Dopo una breve pausa, è giunto il momento di tornare ad occuparci della nostra consueta rubrica dedicata alle più grandi squadre a non aver mai vinto l’anello. L’episodio di oggi ci vedrà tornare indietro sino alla fine dello scorso secolo, per descrivere le gesta di un’altra franchigia che è solo arrivata a sfiorare il successo tanto ambito. Vittima, tanto per cambiare, di alcuni dei più grossi cannibali dell’epoca moderna di questo sport, sia che essi indossassero la maglia numero 23 che quella numero 34, per non parlare della 8. Una squadra che è riuscita a mantenersi tra le eccellenze della Lega e ad andare vicina al titolo con due gruppi totalmente diversi tra loro, finendo però sempre col medesimo deludente risultato. Nella puntata di oggi ci dedicheremo infatti ai grandi Portland Trail Blazers, protagonisti ai massimi livelli tra l’inizio degli anni Novanta e del Duemila.
I Protagonisti
Come accennato nel paragrafo precedente, i Blazers ebbero due gruppi distinti per altrettanto cavalcate quasi trionfali. In ordine di tempo ricordiamo il volto della franchigia e leader in diverse categorie statistiche, quel Clyde Drexler che infiammò letteralmente il pubblico dell’Oregon. Al suo fianco il fedele scudiero Terry Porter, classico ed affidabile point-man, poi divenuto allenatore con alterno successo. L’elemento di congiunzione tra le due ere fu Cliff Robinson, decano del mondo NBA e guida delle squadra in un momento meno felice. Per quanto riguarda invece la seconda parte del periodo da noi analizzato, tutto nasceva e finiva dalla classe e dalle bizze (direttamente proporzionali) di Rasheed Wallace, vera croce e delizia del Rose Garden. Al suo fianco diversi nomi di spicco: l’enorme talento di Arvydas Sabonis, l’esperienza di Scottie Pippen ed un playmaker-realizzatore come Damon Stoudamire.
Allenatori
Quattro nomi nel lasso temporale in questione. A contribuire alla crescita del gruppo fu coach Mike Schuler, che vinse il trofeo di allenatore dell’anno al suo debutto sul pino nonostante una presentazione indimenticabile ai giornalisti che conteneva qualche infausto presagio. Il merito di aver lanciato i Blazers nella stratosfera NBA fu di un altro protagonista di questa rubrica, quel Rick Adelman che incominciò proprio da Portland la propria carriera di allenatore. L’interregno tra le due supersquadre vide PJ Carlesimo provare a rilanciarsi dopo il tentato strangolamento subito da Latrell Sprewell, mentre a guidare la squadra alle soglie del nuovo millennio fu Mike Dunleavy Sr, già head coach dei Lakers battuti dai Bulls nel 1991.
La Genesi
La genesi della squadra ebbe luogo, innanzitutto, dal Draft, in un ambiente ancora permeato dall’entusiasmo per la Blazermania scoppiata a seguito del titolo del non lontano 1977. Drexler venne selezionato con la scelta numero 14 nel 1983, un affare memorabile controbilanciato dalla clamorosa topica di 12 mesi dopo, quando la franchigia dell’Oregon con la seconda chiamata assoluta preferì Sam Bowie a Michael Jordan. Nel 1984, quantomeno, al secondo giro arrivò anche un elemento utile e forse leggermente sottovalutato come l’atletico Jerome Kersey. Porter fu un frutto del Draft 1985 mentre è del 1989, sempre al secondo round, la selezione di Cliff Robinson. Sul campo Schuler, raccolta la pesantissima eredità di coach Ramsay, costruì una squadra ad evidente trazione anteriore ed in grado di mettere tanti punti a referto. I numeri offensivi non corrispondevano però a risultati eclatanti, regular season a parte: in postseason, infatti, i Trail Blazers vennero eliminati al Primo Turno nell’87 e nell’88, nonostante il vantaggio del fattore campo. Fuori dai parquet, invece, una svolta a dir poco epocale: la squadra, infatti, venne acquistata dal miliardario Paul Allen, uno dei soci fondatori di Microsoft. Qualche mese dopo Schuler fu costretto ad abdicare a causa dello spogliatoio che gli si era rivoltato contro. Al suo posto venne promosso il suo vice, Adelman, che traghettò la squadra ad un record perdente ma ad un’altra presenza ai Playoffs, anch’essa terminata precocemente. Le cose però stavano per cambiare drasticamente.
Subito ai vertici
Nell’estate del 1989 la dirigenza di Portland decise di mettere una pezza all’errore-Bowie cedendo il lungo ai New Jersey Nets in cambio di Buck Williams, altra macchina di statistiche degli anni’80 che probabilmente è stata dimenticata e/o sottovalutata. Curiosamente sempre nella stessa offseason arrivò dall’Europa un’altra conferma della bontà delle seconde scelte dei Trail Blazers, quel Drazen Petrovic che in Oregon trovò solo scampoli nel garbage time. Il nucleo si era formato, Drexler ormai una stella affermata ma le aspettative erano abbastanza basse. In fondo Adelman aveva allenato -per giunta con risultati tutt’altro che esaltanti- solo uno scampolo di regular season e l’Ovest era terreno di conquista dei temibili Lakers dello Showtime, per quanto vicini alla fine del ciclo vincente. Partendo a fari quasi spenti, la squadra spiccò il volo. Le vittorie in regular season furono ben 59. Al primo turno Portland si sbarazzò nettamente dei Dallas Mavericks, prima di ingaggiare una lotta senza quartiere con i San Antonio Spurs, risolta solo all’overtime di gara-7 e grazie alle giocate di Kersey. Finali di Conference contro i giallo-viola? Niente affatto, avversari i sorprendenti Phoenix Suns di Kevin Johnson, Hornacek e Tom Chambers. Due vittorie sofferte in Oregon da parte dei padroni di casa, pareggio della franchigia dell’Arizona ma Blazers che si raggruppano e vincono in volata le due successive partite, venendo così proiettati alle NBA Finals 1990. La Blazermania era ri-scoppiata nuovamente in città, anche se gli avversari non erano proprio gli ultimi della pista, i Bad Boys dei Detroit Pistons campioni in carica. In gara-1, in Michigan, ospiti vicini al colpaccio ma una sfuriata di Isiah Thomas preservò il vantaggio del fattore campo. Portland però voleva vendere cara la pelle e riuscì ad espugnare all’overtime in gara-2 il Palace of Auburn Hills, grazie a due liberi di Drexler ed una stoppata di Robinson. La serie diventò ancor più intensa. Detroit vinse in Oregon gara-3, poi nella partita successiva, con i Blazers sotto di tre, la riserva Danny Young insaccò da 10 metri sulla sirena l’Ave Maria del pareggio. Gli arbitri, con l’instant replay bel lontano dall’arrivare, si consultarono ed annullarono il canestro. Finale thriller anche nella quinta partita. Portland avanti per cercare di allungare la serie, ma a pochi decimi dal termine Vinnie Johnson segnò il jumper della vittoria che consegnava ai Pistons il secondo titolo consecutivo.
Scontri tra titani
Forti dell’acquisizione estiva del veterano Danny Ainge, i Portland Trail Blazers si tuffarono nella stagione 1990-91 con una consapevolezza dei propri mezzi nuova e quasi illimitata. La fiducia nelle proprie capacità iniziò a nutrirsi partita dopo partita, vittoria dopo vittoria. La squadra vinse le prime 11 gare della regular season, terminando poi l’annata a quota 63 successi, miglior bilancio della Lega e record di franchigia tutt’ora imbattuto. Ancor più rimarchevole, furono i primi a vincere la Pacific Division dopo 10 anni di supremazia incontrastata dei Lakers. A differenza di 12 mesi prima, però, anche la pressione era diversa. Qualche avvisaglia si ebbe già al Primo Turno, quando la Seattle dei giovanissimi Payton e Kemp impegnò la formazione dell’Oregon per tutte e cinque le partite. In Semifinale di Conference dubbi spazzati dal rotondo successo su Utah, che portava i Blazers alle Finali dell’Ovest, proprio contro Los Angeles. I giallo-viola non erano più il portento dello Showtime, ma una formazione con i veterani delle battaglie degli anni’80, qualche ottimo innesto e pur sempre un certo Magic Johnson.
Con i 21 assist del proprio leader i Californiani espugnarono Portland in gara-1, portandosi rapidamente sul 3-1 nella serie. Tra le mura amiche i Blazers riuscirono a riportare la serie a LA, per evitare un’imprevista eliminazione. Gara-6, come ci si poteva attendere, fu drammatica, con tanti colpi di scena e rovesciamenti di fronte. Gli ospiti si mangiarono un clamoroso contropiede 3vs1 a 50 secondi dal termine per andare in vantaggio, ma rimasero in vita grazie alla propria difesa ed un ultimo tiro a disposizione. Sotto di 1 toccò a Terry Poter prendersi il jumper per andare in Finale, ma il ferrò lo respinse, con la sfera a cadere nelle mani di Magic, contento di andare a giocarsi l’ennesimo ultimo atto della stagione. Per Portland l’annata straordinaria era giunta al termine.
La voglia e la determinazione di tutto il gruppo di rifarsi prontamente di quello smacco vennero trasferite nella nuova stagione. I successi in regular season furono 57, con un Drexler ai massimi livelli e convinto, in cuor suo, di essere migliore di quel tale Michael Jordan, ritenendo di essere lui la guardia numero 1 nella Lega. Nei Playoffs Portland eliminò subito i Lakers orfani del ritirato Magic, quindi, in una sfida ad alto numero di ottani, i Phoenix Suns, e poi, nelle Western Conference Finals, gli Utah Jazz, dopo essersi fatti rimontare sopra 2-0. Per Drexler era arrivato il momento tanto agognato di dimostrare chi fosse il padrone della Lega. Quale migliore occasione delle NBA Finals 1992 contro i Chicago Bulls? La sfida che tutti volevano ed attendevano andava ora in onda sul palcoscenico più importante del mondo. In gara-1, in Illinois, toccò a Michael mettere le cose in chiaro: 35 punti e 6 triple in un tempo e, dopo l’ultima bomba, l’iconico gesto conosciuto come The Shrug . Quel colpo, che avrebbe stordito una mandria di bufali, riuscì comunque a non intaccare l’animo pugnace dei Trail Blazers. In gara-2 violarono al supplementare il Chicago Stadium pur privi di Drexler, uscito per falli, e con MJ a sbagliare il tiro della vittoria nei regolamentari. Le squadre si divisero la posta in palio nelle prime due partite in Oregon, ma nella delicata gara-5 fu ancora una volta Chicago a vincere in trasferta, dietro i 46 di Jordan, sempre più impegnato nel far capire a Clyde chi fosse il migliore. Era il tempo di un’altra gara-6 fuori casa da dentro o fuori per Portland. Eppure l’andamento della partita sembrava portare verso la “bella”. I Blazers dominarono in lungo e in largo, andando avanti di 15 lunghezze con un solo quarto da giocare (non sarebbe stata l’ultima volta nella storia della franchigia…) e gara-7 che sembrava materializzarsi per ambedue le squadre. Phil Jackson decise di inserire le riserve, con il solo Pippen tra i titolari. Incredibilmente i panchinari, guidati da King ed Hansen, rimisero rapidamente in piedi la partita, che venne poi suggellata dal ritorno di Jordan, che condusse Chicago al secondo titolo. Portland aveva inopinatamente sprecato un’occasione d’oro. E mentre gli avversari festeggiavano all’impazzata, Adelman, Drexler, Porter e compagni si avviavano in silenzio verso un destino incerto.
Periodo di transizione
Con la sconfitta in Finale si aprì un periodo in chiaroscuro per la squadra. Già nell’annata seguente, dopo una partenza a razzo, il giocattolo si ruppe. Il prosieguo della regular season fu balbettante e, nonostante il vantaggio del fattore campo, Portland venne subito estromessa dalla postseason. Fu l’inizio di 6 anni consecutivi di uscite al Primo Turno. Ad eliminare i Trail Blazers furono, nell’ordine: San Antonio, Houston (poi campione), Phoenix, Utah (Portland sotterrata di quasi 40 punti nella “bella”) ed i Lakers in due occasioni, sancendo di fatto l’inizio di una forte rivalità. Quel gruppo che aveva strabiliato venne smembrato poco a poco. Drexler fu il primo che, capita l’antifona, chiese e ottenne di venire ceduto ad una squadra da titolo, cosa che poi puntualmente avvenne quando Clyde contribuì all’anello dei Rockets nel 1995, arrivando a stagione in corso. Da free agent se ne andarono anche Porter (nell’offseason’95) e, l’annata seguente, il declinante Williams. Cliff Robinson, che aveva anche vinto il trofeo di Sesto Uomo dell’anno nel 1993, divenne il punto di riferimento in quel particolare periodo di transizione, prima di abbandonare anche lui la nave nel 1997. La bravura, comunque, del front office di Portland fu la ricostruzione della squadra senza mancare l’appuntamento dei Playoffs, ancorché segnati da tutte quelle uscite premature. A poco a poco arrivarono nuovi pezzi che, nelle idee della dirigenza, avrebbero costituito più in là una nuova contender.
Nel lontano 1986 i Trail Blazers, anticipando la mania/moda che avrebbe seguito negli anni seguenti, draftarono un giovanissimo centro sovietico, che stava già facendo mirabili cose nel Vecchio Continente. Purtroppo, la franchigia dell’Oregon dovette aspettare quasi 10 anni prima di poter vedere quel colosso dalle mani fatate che, per giunta nel frattempo, aveva subito serissimi infortuni che ne avevano minato la mobilità. Ciononostante, nell’estate del 1995 approdò a Portland il nuovo centro destinato a portare in alto la squadra, Arvydas Sabonis.
La sua classe e la sua visione di gioco fecero subito breccia nel cuore dei tifosi. All’eleganza del lituano venne affiancata, nel 1996, l’esuberante forza di una giovane ala forte, dal talento smisurato ma dal temperamento fumantino. Con l’approdo di Rasheed Wallace ai Blazers si apriva per la franchigia un nuovo capitolo, fatto di giocatori molto forti ma dal carattere tendente al controverso/instabile, con frequenti puntate sui giornali, e non necessariamente nelle pagine sportive. Alla dirigenza interessava però ammassare quanto più talento possibile, a prescindere dai soggetti in questione. Ecco dunque spiegate le parentesi in Oregon di personaggi del calibro di Isaiah Rider, il bizzoso Kenny Anderson, il rissoso Gary Trent, Dontonio Wingfield e i non sempre irreprensibili Damon Stoudamire o Rod Strickland. Erano nati i famigerati Jail Blazers, presenti tanto nella cronaca nera quanto nei tabellini delle partite.
In un primo momento neanche il carosello dei coach, con Carlesimo a subentrare ad Adelman nel 1994 e Dunleavy a prendere le redini nel’97, sembrarono risollevare le sorti di un gruppo che sembrava distinguersi solo per i tecnici di Sheed o le aggressioni o gli arresti dei vari Rider o Trent. Tuttavia, nella stagione del lockout 1999, le sorti della franchigia sembrarono ricevere una spinta verso l’alto. Dal Draft era arrivato un altro esponente degno dei Jail Blazers nella persona di Bonzi Wells, mentre l’apporto di veterani dall’usato garantito quali Jim Jackson o Brian Grant contribuirono alla nascita di una nuova contender. Nei Playoffs l’ostacolo Primo Turno venne finalmente passato con la vittoria ai danni dei Phoenix Suns. Il successo in 6 confronti contro gli Utah Jazz, padroni dell’Ovest nelle due annate precedenti, mandò la squadra alle Finali dell’Ovest contro i San Antonio Spurs degli ancora imberbi Duncan e Popovich, con David Robinson da gran contorno. Portland perse di poco in Texas in gara-1 e si apprestava a sbancare San Antonio nella seconda partita, andando avanti di 18 nel terzo quarto. Gli Spurs ricucirono a poco a poco il disavanzo, ma erano sotto di due punti a 12 secondi dal termine, dopo un sanguinoso libero sbagliato da Stoudamire. Sean Elliott, dopo il tentativo a vuoto di rubare il pallone da parte di Augmon, si ritrovò la sfera fuori dall’arco dei tre punti ma vicinissimo alla linea della rimessa laterale. Senza appoggiare i talloni, in quanto avrebbe commesso violazione, di sole punte dei piedi, rilasciò la tripla, che venne impercettibilmente sfiorata dal tentativo di stoppata di un Wallace arrivato di gran carriera. Solo rete. Il Memorial Day Miracle, come venne conosciuto quel tiro, di fatto chiuse la serie, con i Blazers che si arresero allo sweep. Quando sarebbe arrivata una nuova e più favorevole occasione?
La Grande Occasione
Rasheed Wallace alzò gli occhi e vide il tabellone. Dopo il runner a segno di Steve Smith il punteggio recitava 73-58 per i Portland Trail Blazers, che si trovavano a meno di 12 minuti dal termine in vantaggio di 15 lunghezze sul campo dei Los Angeles Lakers del Dinamico Duo Shaq&Kobe. Mancava meno di un quarto, quindi, alla terza Finale in una decade per la franchigia dell’Oregon, questa sì da affrontare con i favori del pronostico, per riportare il titolo nella Rip City dopo oltre 20 anni di digiuno. C’era solo da amministrare un vantaggio che sembrava incolmabile per dei Lakers spenti e sovrastati dai loro avversari.
La rincorsa a quel momento era nata subito dopo l’eliminazione per mano degli Spurs. In una trade era arrivato il già citato Smith, dai free agent era stato acquisito l’esperto Detlef Schrempf ma il gran colpo era stato lo scambio che aveva portato a Portland nientemeno che Scottie Pippen, alla ricerca del suo settimo anello. La regular season era stata una grande marcia di avvicinamento alla postseason, con 59 vittorie a testimoniare la qualità di quel gruppo ed il buon’operato di Dunleavy. Pure i primi due turni dei Playoffs avevano riservato poche sorprese, con vittorie quasi immacolate contro Minnesota e Utah. Lo scoglio tra i Blazers e la gloria erano ora le Western Conference Finals 2000 contro i grandi Lakers di O’Neal, Bryant e coach Jackson. La serie che ne scaturì fu una delle più belle della storia NBA. Wallace e compagni si ritrovarono sotto 3-1 e con lo spettro dell’eliminazione, ma ebbero la forza di reagire e forzare gara-7. Fino a quel momento 4 partite su 6 erano state appannaggio della squadra in trasferta e pure il settimo episodio sembrava andare verso quella clamorosa direzione. Portland, per quasi 40 minuti, semplicemente annientò i propri avversari, marcando benissimo l’MVP col numero 34 e costruendosi un vantaggio importante grazie ad un roster che pullulava di elementi in grado di essere decisivi a turno in certi frangenti dell’incontro. Rasheed aveva spadroneggiato in post basso ed era stato l’artefice di quell’allungo che sembrava decisivo. Avrebbe chiuso la serata a quota 30. Sul più bello, però, quella macchina si inceppò. I Blazers sbagliarono una dozzina di tiri consecutivi. Dall’altra parte fu Kobe a guidare la rimonta su ambedue le metà campo, ma a piazzare il mega-parziale di 15-0 furono le triple di riserve come Brian Shaw o quella pazza del solito Robert Horry. I Lakers, inspiegabilmente, ritrovarono la parità. Wallace ruppe il digiuno appoggiando per il nuovo vantaggio Portland, ma sbagliò due liberi cruciali, mentre dall’altra parte i giallo-viola trovarono il primo vantaggio grazie ad O’Neal. A chiudere la pratica ci pensò Kobe che, dopo la tripla sbagliata da Pippen, servì Shaq per l’iconico alley-oop che significava NBA Finals 2000. I Trail Blazers avevano perso. Dopo esser stati comodamente in vantaggio ed a 10 minuti dal sogno. Gli avversari seguenti sarebbero stati gli Indiana Pacers, una buona squadra, come avrebbero dimostrato proprio contro Los Angeles, ma certo non i Bad Boys di Detroit o i Bulls di MJ. La verità è che Portland aveva perso la più grande occasione per far scendere i coriandoli dalle volte del Rose Garden. Sarebbe passato parecchio tempo prima di poter riassaporare la gioia della vittoria nei Playoffs.
Epilogo
L’amaro sapore di quella sconfitta in un primo momento sembrò dare vigore e voglia di rivalsa a quel gruppo. Durante la pausa dell’All Star Game 2001 Portland aveva il miglior record ad Ovest e sembrava pronta a usurpare i Lakers del titolo di campioni. Per dare un’altra aggiunta al roster, a Marzo tornò da svincolato il sempre più problematico Rod Strickland. La firma, quasi di colpo e senza preavviso, fece implodere la squadra. I Blazers persero 17 delle ultime 25 partite, crollando dal primo al settimo posto nella Conference. Il risultato fu che Los Angeles venne sì affrontata, ma già al Primo Turno e col fattore campo avverso. Lo sweep subito, quasi senza colpo ferire, sancì l’inizio della fine. Portland non sarebbe stata più vicina a vincere l’anello. Il riassemblamento del roster portò volti nuovi ma ancor più problematici: Ruben Patterson, il primo Zach Randolph o il “guardiano dei cani” Qyntel Woods, tra gli altri. I Jail Blazers avevano sconfitto i Trail Blazers. Con le cessioni dei vari Wallace, Stoudamire e Wells veniva chiuso per sempre un capitolo. Nel 2004, Portland non si qualificò ai Playoffs dopo 21 anni di partecipazioni consecutive. Per rivedere un team da Playoffs avrebbero dovuto aspettare un altro lustro, con la sfortunata edizione targata Brandon Roy e Greg Oden. L’attesa per un turno di postseason superato fu ancora più lunga. Solo nel 2014, grazie al buzzer-beater di Damian Lillard in gara-6 contro Houston, Portland vinse una serie Playoffs per la prima volta dopo 14 anni, esattamente da quella precedente al naufragio contro i Lakers. I tifosi al Rose Garden ancora aspettano il ritorno di momenti più lieti e soprattutto vincenti. Perché le immagini dei vari Drexler, Porter, Wallace o Sabonis affollano ancora le loro menti, chiedendosi come due edizioni altrettanto fortissime della franchigia non siano riuscite a raggiungere il tanto agognato anello.
Alessandro Scuto