Categorie: Primo Piano

Processo a Dwight Howard

Signori della corte, nella personalissima (ed improbabile, lo ammetto) classifica dei giorni più funesti dell’anno stilata dal sottoscritto, un posto di assoluto rilievo è riservato al 5 maggio. Di tanto in tanto fuoriescono sfacciatamente dal cassetto dei ricordi le forti emozioni di quella domenica primaverile di inizio millennio: all’alba dei miei 8 anni rimasi scottato dall’illusione di poter festeggiare il mio primo Scudetto dopo innumerevoli insuccessi e mi ritrovai a piangere insieme al Fenomeno, che salutò con le lacrime quella maglia così invisa alla Dea Bendata. Fortunatamente, qualche anno più tardi l’animo nobile del Principe Diego del Bernal rese meno amaro il ricordo di quella data funesta, raccogliendo i primi frutti di un’annata che ben presto si sarebbe rivelata fiabesca. La tragedia dell’Olimpico non è l’unica accusa che inchioda un indifendibile 5 maggio al banco degli imputati. Non lasciatevi ingannare dalle apparenze, signori della giuria, è lui il reale colpevole di questa storia, non il mio cliente: dietro quella falsa quanto ostentata purezza primaverile si cela infatti una pericolosa inclinazione al male, chiedete al signor Bonaparte se non mi credete. Persino il grande Napoleone, che nel giro di qualche anno riuscì a sottomettere l’Europa intera, dovette soccombere dinanzi al 5 maggio, anche Alessandro Manzoni è pronto a testimoniarlo con un centinaio di versi. Vi dirò di più: questo temibile criminale è in grado di camuffarsi e aggredire le sue vittime anche in altri periodi dell’anno per coglierle di sorpresa. Ognuno dunque ha un 5 maggio da dimenticare quanto prima, ma scrollarsi di dosso il fango e la polvere e partire alla riconquista dell’onore perduto à la Diego Milito non è cosa da poco, nemmeno per chi possiede poteri fuori dal comune: a questo proposito racconterò la storia del signor Dwight David Howard, da voi ingiustamente accusato di non aver sfruttato il talento gentilmente concessogli da Madre Natura, supereroe in pensione dal 10 agosto (altra data poco felice della letteratura italiana, scommetto che Giovanni Pascoli sarebbe in grado di dirci qualcosa in più sull’argomento) 2012, giorno in cui il 5 maggio sotto mentite spoglie decise di riservargli una posto privilegiato nella sua macabra sala dei trofei.

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Nessuno si sorprenderà se il frutto dell’amore (dopo 5 sfortunate gravidanze, non a caso il nostro supereroe è solito firmarsi “God Bless” negli autografi) tra il direttore atletico Dwight Howard Sr. e la cestista Sheryl risulterà essere un marcantonio che al termine dello sviluppo arriverà a toccare quota 211 centimetri. L’educazione del giovane Dwight viene minuziosamente studiata a tavolino da mamma e papà, ferventi cristiani, che selezionano per il loro rampollo le migliori scuole di Atlanta. Dwight cresce (parecchio) circondato dall’amore dei suoi cari e, nonostante un fisico a dir poco promettente, la sua non è la classica storia del predestinato che trascorre interi pomeriggi al campetto con gli amici fino al tramonto. Mamma Sheryl, pur amando la pallacanestro, sceglie per suo figlio ben altra compagnia: libri e quaderni sono i compagni più fidati di un insospettabile futuro Superman, che offre volentieri il suo contributo nelle faccende domestiche ripagando la fiducia e le aspettative della famiglia. Tuttavia, come nelle più smielate storie d’amore, la strada del giovane Dwight e quella del basket, nonostante le resistenze di una famiglia che preferirebbe per il figliuolo una più altolocata consorte, sono destinati ad incontrarsi prima o poi. La leggenda narra che l’eclettico Dwight Jr. fosse considerato ad Atlanta una sorta di Magic Johnson (con le dovute proporzioni, non è mia intenzione peccare di lesa maestà) in grado di ricoprire tutti i ruoli della pallacanestro, svariando dal playmaker all’ala fino ad arrivare a giocare sotto le plance, in virtù di un improvviso sviluppo fisico che lo porta a guardare i suoi coetanei dall’alto in basso. Il fisico di Dwight, per quanto all’epoca ancora acerbo, è quello che si avvicina maggiormente all’ideale per un aspirante centro dominante nella National Basketball Association, immaginatevelo dunque alle prese con dei ragazzini: nonostante gran parte del tempo lo spenda sopra i libri, quel ragazzone con la canotta numero 12 della Southwest Atlanta Christian Academy accumula premi su premi a suon di schiacciate. Lo strapotere fisico del nascente supereroe è imbarazzante, nessuno sembra essere in grado di frenare la sua inevitabile scalata verso il successo, la tentazione di bruciare le tappe è irresistibile. Soltanto l’anno prima il Prescelto da Akron, nonostante non avesse mai messo piede in un college, era stato chiamato con la prima scelta assoluta al Draft e nel corso della stagione aveva dimostrato di potersela ampiamente giocare anche con i ragazzi più grandi, perché non provare ad emularlo dunque? Compiere imprese considerate impossibili dai più non è forse il compito di ogni apprendista supereroe che si rispetti? Lo perdoni signora Sheryl, suo figlio ha preferito volare al Draft di New York piuttosto che laurearsi, ma stia tranquilla: le garantisco che un giorno le darà qualche soddisfazione.

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Dopo la scontatissima chiamata di LeBron James da parte dei Cleveland Cavaliers, il Draft del 2004 appare decisamente più movimentato rispetto al suo eminente predecessore. Questa volta a contendersi l’onore della prima scelta in mano agli Orlando Magic sono due centri: da una parte lo specialista difensivo Emeka Okafor, in uscita da UConn e sicuramente più NBA-ready, dall’altra il temerario Dwight Howard, dichiaratosi eleggibile senza passare per il college. L’annuncio di David Stern spazza via ogni dubbio: sarà lo sbarbatello da Atlanta a vestire la Magica canotta.

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Prima scelta, Orlando Magic, centro dominante. Non si può non pensare al primo vero Superman  impegnato a salvare la Florida: Shaquille O’Neal vi dice qualcosa? I paragoni con Shaq si sprecano, da ogni parte sopraggiungono detrattori pronti a criticare l’avventatezza della dirigenza di Orlando, il frastuono mediatico è assordante persino in una franchigia storicamente lontana dai riflettori. Al giovane Dwight non resta altro che far parlare quei 211 centimetri, portati a spasso per il campo con una grazia disarmante ed una rapidità che trascende la più fervida immaginazione, riuscendo a far scivolare in secondo piano alcuni difetti strutturali del suo gioco. Passare dal giocare con degli adolescenti, impauriti di fronte a cotanta fisicità, a trovarsi di fronte dei mostri sacri come Duncan e Garnett, l’idolo di sempre, comporterebbe per chiunque un comprensibile periodo di ambientamento, ma il nostro supereroe preferito sembra non soffrire oltremodo il nuovo contesto e, sebbene la squadra nei primi 2 anni non raggiunga i Playoff e fino al 2008 si limiti a delle comparsate, il giovane rookie dimostra che l’investimento di Orlando non era stato poi così azzardato.

Gli anni passano e Dwight continua a macinare punti e rimbalzi ad un ritmo che conosce pochi rivali sotto le plance americane. La doppia doppia di media è una costante sin dal primo anno nella Lega, ma il roster di Orlando non è poi così magico: ogni volta che scende in campo il povero Dwight è suo malgrado costretto a fare affidamento quasi esclusivamente sul suo fisico sovraumano, caricandosi la squadra sulle sue possenti spalle. La storia del Gioco ci insegna che vivendo di isolamenti e prestazioni individuali si arricchisce soltanto il tabellino, mentre la bacheca alla voce “titoli NBA” si riempie di ragnatele sempre più elaborate. Il ragazzino inesperto sbarcato in Florida nel 2004 è solo un lontano ricordo per i tifosi dei Magic, abituati a vederlo spadroneggiare in lungo e in largo senza mai ricevere un riconoscimento da mettere al dito e soprattutto senza avere neanche lontanamente una chance di respirare l’atmosfera delle Finals, almeno fino al 2009.

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L’arrivo di Stan Van Gundy in panchina sembra aver dato nuova linfa a quei Magic apparentemente senza assi nella manica e il gioco di Howard, che a 24 anni è per distacco il miglior centro della Lega, sembra beneficiare dei dettami tattici del nuovo coach. La stagione si chiude con l’approdo alla postseason in virtù del terzo record ad Est e sembrano esserci tutti i presupposti per un finale più avvincente rispetto a quello delle ultime annate. I 76ers non sono certo quelli della gestione Hinkie, tuttavia non rappresentano un ostacolo insormontabile per Howard e soci, che dopo 6 partite si trovano di fronte ai campioni in carica di Boston, orfani del maestro Garnett. Il forfait di KG si fa sentire e, a dispetto dei pronostici, i Magic riescono sorprendentemente ad avere la meglio. I Cavalieri di Re Giacomo da Akron tentano inutilmente di arginare un incontenibile Howard, che trascina i suoi alle Finals, durante le quali il Black Mamba morde come non mai e decide di non fare prigionieri, infrangendo i sogni di gloria degli Orlando Magic e del loro prestigiatore più talentuoso.

Arrivare ad un passo dal traguardo ed inciampare goffamente sul più bello rischia di avere gravi ripercussioni psicologiche per un ragazzo che, stando a voi addetti ai lavori, non sembra fare della forza mentale il suo cavallo di battaglia. Le stagioni successive si concludono con cocenti delusioni per i Magic, che nel 2010 vengono eliminati dai Celtics in Finale di Conference e nei due anni successivi sono incredibilmente spazzati via al Primo Turno. Qualcosa si è rotto nel magico mondo di Orlando: le malelingue sostengono che il giocatore franchigia inizi ad accusare continui mal di pancia, prendendosela con compagni, dirigenza e staff tecnico, con conseguente esonero di Van Gundy. Evidentemente Orlando non è il contesto ideale per scrivere nuove pagine di storia, l’ultimo Clark Kent passato in Florida l’ha imparato sulla sua pelle ed ha spiccato il volo verso lidi più patinati. Il richiamo della City Of Angels si fa ogni giorno più forte e la scadenza del contratto è ormai imminente: lo scambio appare inevitabile. Ogni squadra viene periodicamente accostata al nome di Howard, ma la franchigia più ingolosita dalla ghiotta opportunità sembra essere quella dei Lakers, desiderosi di affiancare a Kobe un centro dominante nel tentativo di ripetere i fasti del triennio 2000-2002. Los Angeles, la culla del cinema americano, quale migliore destinazione per il Superman del basket?

Discrete aspettative in quel di Los Angeles (Credits to www.amcaffeine.com)

Arriviamo dunque a quel famoso 10 agosto 2012, aka il personalissimo 5 maggio del nativo di Atlanta. Una trade che coinvolge ben quattro franchigie porta Howard alla corte di Mike Brown (che ben presto lascerà il trono a Mike D’Antoni), monopolizzando l’attenzione dei media e rendendo spasmodica l’attesa per il debutto del Kobe&Superman Show 2.0, a cui fanno da contorno due showman del calibro di Pau Gasol e Steve Nash. L’attesa sembra ripagata, almeno a giudicare dai 19 punti conditi da 12 rimbalzi e 4 stoppate alla prima uscita in maglia gialloviola dopo un lungo stop per problemi alla schiena, ereditati dall’ultima stagione in Florida. Ben presto però il soggiorno di Howard nella patria del cinema assume i contorni di un film horror: quello che doveva essere la pellicola gusta per sbancare il botteghino una volta per tutte si trasforma in uno squallido remake della stagione 2003-2004 targata Big Four Production. Troppe personalità ingombranti in uno stesso spogliatoio rischiano di ledere gli equilibri di qualsiasi franchigia e il talento (nel 2012, così come nel 2004, a dir poco sconfinato) complessivo non riesce a reggere l’onda d’urto del cataclisma incombente. Le medie di Howard non sono così basse come volete far credere (17.1 punti e 12.4 rimbalzi), soprattutto alla luce della lungo recupero dall’infortunio alla schiena, ma non posso negare che rappresentino comunque un deciso passo indietro rispetto ai suoi standard; probabilmente arrivare in California e pensare di poter diventare a stretto giro di posta il giocatore chiave in una squadra che a roster annovera un certo Kobe Bryant può essere considerato come uno dei peggiori misunderstanding della pallacanestro americana. Inoltre, i media di Los Angeles in queste situazioni rischiano di risultare un tantino invadenti e poco comprensivi, condizionando di conseguenza anche le prestazioni sul parquet; se a tutto ciò aggiungiamo anche la scarsa chimica con Pau Gasol, chiunque riuscirebbe a fiutare la puzza di fallimento a chilometri di distanza. Sta di fatto che i Lakers, privi di Kobe, vengono strapazzati dagli Spurs ed abbandonano i Playoff 2012 al Primo Turno.

Il compagno ideale per giocare senza troppa pressione (Credits to www.nba.com)

Le copertine di Los Angeles non fanno per il mio cliente, poco ma sicuro. Meglio cercare riparo in una realtà più tranquilla ed allo stesso tempo competitiva, meglio ancora se affiancati da un’altra superstar emergente, possibilmente barbuta: per ovvi motivi la scelta ricade sugli Houston Rockets di James Harden, che dichiarano ufficialmente aperta la stagione della caccia al tanto agognato anello. Il duo Howard-Harden riporta entusiasmo nel Regno dell’indimenticato e fiducioso Hakeem Olajuwon, i cui sudditi evidentemente non sanno che la maledizione del 10 agosto (o 5 maggio che dir si voglia) non si lascia spaventare dalle lunghe trasferte o dall’umidità di Houston. I fastidi muscolari si affacciano con preoccupante continuità prendendo di mira la schiena e le ginocchia del povero Howard, reo di aver portato allo stremo delle forze il suo corpo, che per quanto bionico fosse, gli presenta il conto di tanti anni di strapotere fisico. Le numerose “cambiali pagherò” di Dwight non servono a molto, le ripetute soste ai box sono l’unica valuta accettata, ma fortunatamente le sorti dei Rockets non sembrano risentirne: la squadra chiude la stagione al secondo posto ad Ovest e si presenta ai Playoff carica di speranze, sorprendentemente abbattute a suon di buzzer beater da Damian Lillard. Le 41 partite giocate nel corso della regular season 2014-2015 la dicono lunga sulla condizione fisica di Howard: martoriato dai continui infortuni l’ex Superman è suo malgrado costretto ad appendere il mantello al chiodo, limitandosi al ruolo di secondo violino al servizio di uno scatenato James Harden. La condizione fisica precaria non gli consente più di dominare l’avversario sul piano fisico; mi duole ammetterlo, ma la mancanza di una tecnica consistente, di un assortito bagaglio di movimenti in post e di un tiro affidabile lo condanna all’infamante status di ex-superstar.

Peccato, le premesse c’erano tutte (Credits to www.rockets.clutchfans.net)

Due volte nella polvere, due volte sull’altar” canta Manzoni, dalle stelle alle stalle diremmo noi comuni mortali. A dire il vero, di altari il povero Dwight non ne ha visti molti, se si escludono i trionfi con il Team USA. Il trono imperiale sembra lontano anni luce se visto dalle malinconiche coste dell’isola di Sant’Elena, sono lontani i tempi in cui mandava in visibilio le folle cambiandosi d’abito in una cabina telefonica e schiacciando a 12 piedi di altezza, ma c’è ancora tempo per cambiare e redimersi. Dwightmare, che esagerazione! La sua unica colpa è stata quella di aver sottovalutato il suo inevitabile declino fisico, ma non è forse vero che tutti noi commettiamo errori di valutazione? Il futuro è ancora tutto da scrivere e la ricca free agency di quest’anno potrebbe portare in dote una franchigia in grado di riportare il mio cliente ai fasti di un tempo. Suvvia signori della corte, abbiate pietà di questo giocoso ragazzone con un conto aperto con la sorte! E, cosa ben più importante, condannate il 5 maggio, eroi come Diego Alberto Milito sono una rarità al giorno d’oggi.

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Pubblicato da
Federico Ameli

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