È veramente raro che alla radio passino un pezzo del genere ma a volte capita. “The ghost of Tom Joad” è un pezzo in cui il Boss, con la sua voce viscerale, accompagnata dall’armonica, riesce sempre a trascinare con se in quel viaggio verso la terra promessa, alla ricerca di un mondo migliore, contro le ingiustizie e contro i soprusi. Ma per raccontarvi la storia che leggerete abbiamo bisogno sì di questa canzone, ma in una versione meno melodica/malinconica e decisamente più aggressiva: abbiamo bisogno del rapcore di Zack de la Rocha e dei Rage Against the Machine. Se conoscete il genere è un tumulto di rabbia, rivoluzione, aggressività e lotta, tutti sostantivi che si adattano alla perfezione al nostro personaggio.
Queensbridge non è proprio indicata come la zona migliore da visitare nelle guide turistiche della Grande Mela, ma almeno metaforicamente ci addentriamo nel più grande complesso di case popolari che sia mai stato messo in piedi negli interi Stati Uniti d’America. La location non aiuta e l’obiettivo di crescere come cittadino modello è reso ancora più difficile se a darti l’educazione è un padre che come lavoro ha fatto il marines, come sport ha praticato la boxe e come compagna di vita ha avuto una bottiglia dal contenuto ad alto tasso alcoolico. È il 13 novembre del 1979 quando viene alla luce l’amico dei panda, la pace nel mondo, insomma Ron William Artest. L’infanzia non è delle più agevoli: la madre continuamente maltrattata da Ron Senior (dal quale si separerà ben presto) e le continue risse a cui il piccolo del Queens è costretto ad assistere e nelle quali spesso e volentieri compete, partoriscono una rabbia e una ferocia piuttosto pericolosa sempre pronte a sfociare in turbe mentali particolarmente serie. Se avete mai visto Will Hunting, di Gus Van Sant, potete comprendere quanto possa essere importante tradurre tanta rabbia in qualcosa di utile e formativo grazie all’aiuto di una guida, di un mentore. Ma mentre il compianto Robin Williams riesce a redimere e far trovare la retta via a Matt Damon, l’unico vantaggio, non di poco conto, che Ron trae dall’incontro con l’assistente sociale che vede per la prima volta a otto anni, è quello di trovare la strada per lo sport che lo accompagnerà per molto tempo e non di certo quello di controllare il suo temperamento. New York è il posto giusto se volete competere e dimostrare di che pasta siete fatti nel Basket. Ron mette in mostra le sue doti già dalla High School: eletto giocatore dell’anno della città capitale mondiale del Basket, nonostante una marea di offerte dagli atenei più importanti, decide di restare a casa e di iscriversi alla St. John’s University. Ma se al college, insieme a un Bootsy Thornton visto e ammirato alle nostre latitudini, dimostra tutta la sua propensione al gioco, è nei playground della Grande Mela che dà vita alla leggenda di “TrueWarrior”. Prima di arrivare ad Harlem, tra la 155esima strada e Frederick Douglass Boulevard, in quel tempio del gioco chiamato Rucker Park, dove Earl Manigault ha depredato centinaia di dollari appoggiati sulla base superiore del tabellone, Ron si è fatto un nome ed una reputazione partendo da “The Cage”, dove gli avversari non sono propriamente dei gentiluomini di formazione oxfordiana e dove la regola principale è “no blood, no foul”. La caratteristica principale che emerge dal gioco di Ron Artest è sicuramente la capacità di difendere: si muove sul campo come Muhammad Alì nel ring di Kinshasa e l’aggressività, mista alla velocità di piedi ereditata dal padre boxeur, lo rende uno dei prospetti più interessanti del college Basket. È il 1999 quando Ron, inserito nel primo quintetto della Big East, decide di rendersi eleggibile al Draft. Artest non si smentisce neanche in un momento così importante e il suo astensionismo ai meeting delle matricole (preferendo trascorrere le nottate in compagnia del gentil sesso in attività ludico lavorative di dubbia moralità) fa scendere il suo indice di gradimento nelle franchigie Nba.
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A sceglierlo sono i Bulls alla 16, una chiamata più tardi di quel Frederic Weis che, dopo Sidney 2000 e lo stupro cestistico subito da Vince Carter , decise di averne viste abbastanza optando per l’aborto dello sbarco in NBA (come dargli torto, ndr) . Ron passa i primi tre anni nella terra orfana di Michael Jordan finché non approda nello stato del basket per eccellenza: l’Indiana. I Pacers di Reggie Miller, the Abuser Jamaal Tinsley, Jermaine O’neal e Stephen Jackson sono un ottimo mix di talento, di esperienza e di un altro ingrediente che, se utilizzato in eccesso, può rovinare la pietanza, ossia l’irritabilità. Immaginatevi il sole di agosto, la sabbia bianca, un mare splendido. La prima cosa che la maggior parte delle persone farebbe se si trovasse in un luogo del genere sarebbe quella di stendere l’asciugamano, piazzando le cuffie nelle orecchie per ascoltare della buona musica rilassandosi al sole prima di fare un bel tuffo rigenerante. Anche Ron immaginiamo la pensi allo stesso modo, con la differenza che, nell’episodio che passerà alla storia della NBA come uno dei momenti più bui, non è agosto ma novembre e al posto del mare e del sole cocente, ci sono migliaia di persone ed un parquet. Siamo al Palace of Auburn Hills di Detroit e dopo uno scambio di opinioni di livello culturale piuttosto evoluto con Big Ben Wallace, Artest stende figurativamente il suo asciugamano sul tavolo dei cronometristi, indossa un paio di cuffie da telecronista e resta in attesa che gli uomini in grigio amministrino la controversia compilando una constatazione che fino a quel momento aveva avuto ben poco di amichevole. Normalmente la reazione nei confronti di chi vi offre una birra al Pub è di gratitudine? Beh, non è quella di Artest, soprattutto se la birra gli viene lanciata dagli spalti da un tifoso dei Pistons che non passerà alla storia per la saggezza di quel gesto.
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Al posto del rumorista del palazzetto, la prima canzone a venirci in mente in quella serata di autunno sarebbe stata “Dune Buggy”, colonna sonora dell’irresistibile film “Altrimenti ci arrabbiamo” con Bud Spencer e Terence Hill. Una scazzottata da saloon che vede coinvolti oltre al pugile di Queensbridge, JermaineO’Neal e Steph Jackson, il tutto in diretta in tv nazionale. Uno spettacolo osceno, tanto più in un ambiente che dovrebbe trasmettere gioia, svago e serenità agli spettatori come un palazzetto dello sport. Parte la sospensione più lunga della storia della Lega: 73 partite filate senza vedere il campo per Artest e stagione finita. Nonostante tutto i Pacers arrivano ai playoff ed escono a gara 6 nel secondo turno; contro chi? I Detroit Pistons, ovviamente. Il rapporto tra Ron e i Pacers sembra rompersi in modo definitivo con i fattacci di quel 19 novembre 2004 e nell’estate successiva Artest viene ceduto passando prima per i Kings e poi per i Rockets, con cui alterna ottime stagioni a periodi di stanca, non a caso accompagnati da problemi di natura giudiziaria. Nonostante tutto la vita trova il modo di concedere una via per la redenzione anche a Ron che nel 2009 sigla il contratto più importante della sua carriera NBA: i Lakers di Kobe freschi vincitori del titolo contro i Magic di Howard e Co. Artest si erge a ministro della difesa di quella edizione dei gialloviola e mette una firma decisiva in ben due occasioni nel titolo in back-to-back per i losangelini. Prima il canestro a rimbalzo offensivo in gara 5 nella finale della Western Conference contro Phoenix, poi,contro gli acerrimi rivali di sempre, nella settima e decisiva gara contro i Boston Celtics di Pierce, Garnett, Allen e Rondo, mette a referto 20 punti, 5 rimbalzi e una difesa spaventosa contro chiunque gli si faccia incontro.
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Forse è stata la psicologia di coach Jackson che lo ha fatto sentire importante, forse è stato l’unico momento di lucidità in quella mente offuscata da mille problemi, forse è stata la sola e pura casualità a farlo trovare al momento giusto al posto giusto, vicino ad un Kobe enorme, o forse è stato il suo talento miscelato alla rabbia canalizzata per una volta nella direzione giusta a permettere a Ron di indossare un anello. Qualunque sia il motivo, comunque, il ragazzo proveniente da Queensbridge può entrare nel paradiso di coloro che vantano un titolo NBA con un ruolo decisivo.
Ma le sue avventure non finiscono certo qui,perché dal 2011, non prima di aver saldato tutte le pendenze che aveva con la polizia stradale per multe mai pagate, il caro vecchio Ron Artest risorge a nuova vita con il nome di Metta World Peace e, per festeggiare tale avvenimento,pensa bene di attentare alla carriera se non addirittura alla vita di un James Harden ancora in versione Thunder con una gomitata tanto terrificante quanto insensata.
Seguiranno esperienze ai Knicks, in Cina, a Cantù e ancora ai Lakers per l’uomo che è partito dal Queens, ha attraversato il mondo assieme al fantasma di Tom Joad alla ricerca di qualcosa di meglio di quello che la vita aveva preparato per lui trovando sempre e soltanto gli stessi demoni da combattere. “ Io ho paura solo di Dio e della morte”. Ecco Ron, pardon, Metta; francamente si era capito. E ora possiamo finalmente accantonare il rapcore e riascoltare il Boss e la sua armonica.
Checco Rivano