Abraham Lincoln era di certo un uomo che la sapeva lunga. Non a caso, infatti, riuscì a diventare presidente degli Stati Uniti d’America, che non è esattamente un’impresa da sprovveduti, come non lo è farsi erigere un monumento nella Capitale o far scolpire la propria faccia su una montagna, a imperitura memoria del proprio passaggio nella Storia.
Quindi, evidentemente sì, Abraham Lincoln era un uomo che la sapeva lunga. E le parole di un uomo che la sa lunga trovano spesso nuovi significati anche in ambiti lontanissimi da quelli per i quali erano state pensate. Ad esempio questa frase:
“Non dobbiamo promettere ciò che non dovremmo, per non essere chiamati a svolgere ciò che non possiamo.”
Quando Abraham Lincoln la pronunciò sicuramente non sapeva quanto sarebbe stata incredibilmente attuale ancora più di un secolo dopo, e che potesse essere usata per dare principio al racconto della storia di un uomo che nulla ha avuto a che fare né con la politica statunitense né con la lotta alla schiavitù, che poi furono i due interessi principali di Lincoln stesso. Eppure eccole qui, queste parole illuminate, all’inizio di un articolo sul basket, proprio dove mai Abraham Lincoln si sarebbe aspettato di poterle leggere. Perché dopo tutto, la storia che andiamo a raccontare è storia di promesse e speranze, di un’occasione e di un fallimento, di un sogno e del suo lento ma inesorabile naufragare in un incubo. Una storia che parte da lontano, dalle rive del Danubio, dalle fredde pianure della Vojvodina, un luogo tanto esotico e fuori dalla mentalità di un americano medio da risultare incomprensibile e fantastico quanto potrebbero esserlo Narnia o la Terra di Mezzo. Se nasci a New York, o a Los Angeles, o in un’altra qualsiasi delle grandi città degli States, non puoi essere capace di immaginare le steppe balcaniche, coperte di ghiaccio e brina. Non puoi immaginare una piccola città dei Balcani: i Balcani sono soltanto un punticino sulla carta geografica, lontano e ininfluente. Ma nonostante tutto, c’è qualcosa dei Balcani che anche un americano può sapere: è il punto della Terra (al di fuori degli USA) dove il gioco d’invenzione del professor Naishmit ha trovato una nuova patria, nuovi e fantasiosi interpreti e una completa, assoluta, devota venerazione. Da questa consapevolezza sono discese le speranze, le attese, il rapimento degli occhi puntati, in una parola, la promessa che è all’origine di questa storia.
Nel 1866 il compositore austriaco Johann Strauss, nella sua bella ed elegante casa viennese, cominciò a mettere su carta le note della sua opera 314, un valzer, a cui avrebbe imposto il nome di An der schönen blauen Donau, un titolo tratto da una raccolta del poeta Carl Isidor Beck. Strauss non era completamente soddisfatto dalla sua opera, poiché, come tutti i geni, non riconosceva la grandezza del proprio capolavoro. Ma quello che Strauss non sapeva era che in breve la sua opera 314 sarebbe diventato il valzer più famoso e del mondo, noto anche fuori dall’Austria con il titolo di Sul bel Danubio blu.
Imbarcandoci su una piccola nave immaginaria, che navigasse placida sul grande fiume che ispirava le note di Strauss, visiteremmo luoghi fiabeschi, fino ad arrivare lentamente in Serbia, nella città di Novi Sad, lì dove inizia la nostra storia. Proprio qui, infatti, il 20 giugno del 1985, il signor Milorad Miličić e sua moglie Zora festeggiarono la nascita di loro figlio. Un figlio che avevano deciso di chiamare Darko.
Un bambino grande, Darko, con una struttura fisica che, anno dopo anno, con il suo corpo impegnato in una crescita esponenziale, diventava sempre più impressionante. E nei Balcani un fisico come quello poteva significare una sola cosa. Basket. Ben presto le partite con gli amici non gli bastarono più. Qualche osservatore con l’occhio lungo cominciò a notarlo e a pensare che quel ragazzone alto più di due metri poteva funzionare. Poteva funzionare benissimo. I primi ad arrivare furono gli emissari del Košarkaški Klub Hemofarm di Vršac, uno dei club al top della lega nazionale serba, che lo portarono in prima squadra a soli 16 anni. Darko Miličić era già alto 2.13 m e mostrava sprazzi di limpidissima classe e talento: un buon gioco sotto canestro, mani morbide, adatte anche ai tiri dalla lunga distanza, tempismo a rimbalzo e margini di crescita sconfinati. Il suo primo anno alla Hemofarm (il 2001/02) gli portò in dote 18 partite nella YUBA Liga, passate per molti minuti in panchina e pochi sul parquet, ma con 5.4 pts e 3 rbd di media. Poteva essere devastante: lo capirono il suo coach, i suoi compagni, i suoi avversari, ma soprattutto i talent scout.
Il talento di Miličić chiedeva spazio, e lo ottenne: nella Coppa Korać 2002 ebbe 21 minuti di media in 9 partite e segnò 7.9 pts e 4.7 rbd, mentre nella stagione 2002/03 della YUBA Liga giocò 20 partite a 9.5 pts e 4.6 rbd. Ma la vera esplosione Miličić la visse nella North European Basketball League dove giocò 10 partite, segnando 14.2 pts di media con il 73% dal campo. L’interesse degli osservatori crebbe in maniera esponenziale, e cominciò a capitare di veder seduti in tribuna, durante le partite e gli allenamenti dell’Hemofarm, americani spaesati con gli occhi puntati sulla massa inconfondibile di Miličić. E non erano solo scout dall’occhio lungo alla ricerca di una promessa imprevedibile. C’erano anche i giornalisti, segno di un interesse mediatico che si stava avvicinando molto ai giocatori europei (grazie anche all’esperienza in NBA di fenomeni come Sabonis, Divać e Marčiulionis). A Vršac andò anche Chad Ford, giornalista per ESPN che, nel gennaio 2003 ottenne una intervista con Darko. Quando lo vide a bordo campo, Miličić lo apostrofò sorridente:
“Cosa ci fai qui? Non dovresti essere a guardare LeBron James?”
Miličić aveva evidentemente fatto i compiti a casa. Sapeva di LeBron, il ragazzino che stava incantando tutti alla high school arrivando addirittura a guadagnarsi l’altisonante soprannome di the Chosen One. Sapeva quanto fosse ammirato quel ragazzo, quanto se ne parlasse negli USA in ottica Draft. Ma sapeva anche che c’era anche il suo nome vicino a quello di James. Ma Darko non si fermò certo qui, tirando invece in ballo la grande e mai risolta questione dei paragoni. E a un Ford sconcertato per l’essere passato in un attimo dal ruolo di intervistatore a quella di intervistato, chiese che cosa fosse LeBron:
“Miličić è sei mesi più giovane di LeBron […] Mi chiede ‘È come Magic?’. ‘Un pochino’ rispondo io. ‘Come Jordan?’ insiste. ‘Tipo…’ gli dico. ‘E come Kobe?’ ‘Forse’, ma è il meglio che io possa fare.”
Miličić aveva già cominciato a imparare i sottili meccanismi dei mass media statunitensi, e non si lasciò sfuggire l’occasione per lanciare qualche frecciatina a distanza a James, l’unico rivale che sentiva di avere per la prima scelta assoluta:
“Si massaggia un muscolo dolorante. Ha appena smesso di dare battaglia in post basso a un centro 28enne più grosso di lui. ‘Io gioco contro degli uomini’ dice con obiettività”
Cinque parole che sembravano contenere una vera e propria polemica: Darko si stava forgiando in un campionato europeo, giocando contro uomini spesso più vecchi, più esperti, più duri e più cattivi. LeBron dominava all’high school, sconfinando a volte nell’irrealtà, ma quelli erano comunque dei ragazzini. Cosa sarebbe contato di più nella NBA? Era ancora freschissimo nella mente di tutti il fallimento di un altro giocatore che aveva dominato il basket liceale saltando direttamente in NBA, quel Kwame Brown che annaspava e zampettava senza troppo successo a Washington D.C., facendo aleggiare il suo fantasma su qualsiasi altro giocatore che avesse desiderato seguirne le orme. In primis, chiaramente, LeBron James.
Ma l’intervista, dopotutto, riguardava Miličić, e di lui si sarebbe dovuto parlare prima o poi. Darko scelse di continuare a mettere in difficoltà Chad Ford per farlo:
“Sgancia la bomba ‘Allora, io chi ti ricordo?’ Oh-oh. […] Vuole un confronto. Vlade Divać? Pau Gasol? Dirk Nowitzki? Arvydas Sabonis? Non gli piace nessuno di questi. […] Lui è se stesso come giocatore. I paragoni lo evitano. Gasol? No, è più forte. Nowitzki? No, ancora una volta è più forte e un tipo di giocatore più fisico. Forse Sabonis? Ride e si mette la testa tra le mani. Allora chi sei esattamente Darko Miličić? ‘Mi piace Kevin Garnett, gioca come giochiamo noi jugoslavi, col cuore.’ dice”
Dichiarazioni importanti, di un certo peso. Ma l’NBA non era del tutto aperta a Darko. La regola voleva che gli International players avessero 18 anni almeno per essere draftati, e anche se Miličić li avrebbe compiuti prima del Draft, si diceva che avrebbe dovuto aspettare almeno fino al 2004. La cosa non sembrava andargli particolarmente a genio:
“Io penso di essere pronto. Le persone della NBA che vengono a vedermi pensano che io sia pronto. Perché David Stern crede che non lo sia? Lui non mi ha mai visto giocare.”
E con queste parole, dopotutto, Darko Miličić aveva appena fatto una promessa.
Con il passare dei mesi e le relazioni degli scout che si facevano sempre più entusiastiche e strabiliate, il Draft 2003 si annunciava come uno dei migliori mai visti, pieno zeppo com’era di talento. C’erano GM che su quella notte avevano deciso di puntare tutto il futuro delle loro franchigie, altri che avrebbero ucciso pur di avere un posto a tavola e uno soltanto che inveiva contro il cielo e il Caso. Era Jerry West, all’epoca GM dei Memphis Grizzlies, che aveva ereditato una squadra non esattamente irresistibile, non facile da gestire, né da ricostruire, soprattutto a causa degli errori del passato. Bisogna infatti tornare indietro fino al 1997 per capire perché “the Logo” fosse così disperato: poco prima dell’inizio della stagione infatti, il GM di quelli che erano ancora i Vancouver Grizzlies, Stu Jackson, aveva messo in piedi una trade apparentemente vantaggiosissima: era bastata soltanto una prima scelta futura al Draft per convincere i Detroit Pistons a mandare in Canada Otis Thorpe, centro veterano con un passato da All Star. Sembrava un rinforzo utile e a buon mercato, ma in realtà Thorpe avrebbe giocato soltanto 47 partite in maglia Grizzlies, prima di essere ingloriosamente spedito ai Sacramento Kings. La scelta che la franchigia di Vancouver doveva ai Pistons come contropartita in quello scambio rimase in sospeso per anni, fino al 2003, quando i Grizzlies, ormai trasferitisi a Memphis, compilarono il non invidiabile record di 28-54. Un record in grado di garantire un certo numero di palline con il proprio nome nell’urna della Draft Lottery. Un record che alla fine valse la seconda scelta. E da qui il motivo di disperazione di un inconsolabile Jerry West, perché i Pistons infine fecero valere i propri diritti e pretesero quella seconda scelta per loro.
Davanti a Joe Dumars, GM e ex leggenda di quei Pistons, si aprirono nuovi, sconfinati panorami. Da quando, soltanto tre anni prima, era giunto alla guida di quella squadra, era stato in grado di rivitalizzarla, inserendo pedine importantissime, e arrivando, a poco a poco, a riconsegnare a Detroit il ruolo che le era più congeniale, quello di contender. E ora, a coronamento del suo fantastico lavoro, arrivava anche quella straordinaria possibilità: aggiungere al roster uno dei nomi più promettenti del panorama cestistico statunitense e internazionale. La prima scelta era andata ai Cleveland Cavaliers, e LeBron James, il fenomeno che tutti stavano aspettando, era nato ad Akron, che da Cleveland dista 39 miglia scarse. Inutile quindi sperare di poter portare a Detroit “il Prescelto”. Con la seconda scelta rimanevano però aperte numerose alternative: c’era un’ala, realizzatore di terrificante efficacia, che aveva vinto il titolo NCAA con l’università di Syracuse (divenendo anche uno dei pochissimi giocatori in grado di aggiudicarsi il titolo di Most Outstanding Player nell’anno da freshman) che rispondeva al nome di Carmelo Anthony. C’era una guardia nervosa e veloce che aveva fatto vedere meraviglie a Marquette e si chiamava Dwyane Wade. C’era anche un’ala forte slanciata e versatile che aveva giocato a Georgia Tech, un certo Chris Bosh. Ma l’interesse di Dumars si concentrò su un’altra possibilità, sul fascino esotico e rude di un giocatore d’oltreoceano, giovanissimo e destinato a grandissime cose. Con la seconda scelta del Draft NBA 2003, i Detroit Pistons chiamarono Darko Miličić.
Darko aveva appena 18 anni quando si imbarcò sull’aereo che lo avrebbe portato nella Motown, in valigia mise vestiti della sua notevole taglia, sogni, speranze, e tanta voglia di dimostrare che cosa era in grado di fare. Tutti erano assolutamente impazienti di vederlo.
Ma come fare a vederlo? Quando? Domande legittime, dal momento che, nel suo anno da rookie, il campo NBA Darko Miličić lo calcò davvero poco: 4.7 minuti a partita per 34 partite, nessuna delle quali da starter, mettendo insieme cifre davvero miserrime. C’è da dire che la situazione “ambientale” non lo aiutava. Detroit era una squadra coesa, costruita per il successo, e di certo non propensa ad aspettare la crescita del giovanotto europeo.
Il nucleo fondamentale del team era costituito da Chauncey Billups, Richard Hamilton, Tayshaun Prince e Ben Wallace, e durante la stagione arrivò anche la pedina finale: Rasheed Wallace. Coach Larry Brown non poteva onestamente permettersi di concedergli più spazio, soprattutto visto che la squadra mirava a traguardi altissimi. Così, mentre LeBron James, Dwyane Wade, Carmelo Anthony e Chris Bosh ridisegnavano la carta geografica del basket made in USA, Darko passava le serate in panchina, a guardare una delle migliori squadre della lega fare mostra di un gioco brillante, un gioco da cui lui si sentiva sistematicamente escluso.
Eppure anche quella situazione aveva i suoi lati positivi. Detroit era una delle contender più accreditate, al contrario di Cleveland, Denver, Toronto o Miami, e questo consentì a Miličić di togliersi qualche soddisfazione a livello di record personali. Ad esempio quello di diventare il più giovane giocatore a calcare il parquet nelle NBA Finals, con i suoi 18 anni e 356 giorni, quando i Pistons affrontarono i Los Angeles Lakers. Alla fine di quella serie la franchigia di Motown riuscì ad alzare il Larry O’Brian Trophy, consegnando a Darko Miličić una grandissima gioia e un anello da mettersi al dito. Ma al di là del trionfo, al di là del titolo, la situazione in quel di Detroit era tutt’altro che rosea per il giovane fenomeno europeo che si era sentito tanto pronto per la NBA. Nonostante le dichiarazioni e gli sbandieramenti di Joe Dumars, che in lui vedeva il futuro della franchigia, Larry Brown continuava a non concedere spazio a Miličić, con il minutaggio del serbo fermo a 6.9 a partita, e un apporto veramente risibile alla causa Pistons. Una situazione che non poteva che causare malumori, portando addirittura Miličić a sbottare, ai microfoni del Boston Globe:
“L’avrò detto diecimila volte, il miglior modo che ho per migliorare è giocare.”
I Pistons continuarono comunque a macinare vittorie, impermeabili alle bizze del loro giovane compagno, e conquistarono le NBA Finals per la seconda volta consecutiva. Di fronte a loro i San Antonio Spurs di Tim Duncan e Tony Parker. Stavolta la conclusione non fu felice, con una sconfitta in gara-7 che impedì il repeat agli uomini della Motwon. L’estate 2005 portò però qualche novità a Detroit, tra le quali la più rilevante fu sicuramente l’addio di Brown e l’arrivo, sul pino dei Pistons, del guru Flip Saunders, l’uomo che aveva trasformato in stelle assolute giocatori come Stephon Marbury o Kevin Garnett. La sua fama di coach capace di plasmare i giovani, unita alla partenza di Elden Campbell (che negli anni precedenti aveva chiuso lo spazio a Miličić) e all’arrivo di un mentore come Dale Davis, erano tutti elementi che facevano sperare il centro europeo in un cambiamento della sua situazione. Miličić sentì che il posto di riserva di Ben Wallace era ormai a portata di mano, che con un piccolo step avrebbe potuto convincere tutti all’interno dell’organizzazione. Quel suo step fu la Summer League 2005, giocata su ottimi livelli. Un esame superato.
Oppure no. Nonostante tutte le belle speranze, nonostante la Summer League, nonostante Saunders, la situazione di Darko Miličić non cambiò di una virgola, e per tutta la prima metà di stagione il giovane serbo calcò il parquet per 5.6 minuti a partita, finché la situazione non fu più sostenibile da entrambe le parti. Joe Dumars cercò qualche assett spendibile in ottica futura, e lo identificò in una scelta al primo giro al Draft 2007 proveniente dagli Orlando Magic. Per ottenerla, decise di mandare in Florida Carlos Arroyo e proprio Darko Miličić, ricevendo in cambio (oltre ovviamente alla scelta desiderata, poi convertita in Rodney Stuckey) il non esattamente indimenticabile Kelvin Cato.
Finalmente Darko Miličić aveva tra le mani quello che aveva chiesto fin dal suo primo anno in NBA, un’occasione per mantenere la sua promessa. Nella città di Disneyworld il suo minutaggio schizzò improvvisamente a quasi 21 minuti a partita, e il suo contributo, prima assolutamente trascurabile, si assestò sui 7.6 pts, 4.1 rbd e 2.1 blk a partita con il 50% dal campo. Ma sicuramente il suo momento più felice fu la partita contro i New York Knicks nella quale riuscì a far registrare 13 pts e 7 rbd in 32 minuti d’azione, segnando i suoi career high in tutte le statistiche. Sembrava finalmente che la sua crisalide si stesse rompendo e che lui ne stesse fuoriuscendo come una bellissima farfalla. Nella successiva stagione 2006/07 continuò a migliorare la sua statline, mentre i Magic misero insieme un record di 40-42, sufficiente ad afferrare l’ultima seed per i playoff da giocarsi proprio contro i Detroit Pistons. Miličić si mise in testa di dimostrare precisamente alla Motown che cosa si fossero persi: in quella serie mise in campo 12.3 pts, 4.5 rbd e 1 blk a partita, tirando con il 58% dal campo in 29 minuti circa di utilizzo medio. Ma dovette comunque vedere Orlando soccombere a Detroit con un pesante sweep. In più le sue prestazioni non convinsero completamente l’establishment dei Magic che alla scadenza del suo contratto da rookie decise di non pareggiare le offerte che sarebbero arrivate rendendolo un unrestricted free agent. Fu così che nel primo giorno della free agency 2007, quando arrivò una sontuosa offerta da parte dei Memphis Grizzlies (21 milioni $ in tre anni), Darko Miličić fece rapidamente le valigie e si trasferì nel Tennessee.
Memphis era una realtà molto diversa rispetto a quelle che Darko aveva conosciuto fino a quel momento. Lungi dall’essere una contender (come Detroit) o una squadra da playoff (come Orlando), i Grizzlies navigavano nella mediocrità delle ultime posizioni, privi di personalità spiccanti (al di là di quella di Pau Gasol). Il coach, Mark Iavaroni, era naturalmente portato a sperimentare con il materiale che aveva a disposizione. Così, dopo una stagione nella quale aveva ricevuto scarse risposte da Miličić, nonostante gli avesse dato ampio spazio come titolare, Iavaroni decise di fare un tentativo diverso, e all’inizio della stagione 2008/09, complice l’addio di Pau Gasol, schierò Darko Miličić (che era stato fermo per tutta l’estate a causa di un infortunio rimediato con la nazionale serba) come ala forte piuttosto che come centro. Fu davvero un pessimo esperimento, con risultati particolarmente scoraggianti: le medie di Miličić si abbassarono considerevolmente (dai 7.2 pts del 2007/08 ai 5.5 della stagione seguente) e venne presto spostato in panchina. Gli ci vollero dei mesi per riguadagnarsi la fiducia del coach, ma riuscì a tornare nel quintetto verso la fine del 2008, complice anche la non rosea situazione della squadra. Poi però un infortunio alla mano lo rispedì tra le seconde linee, mentre Marc Gasol finiva per prendersi il suo posto come centro della squadra. Anche l’esperienza con i Grizzlies era praticamente giunta al capolinea, ma bisognò aspettare l’anno successivo, quando venne spedito ai New York Knicks in cambio di Quentin Richardson.
Nella Grande Mela Darko lasciò tutt’altro che il segno: 8 partite e un totale di 16 punti. Tristi apparizioni che lo portarono a dire, nel dicembre 2009, che stava considerando l’idea di tornare a giocare in Europa. Ma poi…
I Knicks potevano benissimo fare a meno di lui e decisero di spedirlo a nord. Molto a nord. A Minneapolis per la precisione, dove i Minnesota Timberwolves lo accolsero (mandando a New York Brian Cardinal).
E proprio in Minnesota, lo stato USA che forse più da vicino gli ricordava casa, Darko Miličić visse la parte più positiva della sua carriera NBA. Segnò 8.3 pts e 5.5 rbd a partita nello scampolo di stagione che rimaneva e ottenne nell’estate del 2010, per la prima volta, una riconferma, guadagnandosi un rinnovo quadriennale da 20 milioni $. Il president of basketball operations dei Wolves, David Kahn arrivò a definire Miličić una “manna dal cielo”. Un’affermazione che lascia quantomeno sconcertati alla luce dell’impatto non esattamente straordinario avuto dal serbo sulla stagione di Minnesota. Ma del resto Kahn è lo stesso executive che selezionò nel Draft del 2009 Ricky Rubio e Johnny Flynn, passando per ben due volte oltre il nome di Stephen Curry. Col senno di poi si può affermare che non avesse esattamente l’occhio lungo. Ma su Miličić sembrò aver ragione. Nella stagione 2010/11 il serbo si fece notare per alcune prestazioni in crescendo, riscrivendo più volte i suoi massimi in carriera. Una partita da 23 pts, 16 rbd e 6 blk contro i Lakers a novembre, un’altra da 25 pts e 11 rbd contro Golden State a dicembre. Alla fine della stagione Miličić aveva assommato 8.8 pts, 5.2 rbd e 2 blk a partita (finendo addirittura quinto nella classifica dei migliori stoppatori della lega). Manna dal cielo, si diceva. Ma si sa che una stagione soltanto non basta mai. Le buone prestazioni gli avevano guadagnato il posto da titolare per il 2011/12 e lui sembrò davvero volerlo onorare al massimo delle sue possibilità. Infilò anche una partita da 22 pts e 7 rbd contro i Clippers. Ma lentamente anche i Timberwolves si accorsero che non potevano continuare con lui come titolare. Giocò sempre meno minuti, poi quasi più niente. Alla fine, il 12 giugno 2012, i Minnesota Timberwolves lo tagliarono dal roster via amnesty clause.
Fu innegabilmente un colpo per Miličić dover chiudere in quel modo una parte tutto sommato felice della sua carriera. Ma non volle darsi per vinto e strappò, ancora una volta, un contratto NBA. E stavolta con una maglia straordinariamente importante. Si ritrovò sulla pelle i colori bianco-verdi della franchigia più titolata della storia. Un’emozione fantastica, inconcepibile, il sogno di chiunque abbia mai tenuto in mano una palla a spicchi. Ma quella con i Celtics fu la parentesi più stravagante e deprimente di una carriera che non era mai decollata. Dopo solo un mese e cinque minuti giocati richiese alla franchigia di essere tagliato per motivi personali.
Fu un addio triste. Darko Miličić, che era stato la più sfavillante delle promesse, era cotto, bollito, finito. A soli 28 anni. Il ritiro ufficiale dalla NBA venne annunciato nell’estate del 2013, quello dal basket giocato nel 2014. E Darko cambiò completamente sport. Nel dicembre del 2014 ebbe luogo a Novi Sad il suo primo (e solo) incontro di kick-boxing. Una umiliante sconfitta in due round per mano di Radovan Radojčin. Abbastanza per decidere di abbandonare anche quella carriera. Giusto lo scorso anno, poi, il presidente della squadra serba Metalac Farmakom ha annunciato, in accordo con Darko, che Miličić sarebbe tornato dal suo ritiro, per darsi una nuova possibilità in patria. Un ritorno che non è mai avvenuto. L’ennesima promessa non mantenuta.
Finisce qui la storia di Darko Miličić, il campione mancato, il fenomeno sfiorato, l’europeo che promise agli USA la grandezza. Le ferite, le macerie di una carriera andata male sono ancora troppo fresche perché lui possa guardare ai fatti con freddezza. In qualche intervista, anche tra le più recenti, continua sempre a dire di non capire come mai gli sia stato riservato così poco spazio a Detroit, e replica orgogliosamente a chi gli dà del “bust” che dopotutto era un ragazzo, e ai ragazzi va data l’opportunità di crescere. E sicuramente è vero che lui quella opportunità non l’ha avuta. Recentemente Darko ha raccontato che quando era a Orlando il coach, Brian Hill, gli gridava ad ogni azione di passare la palla a Dwight Howard e di non mettersi a tentare iniziative personali. Non esattamente il modo migliore per imparare e crescere, certo.
Ma la storia è andata così, e in fondo in fondo, aveva ragione Lincoln: “Non dobbiamo promettere ciò che non dovremmo, per non essere chiamati a svolgere ciò che non possiamo”. E Darko Miličić, semplicemente, non poteva.
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