Categorie: Primo Piano

Draymond Green : il viaggio sul tram

13 Marzo 1953. Campo d’allenamento del Botafogo.

Nilton Santos ha sempre pensato di non avere limiti. La natura aveva costruito intorno alla sua anima un corpo perfetto. Una macchina collaudata alla perfezione e disegnata minuziosamente in ogni sua singola sfaccettatura. Chiamato da tutti “Enciclopedia” perché aveva una soluzione per qualsiasi problema. Un terzino dotato di una tecnica da numero dieci, una straordinaria propensione al sacrificio e un’incredibile voglia di strappare la palla dai piedi dell’avversario. Tutte queste doti governate da un cervello che aveva già compreso il gioco del calcio prima che Nilton potesse iniziare a praticarlo.
In quel Marzo tiepido il Botafogo avrebbe dovuto giocare un amichevole contro una squadra amatoriale locale. Il condizionale è d’obbligo poiché al Serrano di Petropolis mancano alcuni giocatori. Come nella più classica delle storie di calcio brasiliano si cercano improbabili giocatori ai lati del campo. Un ragazzo dall’aria distratta guarda in direzione del campo.

“Tu, lì infondo… Vorresti giocare?”

“Si volentieri.”

“Dove ti metti?”

“Sarei ala destra”

Nilton Santos vede dirigersi verso di lui la persona più lontana possibile dall’essere un giocatore di calcio. Il ragazzo è talmente esile che la maglietta a maniche corte scende quasi fino ai polsi e, cosa non trascurabile, ha le gambe completamente storte. Una poliomelite aveva compromesso totalmente il suo modo di correre. I piedi si guardano come a supplicare pietà l’uno all’altro.
Nilton ride di gusto con la mancanza di rispetto caratteristica dei più grandi.
Come la palla arriva al ragazzo, “Enciclopedia” gli va incontro per fermarlo ma viene fintato, sbilanciato e prima che se ne renda conto è già partito il cross. La seconda volta il ragazzo gli fa passare la palla in mezzo alle gambe. Nilton lo stende. I pochi spettatori che assistono alla partita scoppiano in una fragorosa risata.
Nilton corre verso la panchina:

“Tesserate subito questo ragazzo”

Il presidente del Botafogo lo apostrofa con fermezza.

“Ehi tu, come ti chiami?”

“Manoel Dos Santos, ma tutti mi chiamano Garrincha”

http://www.succedeoggi.it/

 

Settembre 2008. Michigan State

Coach Tom Izzo sta dirigendo l’allenamento con il furore che lo ha sempre contraddistinto. Michigan State viene spesso ricordata per il titolo vinto con Magic Johnson in finale contro Larry Bird. Il personaggio cardine degli Spartans è però il coach italo-americano. Dal primo anno, nel 1983, ha collezionato un titolo NCAA nel 2000 ed ha il 70% di percentuale di vittore. Un’istituzione. In quell’anno però ha bisogno del più classico dei “go to guy”, ovvero di quel giocatore che possa permettere alla squadra quel salto di qualità di cui tanto ha bisogno.
L’allenamento raggiunge la fase più adrenalinica nel cinque contro cinque finale.
In quel momento la porta della palestra si apre senza far rumore.
Un ragazzo di due metri decisamente sovrappeso si avvicina ad Izzo con fare rispettoso.

Coach, potrei far parte della squadra?”

Un fischio interrompe lo schema d’attacco della squadratitolare.
Il coach si gira verso il ragazzo:

“In che ruolo vorresti giocare”

“Sarei un’ ala grande”

Un frastuono si alza fragoroso in quella che rappresenta una delle palestre più popolari degli Stati Uniti. Non è un urlo di gioia, non è un’esultanza, non è un coro d’incitamento. Una risata, il segno dispregiativo che più caratterizza la nostra specie. Il gesto più vile nel senso più assoluto del termine. Ridono tutti, ride il centro titolare che è alto 20 centimetri più del ragazzotto ciccione, ride il play maker della squadra, ma ride soprattutto l’ala grande titolare, Delvon Roe, vera stella della squadra nonché leader incontrastato. Quel ragazzotto è troppo basso e troppo grasso per ricoprire il suo ruolo. L’unico ad aver preso seriamente le parole del ragazzotto è proprio Coach Izzo. Immediatamente lo getta in campo tra le riserve, dovrà marcare Roe.
Nei dieci minuti che seguiranno Izzo assiste a qualcosa che non aveva mai visto. La stella della sua squadra viene cancellata completamente dal campo da quel ragazzotto con la faccia simpatica. Ha un’intelligenza per il gioco senza eguali, in difesa è praticamente perfetto e riesce a capire con secondi di anticipo quello che i suoi avversari hanno in mente di fare. Inoltre sa guidare il contropiede con la maestria di un grande playmaker. Di nuovo quel fischio.

“Ragazzo, hai un nome, come ti chiamano le persone”

“Non ho un soprannome. Mi chiamo Draymond Green”

Giugno 2015. Cleveland.

Draymond Green tiene stretto il trofeo più importante della sua vita. Campione NBA da protagonista è riuscito a sconfiggere tutti: chi non credeva in lui, Lebron James, il sistema. Soprattutto, ha battuto la natura, proprio quell’entità che aveva frettolosamente deciso che lui non dovesse avere le caratteristiche per poter giocare a quello sport in cui eccelle in ogni sua accezione.

20 Gennaio 1983. Alto da Boavista (Ospedale di Rio de Janeiro)

Garrincha tiene stretta l’ultima possibilità che ha di rimanere in vita. L’alcol che gli scorre nelle vene ha fatto marcire tutto quello per cui aveva combattuto. Era riuscito a sconfiggere ogni opinione, qualsiasi tipo di fallimento e quel dolore alle gambe che lo ha perseguitato per tutta la sua straordinaria carriera.
Morirà da lì a pochi minuti per un enfisema polmonare, a soli 49 anni. Da solo. Abbandonato da un Brasile che lo ha dimenticato troppo in fretta.

La vita prova a buttarti giù dal primo istante in cui nasci. Alle volte pensi di aver vinto la guerra. Purtroppo è solo una battaglia.

Nella vita, come in tram, quando ti siedi è il capolinea.

Gabriele Manieri
@Manieri11

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NbaReligion Team

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