Ho perso le parole

Quante volte si abusa dell’espressione “soffre la pressione”. Può essere utilizzata quando un giocatore sbaglia un tiro decisivo, oppure quando un allenatore legge male gli ultimi possessi di una partita. Praticamente mai è utilizzata per segnalare un uomo a disagio davanti a una telecamera. Eppure in questa storia il nostro personaggio non ha paura di sbagliare, ha paura di parlare.

Nasce a Philadelphia nel 1993 ma cresce nel New Jersey, dove suo padre viene ucciso da una raffica di pallottole quando lui non aveva ancora spento tre candeline. Il padre si chiamava Michael Gilchrist Sr., perché aveva dato a suo figlio lo stesso nome. Qualsiasi logopedista del pianeta vi dirà come la balbuzie sia un disturbo che soltanto in minima parte può essere collegato ad un fattore genetico. Una causa unanime ancora non è stata trovata, il disturbo varia di soggetto in soggetto. Infatti il piccolo Michael non ha problemi a rendere il suo flusso di pensieri fluente, ha problemi a farlo uscire dalla propria bocca. Viene cresciuto dalla madre e dallo zio, tale Darren Kidd, il quale diventa per Michael una figura paterna a tutti gli effetti. Gli insegna ad andare in bici, lo aiuta con i compiti ma soprattutto lo supporta nella sua carriera cestistica. Gioca a livello liceale per la St. Patrick High School e insieme a lui ci gioca anche un altro discreto prospetto di nome Kyrie Irving.

I vostri tipici compagni del liceo

Entrambi si distinguono da subito come giocatori diversi dagli altri, eppure Michael continua a non parlare più del dovuto. In campo si limita a chiamare il pallone quando lo ritiene necessario, per il resto è quasi autistico. Tuttavia quando torna a casa, protetto dal bozzolo familiare, si esprime liberamente senza il minimo impedimento. Appena sente il giudizio di qualcuno aleggiare su di lui si spegne. Cerca le parole, alza lo sguardo al cielo nella speranza che da lassù qualcuno gliele dia queste benedette parole. Il problema è che adesso lassù non cerca soltanto il suo padre biologico, ma anche quello che lo ha realmente cresciuto. Quell’uomo così cordiale e affettuoso che era Darren Kidd non c’è più. Lo ha stroncato un attacco di cuore e il primo a trovarlo, agonizzante sul pavimento, fu proprio Michael. Gli stava portando la sua lettera di presentazione per fargliela correggere e spedirla poi all’università di Kentucky. Il ragazzo ha raggiunto da poco la maggiore età e deve fare i conti con un altro ostacolo che la vita ha deciso di mettergli davanti. Decide comunque di spedirla quella lettera, cambiando solo una parola: il suo nome. Michael Kidd-Gilchrist. Quel grande uomo deve essere impresso non soltanto nella memoria di Michael, ma anche nel modo in cui gli altri lo identificano.

La lettera è destinata alla scrivania di John Calipari. Nettamente il miglior reclutatore universitario che la storia del college basketball abbia mai potuto ammirare. Si fa le ossa come assistente di Larry Brown, conquista tutti alla guida della piccola UMass, portandola anche alle Final Four nel ’96. Tenta la carriera sul pino di una franchigia NBA ma non è quello il suo ruolo. In più allena i New Jersey Nets che, prima dell’avvento di un certo Jason Kidd, io li ricordo esclusivamente per la notte dei criceti (grazie Avvocato). Torna ad allenare al college, alla University of Memphis, e lì bisogna tirare giù il cappello e basta. In regular season macina vittorie, arriva anche ad un passo dal vincere il torneo NCAA ma nella finale del 2008 Mario Chalmers (allora in forza con Kansas) mette uno dei suoi tiri e manda la partita all’overtime. In quell’occasione vincerà Kansas e Calipari si guadagna l’etichetta di perdente quando la palla scotta. Nel 2009 accetta la cospicua offerta di Kentucky, sperando di sfatare questo tabù in uno degli atenei più importanti per quanto riguarda il college basketball. No, non c’è proprio verso. Nel 2011 arriva ad un tiro dalla finale ma è di nuovo costretto a chinare il capo davanti a UConn. La vittoria passa da sogno, a obiettivo, a ossessione, fino a diventare l’unica opzione nella testa di Calipari. Approccia il recruiting del 2011 con la stessa voracità dell’orso su The Revenant. È assatanato e sta per mettere insieme una delle classi di rookie più forti dell’ultima decade. Intanto Brandon Knight si è dichiarato eleggibile per il draft, per sostituirlo viene ingaggiato Marquis Teague. Darius Miller e Doron Lamb si alternano nel ruolo di guardia, gli altri tre sono più che discreti. La coppia di lunghi ha in Terrence Jones l’uomo di esperienza (si fa per dire visto che è un secondo anno), e in Anthony Davis la macchina perfetta per annichilire gli avversari. Per completare il quintetto Calipari sceglie proprio Kidd-Gilchrist.

Quest’ultimo però è il più difficile da inserire in un contesto di squadra; anzitutto perché non parla, e poi perché passa da una realtà in cui lui e Irving facevano 30 in pantofole, ad una in cui la forza fisica non basta. Calipari ha bisogno di un esterno in grado di correre il campo, prendere tiri, ma soprattutto difendere fino alla morte. Infatti ai tempi dell’high school non è che Michael ci mettesse tutto questo impegno per migliorare la sua difesa. Legge il gioco benissimo, ha delle poderose leve che danno una grossa mano e l’atletismo di un mezzo fondista. Allenarsi in difesa non gli è mai servito. Adesso però il livello è leggermente più alto e Michael passa gran parte dell’allenamento a migliorare il suo gioco difensivo. Già, però bisogna pensare anche all’altra parte del campo.

Essere un giocatore della squadra universitaria negli Stati Uniti vuol dire avere una certa fama all’interno dell’ateneo di turno. Il che vuol dire anche che, nel remoto caso in cui Michael Kidd-Gilchrist avesse voluto creare una sessione di allenamento alle sei del mattino, non si sarebbe allenato da solo. Come avrete intuito il caso non è così remoto. Kidd-Gilchrist si allena dalle 6 alle 8 prima di andare a lezione, formando una sorta di breakfast club con un manipolo di schizzati che a quell’ora preferivano tirare con lui piuttosto che dormire. Tra quelli Anthony Davis non c’era. La squadra messa in piedi da Calipari è una corazzata inarrestabile: perde due partite in regular season e alle final four del torneo NCAA elimina Lousville (prova sontuosa del mono ciglio) e si guadagna un posto in finale. Dall’altra parte del ring c’è Kansas, allenata Bill Self, e maledettamente più esperta degli altri. Le due punte di diamante sono Thomas Robinson (terzo anno) e Tyshawn Taylor (quarto anno). Eppure c’è un uomo che sa di non poter perdere quella partita. Coach Calipari ha patito la sconfitta contro i Jayhawks di Bill Self nel 2008, quando era alla guida dei Memphis Tigers, da quel giorno ha passato le notti a studiare Kansas. Sapeva che prima o poi il suo destino si sarebbe nuovamente incrociato con quello di Bill Self e non vuole lasciare nulla al caso. Il game plan è piuttosto intuitivo: Calipari vuole correre e difendere, la freschezza dei suoi sarà l’arma in più e quando tutti si aspettano Davis vedranno salire in cattedra un altro. Il discorso era rivolto soprattutto a Kidd-Gilchrist, e infatti nel primo tempo la scena è tutta sua. Kentucky fa la lepre come previsto; va al riposo con 14 punti di vantaggio che però, nel secondo tempo, cominciano ad essere rosicchiati da Taylor e compagnia. Tutti aspettano Anthony Davis ma se il pubblico tiene gli occhi fissi sul prestigiatore non vedrà mai il trucco compiersi. Doron Lamb attualmente gioca a basket in Montenegro, dopo un’anonima apparizione in NBA per un paio d’anni. Non è un fenomeno, non ha la stoffa del leader, ma quella sera segna 22 punti, togliendo le castagne dal fuoco a Kentucky. Manca un minuto alla fine, i Wildcats sono sopra di 6, time-out Calipari. Vuole spiegare ai suoi giocatori che Bill Self sta per chiamare un taglio in backdoor per Taylor e che se difendono questa giocata la partita è vinta. Prende Kidd-Gilchrist vicino e gli ordina: “non lo mollare un attimo”. Il ragazzo annuisce, va in campo, e puntualmente perde Taylor nel momento in cui taglia verso il canestro. Calipari sta per lanciare la lavagnetta sugli spalti. Una cosa gli aveva detto e tanto niente. Il lay-up di Taylor è destinato ad accorciare il gap ma nessuno aveva capito che tipo di giocatore era Michael. Nel momento in cui viene battuto, si rimette in condizione di correre dietro Taylor, stacca un metro abbondante da terra e plana sulla testa dell’altro. Una delle stoppate più incredibili che abbia mai visto.

game over

La palla torna in mano a Taylor ma uno contro uno a livello collegiale Michael è imbattibile. Finita l’azione si volta verso Calipari e dice: “Sorry Coach”. Di cose strane l’allenatore di Kentucky ne ha viste, ma delle scuse per aver fatto la giocata più determinante della partita non le aveva mai ricevute. Alla fine della partita, con Kentucky finalmente vittoriosa, Calipari si mette a riguardare alcune partite della stagione. Il verdetto è inappellabile e qualche giorno dopo dirà:

“Se non avessimo avuto Michael in squadra non ci saremmo andati nemmeno vicino al titolo”.

Adesso però è il momento di diventare grandi davvero. La notte del draft 2012 è storica perché per la prima volta da quando esiste l’NBA le prime due scelte ad un draft hanno frequentato la stessa università. Anthony Davis va a New Orleans e Michael Kidd-Gilchrist a Charlotte.

Coach Cal insieme ai suoi fenomeni

Bene, ma se ai tempi del college il ragazzo stava migliorando la sua espressività in pubblico, la notte del draft è teatro di una tremenda ricaduta. Dopo aver stretto la mano a David Stern si presenta dal solito giornalista. Riesce a dire sì e no due parole di senso compiuto, che convincono l’intervistatore a non forzare la mano, e limitarsi a un paio di domande. Almeno il concetto di pressione non è intrinseco nei Bobcats, dal momento che sono reduci da una stagione con 7 partite vinte a fronte di 59 L sul calendario. Se non fosse stata la stagione del lockout si rischiava di scomodare i Sixers ‘72-’73, detentori assoluti del peggior record nella storia con ben 73 (SETTANTATRE) partite perse. Il ragazzo non poteva capitare in franchigia migliore; tutti si aspettano un suo contributo ma sono disposti ad aspettarlo. Di aspettare però non è il caso per Michael. A Novembre 2012 fa registrare una prova da 25+12, il più giovane di tutti i tempi a riuscirci, dietro solo a Lebron James. La prima stagione va anche abbastanza bene: salta appena 4 partite, parte sempre in quintetto, chiude con 9 punti e 5,8 rimbalzi di media, e viene inserito nell’All rookie Second Team. Insomma un impatto che può far ben sperare per il futuro. Qui secondo me emerge il lato romantico di questa vicenda: se andate a controllare nel sito della NBA troverete una dettagliata presentazione del suo primo anno nella lega, dopo di quello niente. Il ragazzo ha firmato l’estensione contrattuale per un altro anno, ha contribuito a portare i Bobcats ai playoffs dopo tre anni di assenza, è un elemento necessario nello scacchiere di coach Clifford. Eppure non c’è scritto niente. Mi viene in mente il finale dell’Odissea, dove Ulisse torna finalmente a casa e la prima cosa che dice a sua moglie, una volta che l’ha riconosciuto, è che deve ripartire. E quel brav’uomo di Omero pensa bene di non raccontarci di un viaggio che conduce il prode paladino di Itaca ai confini del mondo. D’altronde è così: gli eroi non sono tali perché combattono per sempre, ma perché quando lo fanno tendono a farlo notare. Michael Kidd-Gilchrist ha la tempra di un eroe moderno, e come tutti gli eroi è perseguitato dalla sfortuna. All’inizio di questa stagione ha firmato un contratto da 52 milioni di dollari in quattro anni, nonostante la stagione precedente avesse saltato un trentina di partite per infortunio. Tutti credono in lui, ma qualcuno ha deciso diversamente. Si lussa la spalla destra in preseason, torna in campo dopo quasi tre mesi, e passa sul parquet il tempo di accorgersi che effettivamente di miglioramenti se ne vedono. Mark Price, assistente di Clifford, ha preso e buttato via la meccanica di tiro di Kidd-Gilchrist, costringendolo a modificare i suoi movimenti sia in fase di ricezione che in fase di spinta. Insomma ha praticamente insegnato a tirare a un giocatore NBA, il che vi fa capire quante sfaccettature ha la pallacanestro oltreoceano. Michael gioca 7 partite dimostrandosi migliorato con la palla in mano e sempre ossessivo quando sono gli altri a voler fare canestro. L’11 Febbraio gli Hornets (nel 2014 il nome è tornato ad essere Charlotte Hornets) fanno visita ai Pacers. La partita procede bene per i ragazzi di Clifford, ad un certo punto Kidd-Gilchrist si accascia a terra. Si tocca la spalla destra, non riesce a piegarla e gli fa malissimo.

La sentenza è impietosa: out for the season. Gli Hornets perdono un tassello fondamentale per la rincorsa ai playoffs e lui si dispera nel suo silenzio. Incapace di urlare tutta la sua rabbia.

“È il più intelligente di tutti, è un gran lavoratore, legge il gioco come nessuno. Voi guardate i numeri ma fateci caso; se c’è lui vinciamo se non c’è quasi sempre perdiamo”.

Sembrano le parole di Calipari e invece sono quelle di Clifford, quando gli hanno chiesto di commentare il ricco ingaggio offerto al prodotto di Kentucky. Un giorno tornerà e per gli attaccanti della lega non sarà un bel giorno. Noi a malapena ce ne accorgeremo, il silenzio a volte vale più di mille parole, e se Achille avesse detto quello che pensava circa la conquista di Troia probabilmente non sarebbe morto così presto. Ma nessuno si ricorderebbe di lui.

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Pubblicato da
Paolo Stradaioli

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