The Caron Butler Story (parte 1)

“Se avessi dovuto andare in battaglia, se svessi dovuto addentrarmi in una partita dove tutto era in gioco, avrei voluto avere lui al mio fianco” dalla prefazione di Kobe Bryant

Caron Butler ha recentemente fatto parlare di sé, più che per le performance sportive, per il suo libro autobiografico Tuff Juice. Il trentacinquenne tuttora in forza ai Sacramento Kings, infatti, ha solo 151 minuti giocati in stagione, per 54 punti. Ma la sua presenza, in uno spogliatoio con Boogie Cousins e Rudy “LockerRoomSpoiler” Gay va oltre i 48 minuti di gioco. Questo perché è riconosciuto dal mondo loro, quello dei giocatori, come uno che ce l’ha fatta. Il suo libro, uscito nell’Ottobre 2015, ha impattato forte su tutto il mondo NBA: tanti giocatori (ma non solo), hanno caricato sui social network un loro selfie mentre leggono il lavoro del loro collega. Avete visto bene: è Mark Wahlberg il belloccio con cappellino. L’attore bostoniano si è detto così emozionato ed ispirato dalla lettura del libro da volerne esportare la trama su pellicola.

Si parte dalla storia della sua famiglia (alla quale il libro è dedicato) nei campi di cotone del Mississippi per arrivare al giorno d’oggi, passando da quando i Miami Heat lo scelsero al Draft, dalla droga venduta in giovane età. La storia di Caron, zeppa di speranza e coraggio, è da esempio per tanti.

Draft. Dopo l’introduzione piena di rispetto e ammirazione scritta dal suo ex teammate Kobe Bryant, entriamo nel libro dalla porta principale. Notte del Draft 2002. La cerimonia fu particolarmente significativa per Caron, in quanto simbolo della fine di un lunghissimo viaggio: my journey from the streets to the NBA è anche il sottotitolo del libro. Per ribadire che lui dalla porta principale non è entrato mai. Poi, tutto d’un tratto, il suo nome fu pronunciato.

La sua mente passò secondi interminabili. Con una lunga anafora di I thought, spiega a cosa fosse rivolto il suo pensiero durante quegli attimi di estrema eccitazione: alla madre, a Janebug, a Racine. Una volta saliti i gradini, l’allora commissioner Stern gli chiese come si sentisse. “Fucking great”. Lui sgranò gli occhi, lo fissò per un secondo e si mise a ridere. “Fucking great”, ripeté Caron.

Lascia trapelare che le sue aspettative erano un po’ più alte. Del resto, alla 5 i Nuggets scelsero Nikoloz Tskitishvili e alla 6 i Cavs optarono per Dajuan Wagner. Non esattamente gli steal of the Draft. La descrizione della serata continua con la telefonata con Pat Riley, ieri come oggi plenipotenziario in casa Heat. “Credette nelle mie abilità, sia dentro che fuori dal campo. Mi disse che un jet privato stava già aspettandomi all’aeroporto, direzione Miami”. Dopo che anche la famiglia della moglie (originaria della Jamaica rurale) capì l’importanza di ciò che era appena successo, tutta la crew Butler partì verso la Florida. L’ultimo abbraccio è alla nonna: “We are on our way, Granny. We are on our way.”

The Roots, le radici. Sudore, serpenti, campi di cotone, fucili stile Il Grinta e pannocchie. Sudore, un padre assenteista, un padrone dalla collera facile e il fiume Mississippi. Questa è stata gran parte della vita di Nonna Margaret Butler Bolton, “la matriarca della famiglia”. Avuta presto una figlia, Miss Margaret si stancò ben presto dei maltrattamenti di Mr. Butler e se ne andò verso est, dove aveva trovato sistemazione un parente, Zio Eugene. Da ciò che dicono in casa Butler, Zio Eugene si è rifugiato a Racine, Winsconsin perché “ la polizia mississippiana di metà Novecento lo  aveva beccato a letto con troppe donne bianche”. Eppure, non aveva abbastanza soldi per comprarsi un biglietto aereo: l’unica opzione alla portata era il bus. Fu così che, con tanto di parrucca e sottana, Eugene scese dall’autobus solo una volta arrivato più a Nord che poteva (secondo ciò che aveva sentito, più a Nord voleva dire più soldi a fine mese). Con lui, c’erano anche i fratelli di Nonna Margaret, Leroy e Roosevelt. Fu Leroy che guidò per oltre 1400 miglia in un giorno da Racine a Columbus e da Columbus a Racine per togliere sua sorella dalle piantagioni di cotone.

Al momento del grande trasloco, la madre di Caron Butler aveva solo sei anni, mentre ventitré ne aveva la Nonna. Margaret aveva quattro figli. Ma a fifth, Aunt Kathy, was on the way. “Sono contenta, mamma, che ce ne siamo andati dal Mississippi. Se fossimo rimaste lì, i serpenti ci avrebbero divorato” disse all’epoca Mamma Butler a Nonna Butler.

The Butler Crew al giorno del Draft. Da sinistra a detsra: il fratellino Melvin Jr., la Mamma, Caron, l’agente, la futura moglie Andrea e l’ex allenatore AAU, Jameel Ghuari.

A Mamma e Nonna. Delle donne che hanno fatto di tutto per lui, Caron ce ne parla nei capitoli Terzo e Quarto. La prima è la Nonna, “che abbatteva barriere e schivava proiettili. Era avanti rispetto al tempo in cui viveva; una donna forte, con il desiderio di fare ciò che facevano gli uomini per essere libera di scegliersi un proprio percorso di vita”. Lavorava in fabbrica, dove gli scarti metallici contenevano ogni tipo di schifezza, facendogliela respirare tutta quella porcheria tossica.

Un giorno, suo marito arrivò da Columbus per portarsela indietro. Lei rifiutò fermamente, congedandolo sul ciglio della strada. Nonna Butler entrò in (…) casa, si tolse il cappello e sentì un colpo sparato da fuori. Proveniva dal fucile del marito, che aveva sparato attraverso la porta d’ingresso. Fortunatamente, dall’altra parte del legno non c’era nessuno.

La seconda donna è Mamma Butler. Incontrò Papà Butler ad un centro ricreativo di Racine quando aveva 14 anni. La relazione tra i due durò pochissimo, ma fu abbastanza perché lei rimanesse incinta. Giovanissima, però, né sapeva cosa stesse succedendo nel suo corpo né lo immaginava. Un dottore le prescrisse delle pillole per arrestare un’infezione interna: pillole che, a lungo andare, avrebbero ucciso il feto. Mamma Butler, però, cambiò medico e smise di prendere quel medicinale: Caron nasce così. Con il padre che lasciò tutto e tutti per arruolarsi nella Marina, una giovanissima madre si trovò ad allevare un figlio tutta sola. Il pargolo, divenuto grande, parla della relazione con il padre come una mancanza-non-mancanza: “come fa a mancarti una relazione con una persona che non hai mai conosciuto?”

La vita, in casa Butler, non era facile. Eppure, Caron dice di avere appreso tantissimo. Il mantra era quello della condivisione: se uno non aveva di che mangiare, tutti regalavano un po’ della propria porzione. Udire discussioni “da adulti”, inoltre, era all’ordine del giorno. Si spiega così il motivo per cui Caron crebbe, per sua stessa ammissione, molto in fretta. Vedeva gli altri bambini in TV giocare con bellissimi giocattoli che la madre non poteva permettersi. Il sogno neanche troppo nascosto di Caron era l’aquilone. La signora Butler, ancora giovanissima, faceva anche tre lavori diversi al giorno e, a fine giornata, spesso continuava a lavorare. La chiamavano “Overtime”.

Le pochissime volte che Caron vedeva la gente del suo quartiere girare con nice things era perché quelle stesse persone vendevano droga o erano coinvolte in attività criminali. Da piccolo, prese di mira i bianchi: origliando, aveva sentito che un avvocato bianco aveva messo dentro Zio Richard per droga. Una volta ogni tanto, si andava in un negozio dell’usato per i vestiti, “non di seconda, di terza mano”. La madre era comunque costretta a rubarli quegli stracci. Caron ricorda vividamente quando il padrone della casa veniva, puntuale ogni fine del mese, a chiedere l’affitto. Erano sempre indietro. “Merda, penso che anche la notte in cui mi scelsero al Draft eravamo indietro”. Per fortuna, il padrone dell’immobile era benevolo e non mise mai la famiglia Butler sulla strada. Un giorno, Caron vide la madre collassare sul divano, di ritorno da 12 ore filate di lavoro. Le si avvicinò e le promise che, un giorno, ce l’avrebbe fatta, che sarebbe diventato like Mike.

Nonostante un iniziale timore, causato dall’imprinting scolastico, il mondo della droga fu sempre molto alla portata di Caron. Nella sua mente era chiaro il paradosso: spacciare non era cosa buona, ma ciò che con quei soldi si poteva comprare, quello sì che lo attraeva. A nove anni, vide l’allora compagno della zia bucarsi. Tuttora, il ricordo di quell’ago gli dà i brividi. Ma, ripensandoci, furono gli insegnamenti materni a farlo stare lontano il più lontano possibile dalla malavita, dall’assunzione di droga.

“She was trying to make it happen. And she did”.

Janebug. Altro che Jordan. Un altro idolo aveva ben presto rimpiazzato His Airness nella mente di Caron: Jimmy Carter, noto a Racine come Janebug. Era, di fatto, suo zio: sposò Zia Kathy. Viene definito come la superstar del drug-selling, uno che faceva tanti soldi e non si faceva problemi nel metterlo in mostra. Non era uno sportivo, non andava in tv, non aveva massicci contratti di sponsorizzazione. Ed è per questo che piaceva tanto a Caron: si poteva vedere in una figura così, senza che risultasse troppo lontana dalla sua immaginazione. Il “Babbo Natale del Ghetto”, infatti, poteva cambiare macchina ogni giorno e regalare un giro di shot a tutti la sera, senza perdere quell’umanità e quel cuore d’oro che lo hanno sempre contraddistinto. “Parlargli ogni giorno era molto più soddisfacente del sognare un autografo da chi neanche sa che esisti”. Il problema, però, era piuttosto accentuato: l’idolo di un ragazzino di neanche dieci anni era uno che vinceva BMW ai dadi e che, grazie allo spaccio di letteralmente qualsiasi cosa proibita, si era comprato una gioielleria.

Fu così che, raggiunta la matura età di undici anni, anche Caron iniziò a vendere buste di crack. Con novizia di particolari, descrive la sua prima transizione: 40 dollari per quattro buste. Ma solo quando, grazie ai primi guadagni, si comprò un copricapo Kangol si autodefinì uno spacciatore. In breve tempo, si ritrovò con una pistola in mano. Scaldare i cristalli di droga, passare le mattine sulle strade anziché sui banchi e non farsi prendere dalla polizia erano ormai divenute abitudini. Presto arrivarono anche le sparatorie tra gang rivali, i primi amici uccisi da macchine tutt’altro che passanti per caso e la prima macchina guidata da lui stesso. La situazione era velocemente passata ad uno stato preoccupante. Lentamente, però, lo stesso Caron si accorge della situazione, “della morte, che era tutta intorno a me”. Tanti, quasi tutti, i suoi amici continuarono a far quella vita finché non si seppe più nulla di loro, ma lui decise di smettere. Anche perché, “i proiettili non hanno un nome sopra”.

Foto uscita di recente che ritrae Caron Butler a fianco di alcuni giocatori liceali di allora, tra i quali… Tony Romo.

Dear Basketball. Nonostante il basket non fosse il suo primo amore, la passione dello Zio Carlos lo portò ripetutamente ai playground. Zio Carlos era un buon giocatore a livello AAU, ma ciò che fece realmente esplodere il basket a Racine fu… Micheal Jordan. Caron racconta come, da piccolo, andava al parco e provava a imitare i layup rovesciati di MJ, con tanto di lingua fuori. La sua prima partita NBA la vide a sette anni: i Milwaukee Bucks di Sidney Moncrief ospitavano i 76ers. Due dei suoi mentori a livello giovanile furono Jameel Ghuari e Abdul Jeelani, ex giocatore NBA visto anche a Roma e Livorno. Ma proprio mentre stava emergendo (anche grazie ad una crescita fisica notevole), quando si poteva proclamare “nuova stella della famiglia”, arrivò la polizia. Secondo lui all’epoca (e secondo Snoop Dogg tuttora), i migliori tiratori del mondo. E in un pomeriggio dove i proiettili “stavano davvero volando”, Caron decise di rincasare. Poco dopo, la polizia era sulla soglia di casa Butler. Passarono due ore lì fuori, senza che il ricercato scendesse ad aprire la porta. La questione però non finì lì: i poliziotti andarono a cercarlo anche il giorno dopo alla Racine Park High School, il liceo che frequentava. Fecero irruzione nella classe e lo ammanettarono davanti ai compagni. Lo avevano preso.

Ethan Allen “School”. Caron, secondo le leggi del Winsconsin di allora, si sarebbe meritato minimo due anni di prigione. I suoi quindici anni, però, lo aiutarono: finì in un centro di recupero per delinquenti, prevalentemente giovani, dove tutto ciò che aveva erano le poche ore di libertà per giocare a basket. In una mentalità molto “Venticinquesima ora” di Spike Lee, Caron cerca mostrare il suo lato virile, “screaming while doing pushups”: in un ambientino del genere, avere quindici anni e apparire gracile e indifeso potrebbe non giocare a tuo vantaggio. Tra risse evitate, cigolii di serratura, pessimi pasti e suicidi, la vita di Caron proseguiva regolare: ogni giorno passato era un giorno in meno verso la libertà. Finché una rissa con un membro di una gang rivale lì quasi per caso gli costò l’isolamento.

Visto a posteriori, la miglior cosa che gli potesse succedere. Saputo che il figlio era stato confinato “nel buco”, Mamma Butler, non avendo più lacrime da versare ma senza mai perdere la sperazna, inviò una Bibbia. E il figlio da essa trasse grande forza. La seconda parte dei suoi pensieri era rivolta a Mandela: l’ispirazione venne da sé. Un altro forte impulso, in questo senso, lo diedero le fugaci notizie da casa Butler: era appena nata la primogenita di Caron, Camary. La mamma della piccola, Danisha, era una sua amica di lungo corso, ma, senza peccare di negatività, nulla più. E quando, all’undicesimo mese di detenzione, fu l’ora di uscire, a prenderlo c’erano Mamma e Zia Tina. Tornarono a casa sulla solita vecchia station wagon fumante dal cofano.

“Ma non guardai mai più indietro. Ero un uomo diverso, cambiato. Migliore”.

A domani per la parte 2.

Michele Pelacci.

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