La pallacanestro è uno splendido sport di squadra. Si scende in campo in cinque (se non in 12), si perde o si vince tutti insieme. È un dato di fatto incontrovertibile. Tuttavia c’è qualcosa di struggente, che affligge ed esalta allo stesso tempo, nelle occasionali prestazioni eroiche di un singolo giocatore. Diciamoci la verità. Restiamo tutti quanti ammirati per extra pass e circolazioni di palla virtuose, stile Spurs 2014 o Warriors 2016, ma viviamo anche per raccontare ai nipoti le gesta individuali e straordinarie di interpreti isolati. E solo più che mai appare in queste ore che precedono la decisiva gara 6 del primo turno di playoff Paul George, l’asso dei Pacers che sta seminando il panico nel Grande e Bianco Nord. A Toronto quest’anno sono fermamente convinti che sia davvero la volta buona, che dopo 15 lunghi anni si possa finalmente tornare ad assaporare la gioia del passaggio del turno. Le 56 vittorie stagionali che hanno garantito il seed n.2 a est ma soprattutto il 3-2 nella serie contro Indiana sembrano poter dar loro ragione oltre che speranza. Nelle ultime due settimane però tale sicurezza ha vacillato pericolosamente sotto i colpi, quasi chirurgici, dell’ala da Fresno State. In certi frangenti, George è apparso senza mezzi termini inarrestabile. DeRozan, Carroll, Powell, la Canadian National Tower dall’alto dei suoi 553 metri… non importava realmente chi fosse a marcarlo, l’impressione netta che si aveva osservandolo con la palla in mano era che tanto avrebbe segnato lo stesso.
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Non per niente al momento è primo fra i realizzatori della post season con 28.8 punti di media, peraltro messi insieme con percentuali di tutto rispetto: 47.3% dal campo, 41.9% da tre e un granitico 93.8% ai tiri liberi. Proprio i viaggi in lunetta sono aumentati vertiginosamente. Adesso sono 9.6, segno evidente che PG ha aumentato la dose di aggressività che riversa solitamente sul parquet. Basta vederlo andare a muso duro, anche senza giusta (e nemmeno presunta) causa, davanti al settepiedi Valanciunas come in gara 4 o fronteggiare il più piccolo ma ostico Lowry dopo una zuffa in gara 5 per capire che non è venuto per negoziare. Che potesse avere degli exploit realizzativi in singola serata con quarti interi di dominio assoluto e che impugnasse il copione per recitare la parte del maschio alfa del gruppo si poteva ipotizzare. Quello che ha impressionato maggiormente però è stata la capacità di sfruttare la fisiologica (viste le premesse) convergenza delle attenzioni dell’intera difesa avversaria su di sé per agire da catalizzatore dell’attacco, creando situazioni di gioco favorevoli per i propri compagni. Secondo stats.nba.com in questi playoff sono 11 i punti della squadra derivanti direttamente dai suoi assist. Se allarghiamo il discorso, comprendendo quelli secondari e i passaggi decisivi che hanno portato i compagni in lunetta, il computo totale è di 6.8 assistenze (che diventano 7.3 all’Air Canada Centre). E questa, diciamolo pure, non è sempre stata la specialità della casa. Se un difetto gli può essere riconosciuto tranquillamente e senza paura di offendere nessuno è proprio il trattamento ancora decisamente maldestro della palla. D’altra parte il palleggio parte da un’altezza piuttosto elevata per un esterno. Se avete seguito la serie coi Raptors, sicuramente avrete notato soprattutto in gara 1 e nei primi 3 quarti di gara 5 come riuscisse abilmente ad alternare raffiche di canestri a intuizioni illuminanti per i compagni, abbandonati spesso a se stessi nel tentativo comunque vano di arginare l’ira del figlio di Paulette. Vero è che in mezzo a tante perle ha anche messo immancabilmente la propria firma su quelle scelte opinabili che ormai lo accompagnano dal primo giorno a Indianapolis, altrimenti adesso non saremmo qui a parlare di gara 6 come di un possibile elimination game per i suoi Pacers. Ma l’impatto che sta avendo nella produzione degli eventi della propria squadra non ha eguali in questa post season: primo nella lega per PIE con 23,8. Sarebbe a dire che quando PG13 è in campo in quasi un quarto di tutto ciò che succede ai gialloblu, indici negativi compresi, c’è il suo zampino. Nei giorni immediatamente successivi a gara 5 è uscito un articolo su nyloncalculus.com su chi siano gli effettivi creatori di attacco in questi playoff 2016, con un occhio di riguardo alla serie fra Toronto e Indiana. Ebbene, grazie al grafico che offre un immediato feedback visivo, emerge chiaramente come George abbia determinato la produzione di un numero maggiore di punti di quanto abbiano fatto il secondo e il terzo di questa speciale graduatoria di squadra (Ellis e G.Hill) messi insieme. Anche sull’efficienza del suo attacco in relazione ai compagni c’è ben poco da aggiungere.
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In più di qualche circostanza, IMHO, per la dolceamara sensazione che fosse terribilmente da solo sull’isola ma rifiutasse comunque di abbandonarsi al proprio ineluttabile destino ha strizzato l’occhio ad alcune delle più celebri prove di hero ball del passato, anche se con molti meno tiri tentati. Mi viene da scomodare Iverson nell’emozionante cavalcata del 2001 o Bryant quando divideva lo spogliatoio con Smush Parker ma nonostante tutto non si arrendeva ai Suns di D’Antoni. Mi ha fatto pensare a T-Mac quando il primo turno era per lui ancora un ostacolo insormontabile o ancora al Penny Hardaway dei playoff del ’97 che fece credere a tutta Orlando che la partenza di Shaq non fosse poi un evento così rilevante, anzi, in quella serie contro i favoritissimi Heat potevano andarsene tutti e lasciare i magazzinieri più Darrell Armstrong a combattere al suo fianco. Ok, mi rendo conto che sto bestemmiando. Diciamo allora che quello prodotto in gara 5 a Toronto è assimilabile ad altri grandi e romantici losing effort dello storia. Sì, perché alla fine Paul George ha perso. E lo ha fatto con soli 2 punti segnati e 3 tiri presi nel decisivo ultimo quarto. Chi riduce tutto a questo però, non rende onore al ragazzo di Palmdale. Ci saranno pure dei motivi più che validi se in questa stagione i Pacers hanno perso 20 partite nelle quali in un certo momento del quarto periodo si erano trovati in vantaggio? Il primo che viene in mente con sospetta perentorietà riguarda, ancora una volta, la gestione della palla. La compulsiva tendenza a perdere palloni, equamente distribuita in tutti i giocatori del roster, rappresenta, testa e spalle sul resto delle difficoltà, il più grande tormento del povero coach Vogel. Spesso i suoi uomini, diligentissimi per molti versi, venendosi a trovare sul parquet compiono delle scelte come minimo avventate e quando meno te lo aspetti finiscono banalmente per sbagliare un movimento, un passaggio o, peggio ancora, un palleggio semplicissimi. Soprattutto nei momenti culminanti della partita, quando idealmente si riduce la finestra temporale, oltre che spaziale, per eseguire un gioco. Le poche volte invece in cui dimostrano di saper rinunciare all’azzardo prendendo decisioni perlopiù conservative fanno una fatica tremenda anche solo a iniziare lo schema d’attacco e la palla si spegne colpevolmente fra le mani poco sapienti del malcapitato di turno. Questo è apparso evidente per larghi tratti del quarto periodo di gara 5, una frazione di gioco in cui Paul George, che in quel momento rappresentava l’attacco dei Pacers dalla A alla O, non riusciva neppure a sfiorare lo spalding. È ipotizzabile che a quel punto potesse anche essere stanco, d’accordo. Si può argomentare – i più maligni si sono affrettati a farlo – come a volte, ancora oggi che il suo ruolo di superstar della lega è ampiamente acclarato, sembri quasi nascondersi denunciando un non meglio specificato difetto di personalità: “Ha passato anche l’ultimo tiro, quello della vittoria!” È pacifico pure che i Raptors fossero alfine riusciti nell’intento di ingabbiarlo. Fatto sta che nel frangente in cui si decideva partita e, probabilmente, serie è rimasto troppo spesso lontano dalle operazioni di gioco. Come solitamente accade, la faccenda è molto più complessa di quel che sembra. Vogliamo parlare della gestione di Monta Ellis dell’ultimo possesso? Se non ci fosse stata una deviazione tanto galeotta quanto casuale a rimbalzo non ci sarebbe stato neppure il bisogno di ricorrere al replay per accertare che il tiro di Solomon Hill era realmente partito dopo la sirena. Mi rifiuto di pensare che un allenatore avveduto come Vogel abbia disegnato quella roba. Dove forse ha sbagliato invece il competente coach di Indiana è stato nel tenere a riposo per i primi 3 minuti e mezzo dell’ultimo quarto George Hill, Monta Ellis e Myles Turner in concomitanza con il classico stop ai box di Paul George in vista dell’ultimo rettilineo. Si è trattato comunque di una scelta, la scelta di stare con una bench unit che raramente l’aveva tradito. Raramente prima di questa serie con Toronto. In un amen, e per la seconda volta nella serata, è evaporato quasi tutto il vantaggio dei Pacers. Anche a inizio secondo quarto infatti gli stessi sostituti si erano mangiati altri 15 punti di dote, lasciati in sostanza dal 13 e da un’autentica beneficiata di triple. Per i soli parziali, con George fuori, gara 5 è finita 19-1 per i canadesi. Completamente opposto invece il giudizio sulla panchina dei Raptors, con i vari Joseph, Powell e Biyombo, ma anche Ross, a spalleggiare la coppia Lowry-DeRozan nei momenti decisivi della rimonta. Solo questo basterebbe per darci una fotografia della reale differenza tecnica fra le due squadre. Differenza che fino ad ora è apparsa ridotta, se non completamente annullata, grazie ad un solo giocatore, il migliore per distacco della serie, che oltre a viaggiare a 33.3 punti di media nella terra degli aceri col 57.9% da oltre l’arco, ha preso in consegna il più valido degli altri, quel DeRozan che da ragazzo sognava di imitare perché californiano come lui e già apprezzato da mezza America dei canestri.
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Nei primi 4 episodi della serie la guardia dei Raptors è sembrata come intimorita dalla mera presenza di Paul George, rinunciando molte volte persino a prendere l’iniziativa. Quando non ha esitato, è comunque andato incontro a esiti ben poco edificanti: 13.2 punti, 29.6% al tiro, 0.0% da 3 punti e 3.2 turnovers. In gara 5 è esploso anche DeRozan con 34 punti e molti canestri decisivi. Un unico passaggio a vuoto in difesa però nulla deve togliere alle straordinarie prestazioni nella metà campo dietro dello scintillante George di questi playoff: è primo per sfondamenti presi, primo nelle palle vaganti arpionate, devia 3.4 palloni e contesta ben 11.6 tiri a partita. Lo sappiamo bene: anche la difesa è una questione di squadra, o comunque entrano in gioco tanti fattori diversi. In più, alle volte, bisogna semplicemente dire bravo all’attaccante che ha sfoderato una prestazione eccelsa. Però ecco, non vedere PG13 fra gli avversari sul parquet può aiutare, visto che per nbawowy.com le percentuali effettive salgono dal 42.1% al 51.1%.
Concludiamo con una rapida carrellata di nomi sparsi: Jordan, Bird, Barkley, Drexler, Bryant, McGrady, LeBron, Playoff Rondo. Non male, vero? Bene, dall’altroieri aggiungeteci pure quello di Paul George da Palmdale, perché secondo Gregg Doyel dell’Indianapolis Star è la lista dei giocatori che negli ultimi 32 anni hanno avuto una partita di post season con almeno 39 punti, 8 rimbalzi, 8 assist e 2 palle rubate. Quelli che ha collezionato PG in gara 5. Eh, ma nell’ultimo quarto è sparito… La verità è che George ha un disperato bisogno che qualcuno accorra in suo aiuto per prolungare la stagione dei suoi Pacers e non andare in vacanza già da stanotte.
Tommaso Mandriani