramento) è riuscito a far segnare una stagione migliore nei 14 anni di attività di Brad.
I risultati di squadra però non arrivano, a causa anche di un team giunto al termine del suo ciclo. Nel Febbraio del 2009 il ritorno a Chicago con un ruolo da veterano in un giovane team da playoff, andando a completare il reparto lunghi in coppia con Joakin Noah. Due giri in post season e due eliminazioni al primo turno contro Boston e Cleveland, utili però per costruire il gruppo che nella stagione 2010-2011 raggiungerà le finali di conference. A quelle finali però Miller non parteciperà poiché all’inizio di quell’anno passa agli Houston Rockets per ricoprire il ruolo di centro al posto dell’infortunato Yao Ming, tornando alle dipendenze di Rick Adelman. L’accoppiata con l’allenatore prosegue anche nella stagione successiva, l’ultima per Miller, in Minnesota. Ai Timberwolves gli infortuni però lo perseguitano costringendolo a giocare solo 15 partite e ad Agosto 2012 arriva il ritiro.
La carriera di Brad Miller merita un asterisco al proprio fianco. Un asterisco che rappresenta come il talento sia difficile da giudicare, un asterisco per tutti i pregiudizi su quanto un certo grado di atletismo sia necessario per una lunga e lucrativa carriera NBA (chiedere al riguardo a Zach Randolph). Un asterisco per rappresentare il rispetto guadagnato sui parquet di tutte le arene americane da parte di tifosi e giocatori, un assist alla volta. Un asterisco per le lacrime di un giocatore che nella sua carriera ha dato tutto quello che poteva, tutto quello che il suo fisico poteva permettergli. Da vero undrafted.
Luca Mazza
Per chi si fosse perso la prima puntata di UNDRAFTED: eccola qua