Rannicchiato in un angolino del suo ristorante italiano preferito, in una posizione tutt’altro che comoda a giudicare da come tiene divaricate le lunghe gambe, siede un ragazzone texano con i corti dread e l’aria rilassata. Armeggia col cellulare mentre ha davanti a sé un piatto di tortellini e del pane col formaggio. In sottofondo risuona uno dei suoi pezzi preferiti, “Earned It”, del cantante canadese R&B che si fa chiamare The Weeknd. L’avventore di cui stiamo parlando è Myles Turner, il rookie degli Indiana Pacers che dopo l’inizio a singhiozzo è prepotentemente balzato all’attenzione di tutti gli appassionati, anche quelli meno attenti alle vicende della squadra guidata da Larry Bird e Kevin Pritchard. Il simpatico spaccato di vita americana di un tardo-adolescente è invece una cortesia di Candace Buckner, che in quanto insider della squadra di Indianapolis ha accesso a queste e ad altre informazioni. Così ha deciso, dato l’interesse crescente sul ragazzo, di condividerle con tutti noi direttamente dalle pagine dell’IndyStar, dove scrive.
Con tre quarti di regular season andati in archivio, Myles Turner, l’ala forte titolare dei Pacers, è finalmente emerso come una delle realtà più intriganti di una classe di giocatori usciti dall’ultimo draft che per profondità e qualità minaccia seriamente di rispettare le enormi attese suscitate in sede di previsione. Se è vero che Karl-Anthony Towns appare certe volte un All-Star fatto e finito, che Kristaps Porzingis sta mostrando dosi di durezza mentale sorprendenti per uno che veniva descritto più come il giovin signore di Parini che come un guerriero szlachta, o che Jahlil Okafor accumula assiduamente cifre considerevoli, nessuno può sapere davvero quali siano, ammesso che esistano, i limiti del prodotto di Texas. Dice coach Vogel:
«non so quanto rapido e ampio sarà il suo sviluppo nelle ultime gare, ma questo sarà un grande fattore nel determinare il livello che potremo raggiungere.»
In effetti non capita a tutti di poter disporre di un 6’11” che sia in grado di rifilare 6 stoppate ai super-atleti dei Thunder e nemmeno 48 ore dopo assumersi la responsabilità di segnare due jumper, rispettivamente da 15 e 19 piedi, nei momenti decisivi della contesa. A dirla tutta in questa seconda circostanza portano la sua firma anche i due liberi della sicurezza, quelli necessari per mandare la partita di Orlando ai titoli di coda. Ciò che stona in tutto questo è che Turner resta pur sempre un ragazzino di 19 anni che non ha mai perso l’abitudine di comprare vestiti H&M dagli scaffali del negozio, come i comuni mortali, e che nel tempo libero non perde occasione per gustarsi una puntata di SpongeBob. Non dovrebbe potersi permettere la noncuranza dei veterani nei finali di partita. Nelle 7 uscite che vanno dal mini road trip fra l’Oklahoma e la Florida e la gara di Cleveland del 29 febbraio, Turner ha avuto un complessivo 14-19 dal campo nei quarti quarti. E la tendenza è sembrata ancora più accentuata negli ultimi 5 minuti delle suddette partite. Dice:
«È tutta una questione di fiducia nei finali di partita. Non puoi essere nervoso. Devi fare quello che devi fare. Perciò io so che se mi arriva la palla e mi trovo nella condizione in cui è necessario che io segni, farò in modo di segnare. Se sono un’opzione (dell’attacco – ndr), non mi nascondo ma faccio di me una reale possibilità per il gioco della squadra.»
Sempre contro OKC, con i Pacers sotto di 3 e meno di un minuto da giocare, Myles dopo essere uscito correttamente in angolo, oltre l’arco dei 3 punti, ed aver raccolto un passaggio all’altezza delle stringhe delle scarpe, senza esitazione alcuna ha scagliato nella retina la tripla del pari. La prima della sua carriera, al terzo tentativo assoluto. Tornando in difesa si è poi permesso di alzare tre dita al cielo con la faccia di pietra di chi è ormai abituato a guastare le serate dei 18000 della Chesapeake, proprio di fronte a quel Kevin Durant al quale da ragazzino, e non senza riverenza, aveva chiesto l’autografo sul paio di Starbury One numero 44 che ancora conserva da qualche parte, nella cameretta del ranch di Bedford, nel Texas. Sì, perché il compito principale di Turner, da buona matricola, è ancora quello di portar via dal frigo dello spogliatoio degli ospiti abbastanza gatorade da non far venire sete ai compagni più anziani sul bus per l’aeroporto. Recentemente Paul George si è espresso così sullo spazio crescente conquistato dal rookie:
«La sua qualità più rilevante è che non ha paura. Non ha mai paura. Non resta mai in disparte rispetto al flusso della gara. Fa domande, vuole imparare, vuole diventare migliore, lavora duramente. È tutto ciò che puoi desiderare in un giovane. Lui ce l’ha e sta diventando speciale per noi.»
Le cifre del giocatore in stagione sono apparentemente modeste dato che parlano di 10.4 punti e 5.1 rimbalzi in appena 22.7 minuti di gioco. Niente di eccezionale, verrebbe da dire. Se non fosse che tali numeri sono pesantemente viziati dall’inserimento graduale (oltre che dal pollice fratturato in novembre) che Frank Vogel ha studiato per lui. Proprio come a suo tempo fece con Paul George, il coach ha centellinato il suo impiego nella prima parte di stagione, permettendogli così di calarsi nella nuova realtà senza grossi sconvolgimenti. Se all’inizio non finiva mai le partite fra i cinque sul parquet, nella serata di Miami di fine febbraio, dopo essere stato cavalcato in post per lunghi tratti, si è visto recapitare persino il pallone del +3 a 8 secondi dal termine. Seppure il gancetto contro le braccia protese di Whiteside che ne è uscito sia stato ingenerosamente sputato dal ferro, quel che più conta è che Turner ha saputo in breve tempo conquistare la fiducia dell’allenatore, spingendolo a scegliere uno schema espressamente disegnato per lui in vista del possesso chiave del match. Sempre George pensa che il giovane compagno possa costituire una solida terza opzione, soprattutto quando cominceranno i playoff:
«Ogni volta che il suo numero viene chiamato, lui fa grandi giocate.»
Quello commesso all’American Airlines Arena resta uno dei rari errori di Turner sotto pressione. Nei quarti quarti in stagione ha un consistente 42-71 dal campo, che corrisponde al 59.2%. Myles non lascia niente al caso, è molto esigente con se stesso e finisce per dubitare spesso del suo operato. Quando viene sgridato, fa cenno di aver capito ma non sono mai critiche che egli non abbia già sentito all’interno della sua testa. Forse è stata proprio questa ostinazione a costringerlo in palestra, per provare e riprovare quel tiro da fuori che oggi appare automatico come un distributore di merendine. Dal mid-range prende il 55.9% di tutti i suoi tiri (che realizza con un dignitosissimo 41.5%). Ed è proprio questa capacità di segnare da fuori con una certa regolarità a renderlo potenzialmente immarcabile.
Credits to: stats.nba.com
Se avete dimestichezza con le partite dei Pacers, certamente vi sarà capitato di ammirare la sua classica azione in cui riceve palla a 5-6 metri dal canestro, fronteggia immediatamente il ferro con un mezzo giro dorsale sul perno e insacca comodamente il jumper con naturalezza disarmante. Piccolissimo particolare: esegue l’intera sequenza a una velocità difficilmente riscontrabile in un lungo. Ricorda un po’ forse LaMarcus Aldridge per la pericolosità fronte a canestro al di fuori dell’area. Rispetto all’illustre collega però Turner tende a fermare la palla nelle sue mani per un periodo di tempo estremamente ridotto: fra i giocatori che vanno almeno in doppia cifra nei punti segnati è terzo per minor numero medio di secondi impiegati per tocco con 1.23 (dietro a Marvin Williams e DeAndre Jordan, dei quali però segna più punti per possesso, precisamente 0.298) e secondo per numero medio di palleggi per possesso (sempre dietro a Jordan) con 0.27. Anzi, consultando i dati di stats.nba.com, si può affermare che Turner prenda l’80.7% delle conclusioni senza palleggiare (con una percentuale di realizzazione del 52.7%): segno evidente del suo pieno inserimento all’interno degli ingranaggi di squadra. Dove deve migliorare – e ci mancherebbe altro non fosse così alla sua età – è nei movimenti vicino a canestro. Ha mani rapide per la ricezione in situazione dinamica tuttavia non possiede un numero sufficiente di mosse per andare a sfidare i bigmen avversari direttamente nel loro ufficio. A volte abbozza un timido gancetto destro o si produce in un improbabile dream shake, molto poco “da sogno” e tanto agitato, quasi sgraziato. Ma glielo perdoniamo. Anche qui, a 19 anni, appena si intravedono le sue reali possibilità. Fa molto movimento, porta un gran numero di blocchi ma spesso corre a vuoto. D’altra parte devi essere molto competente per occupare correttamente lo scacchiere di un coach sopraffino come Vogel. Dalla partita di domenica 17 gennaio a Denver, più o meno il momento in cui lo staff tecnico ha ritenuto fosse finito il periodo di svezzamento, Turner ha fatto registrare 13.7 punti, 6.3 rimbalzi e 2 stoppate col 50.4% dal campo in 29.2 minuti di utilizzo. Come emerge chiaramente dai dati, non si tratta esattamente di un prototipo di animale da rimbalzo, almeno non ancora. L’esuberanza giovanile non lo porta a ringhiare al ferro ad ogni assalto. Ha però doti di tempismo e coordinazione assolutamente non comuni, che si traducono in una specie di macchina da stoppate. Il suo atteggiamento difensivo va un po’ a corrente alternata. Alcune volte sembra sapere esattamente dove posizionarsi sul pick & roll avversario scoraggiando le velleità dell’attaccante di raggiungere il pitturato, altre omette quasi completamente movimenti e rotazioni abbastanza semplici. Sempre per stats.nba.com il suo avversario diretto tira con 8.1 punti percentuali in meno rispetto alle proprie medie stagionali entro i 6 piedi dal canestro. Tale tendenza non si mantiene invece avvicinandosi ulteriormente al ferro, anzi. Un esito così curioso potrebbe indicare anche una sorta di incapacità residua (che permane cioè dai tempi della spensierata giovinezza) di mantenere la concentrazione per tutti e 24 i secondi dell’azione.
Se a tutta questa grazia di Dio poi dovesse aggiungere su base continuativa anche un affidabile tiro da tre punti (in pratica allontanando di un passo l’attuale range) non resterebbe che augurare buona fortuna alle difese avversarie che di volta in volta si cimentassero nella soluzione di un rebus, quello presentato dal 33, di difficile lettura.
Il ragazzo si farà: le qualità ci sono e l’applicazione non è mai mancata. Basta dare un’occhiata alla sua storia per comprenderlo, alla solidità della famiglia da cui proviene, che non è affatto scontata in certi contesti. Papà David e mamma Mary al microfono di Candace Buckner affermano con orgoglio di aver cresciuto il maggiore dei figli in modo semplice, affinché si meritasse un’educazione da free (libero da mutuo) college e un onesto lavoro. Così emergono un poco alla volta dettagli rivelatori sull’educazione ricevuta da Myles. Nella casa di Bedford, i Turner tenevano spenta la TV dal lunedì al giovedì e nascondevano la PlayStation nel garage fino all’estate, cosicché Myles potesse fare qualcosa che ai ragazzi della sua generazione poteva sembrare folle: giocare all’aria aperta. Quando aveva 5 anni papà David comprò un canestro ma si guardò bene dal posizionarlo nel vialetto di casa finché non fu in grado di metterlo all’altezza regolamentare, 3.05 – idea di Mary. Proprio dall’esempio della madre, Myles ha imparato ad apprezzare il fremito caldo della sfida, di qualunque natura essa sia. Uno dei passatempi preferiti di casa Turner era giocare a Slaps, il nostro “scaldamani”: Mary, quando era il suo turno, metteva la sveglia alle 2 di notte per sorprendere il figlio ancora addormentato e assestare il colpo decisivo. Non stupisce che nel ranch di famiglia non ci siano mensole con sopra premi di consolazione.
«Non conoscete mia moglie» dice David ridendo sotto i baffi. Se la mamma gli ha trasmesso lo spirito competitivo, al padre dobbiamo la passione per il gioco. Quando è in città e giocano i Pacers è possibile trovarlo seduto al suo posto, nella sezione 15 della Bankers Life Fieldhouse, dalla quale può analizzare ogni momento della partita con le dita intrecciate sulla pancia e l’auricolare bluetooth all’orecchio destro. Non è stato il primo coach di Myles – come ogni storia di atleti afroamericani che si rispetti vorrebbe. Non sedeva sulla panchina della squadra alla YMCA quando i genitori dei ragazzini avversari istruivano i figli a fermarsi all’altezza della metà campo per evitare che Turner stoppasse tutti i loro tentativi di portare a casa dei punti. Però è stato quello che gli ha insegnato il corretto modo di tirare a canestro. David, alto 6’4”, non esitava a schiaffeggiare via senza pietà i deboli tentativi di jump shot del piccolo Myles che partivano all’altezza del suo ombelico. No mercy. «E toccava al ragazzo andare a riprendersi la palla» dice. «Una cosa che lo faceva molto arrabbiare.» Myles allora era basso, con una pancia piuttosto rotondetta. Correva faticosamente su e giù per il campo con l’andatura a punte in dentro di chi è nato col metatarso addotto. Nonostante questo difetto, David non poté fare a meno di notarne gli istinti. Così fece Ken “Slim” Roberson, anche se la prima volta che si conobbero all’interno dell’IHOP tutto quello che vide fu un pubescente tracagnotto con due guance pronunciate, buone soltanto per essere pizzicate. «Era davvero paffuto» dice Roberson, che in passato fra gli altri aveva allenato Karl Malone, LaMarcus Aldridge e Chris Bosh. «Pensai che sarebbe diventato un ragazzo sovrappeso.» Ma solo due anni più tardi, quando ne compì 14, era un tipetto allampanato, alto 1,92. Era finalmente pronto per lavorare con Roberson. Tuttavia portava ancora con sé un fastidioso, oltre che vistoso, problema: non tirava su le ginocchia quando correva, apparendo più come un fondista con gli sci ai piedi che il nuovo prodigio dello Stato della Stella Solitaria. Così Roberson lo sottopose alla stessa cura per la corsa che aveva riservato anni prima a Malone. Quasi sempre l’allenamento cominciava sulla pista di atletica, poi era la volta della sala pesi e solo alla fine il lavoro si spostava in palestra su movimenti di post basso e gioco fronte a canestro. Turner rimase comunque nell’anonimato del circuito AAU di Dallas. David e Slim ricordano ancora di quando il coach di uno dei più illustri programmi della zona, un uomo così rispettato da essere chiamato “il padrino”, descrisse le caratteristiche del prospetto che stava cercando: un tipo alto, smilzo e impacciato (ovviamente con del talento per il gioco, questo è scontato). Turner aveva tutte queste caratteristiche, compresa evidentemente la dote dell’invisibilità visto che nonostante stesse tirando a canestro pochi metri più in là, il padrino pareva non accorgersene. Non c’era grosso clamore intorno al giovane, nessuno credeva in lui, tranne Slim e i suoi genitori. Ad un certo momento nemmeno Myles Turner credeva in Myles Turner. Oggi invece che è arrivata la fama e con essa le attenzioni di brand come Shifman Mattress, Sprint o Nike, racconta con estrema serenità di quella volta alle medie in cui in seguito al regolare provino fu inserito nella squadra B e fu tenuto quindi fuori al primo allenamento con la varsity della Trinity High School. Negli anni del liceo ha sempre dovuto guadagnarsi sul campo ogni centimetro di reputazione. Ogni volta c’era un ranking da scalare perché il suo nome compariva troppo in basso. Veniva costantemente sottovalutato dagli addetti ai lavori. I ragazzi più grandi della scuola poi lo deridevano per il modo decisamente goffo che aveva di correre ma lui non aveva tempo da perdere dietro a queste sciocchezze. Doveva migliorare, ne aveva il potenziale. Si teneva occupato come poteva. Ad un certo punto giocava in quattro squadre contemporaneamente. Ma non migliorava abbastanza velocemente. Non per i suoi standard. Quando vedeva alla TV Shaq e D-Wade trionfare alle finals, a differenza dei coetanei-colleghi non sperava che un giorno il destino di sollevare il Larry O’Brien Trophy potesse toccare anche a lui.
«Non ho mai pensato di essere forte abbastanza. Adoravo guardare la NBA… ma non ho mai pensato che sarei stato realmente capace di andarci un giorno.»
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Come tutti i ragazzi di quell’età, Turner fece conoscenza con i turbamenti dell’adolescenza e anche il basket sembrò tutto a un tratto un fardello insostenibile. Desiderava essere normale. Chiedeva semplicemente di poter passare il tempo al centro commerciale, come gli altri. Voleva smettere con la pallacanestro. Ma prima della stagione da sophomore accadde un imprevisto, negativo sul momento come tutti gli imprevisti ma che poi si rivelò un’autentica benedizione: Turner si ruppe la caviglia. «Ero davvero pronto a smettere prima di farmi male, perché ero stressato, ma dovendo restare lontano dal gioco per 6-7 mesi realizzai che non potevo più vivere senza. Avevo bisogno di fare canestro.» Saltò i workout estivi ma recuperò in tempo per la stagione da junior.
L’estate successiva alla fine del liceo Turner si sentiva come una forza che nessuno era più in grado di arrestare. Balzò al numero 2 nel ranking di Espn dietro a Jahlil Okafor. Improvvisamente Myles Turner era rispettato. «Fu quando pensai che realmente ce l’avrei potuta fare» dice. Da allora la sua autostima è notevolmente cresciuta. Aveva bisogno di fiducia nel primo anno di college a Texas, dove era arrivato con un carico enorme di aspettative sulle spalle, ma finì per fare il backup del junior Connor Lammert. Ogni altro gettonato prospetto d’America si sarebbe imbronciato. Non Turner che ai Longhorns portava entusiasmo dalla panchina guidando la Big 12 in stoppate (89) e defensive rating (86.3). In 22.2 minuti di impiego chiuse la sua unica stagione universitaria con 10.1 punti, 6.5 rimbalzi e 2.6 stoppate. Dichiaratosi per il draft c’erano ancora delle perplessità sul suo stile di corsa nonostante l’agente Andy Miller ritenesse che per il proprio assistito non si sarebbe andati oltre le prime 15 scelte. Miller si mise subito al lavoro per dimostrare l’infondatezza del pregiudizio legato ai problemi anatomici di Turner. Il nativo di Bedford passò quasi 3 giorni interi all’Hospital of Special Surgery di New York sottoponendosi a test su anche, ginocchia, caviglie e articolazioni varie. Tutto venne controllato nei minimi dettagli.
Scelto infine con la 11 dai Pacers, che – come spesso capita loro – sanno riconoscere il talento quando lo vedono, ha impiegato non più di qualche mese per far parlare di sé ben oltre la Circle City. In novembre si è fratturato il pollice ed è stato costretto a saltare 21 partite. Poco male, ha continuato a lavorare sul suo gioco anche con la mano fasciata. Una volta rientrato in squadra in pianta stabile, a partire dalla gara interna del 28 gennaio contro gli Hawks coach Vogel gli ha aperto anche le porte del quintetto. Il resto è storia di questi giorni.
Stan Van Gundy ultimamente si è sbilanciato così sul 33 di Indiana:
«Si dovrebbe correttamente affermare che sia uno dei più, se non proprio il più sorprendente giocatore del draft. Penso che tutti sapessero abbastanza bene che era destinato a diventare un buon giocatore ma credo anche che un sacco di gente pensasse che ci sarebbe voluto più tempo di così e invece sta giocando molto bene.»
Per essere uno che ha preso in mano il primo playbook degno di questo nome ad Austin, Texas, solo una manciata di mesi or sono non se la cava affatto male. Ovviamente sta ancora imparando ed a volte continua a dimenticare passaggi semplicissimi, come un blocco all’interno di uno schema. In queste circostanze i compagni sono più che lieti di insegnargli the right way. C.J. Miles chiosa:
«Sta giocando come un uomo maturo, così noi lo trattiamo da uomo maturo.»
Quando sbaglia, sa immediatamente di aver penalizzato il resto della squadra e per questo si mostra arrabbiato. Ma non si butta mai giù completamente. Ed è destinato a farlo sempre meno, visto il radioso futuro che lo aspetta.
Tommaso Mandriani