“L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità” disse una volta qualcuno che ha poi avuto un certo qual peso nelle irrequiete vicissitudini della prima metà del Novecento, ovvero Sir Winston Churchill. Non sappiamo per certo se il coach degli Heat Erik Spoelstra appartenga o meno alla categoria di coloro che tendono sempre e comunque a vedere il famoso bicchiere mezzo pieno. Quello che vediamo è che pare saper maneggiare con un certo criterio la non comunissima arte di trasformare le necessità, gli ostacoli che, in numero sempre crescente, si parano sulla sua strada, in opportunità da cogliere. E, come tutti coloro che sono usciti dal mazzo grazie quasi esclusivamente alla propria ostinazione, che non avevano tappeti rossi ad accoglierne i primi passi, bensì franchi tiratori pronti ad esplodere i loro “te l’avevo detto”, ha coraggio da vendere. Possiede l’incoscienza di chi ricorda bene di esser stato un nessuno in mezzo a tanti qualcuno e non si cura affatto dell’evenienza di dover un giorno scendere da quel piedistallo sul quale è faticosamente oltre che meritatamente salito. Perché, va bene l’ostinazione, il fegato, la fantasia ma dietro a certe scelte, come un ideale telaio, stanno sempre preparazione e competenza, altrimenti l’intera struttura sarebbe piuttosto fragilina.
Coach Spoelstra è stato messo a dura prova. Durante la stagione in corso ha perso uno dei giocatori cardine in Bosh, per i motivi che tutti sappiamo, ha dovuto fronteggiare una serie di cambiamenti nel roster che avrebbero fatto vacillare le convinzioni di chiunque e per i quali è stato costretto a rimettere mano a intere sezioni del proprio playbook. Tuttavia i suoi Miami Heat sono rimasti in piedi, con estrema dignità. Proprio quando le circostanze sembravano finalmente incanalarsi per il verso giusto, quando le singole parti apparivano incastrarsi in un insieme inaspettatamente armonico, ecco cedere il legamento collaterale mediale del ginocchio di Whiteside, nel pieno della battaglia del secondo turno coi Raptors con vista sulla finale di conference. Da quel maledetto secondo quarto di gara 3 in poi, il coach degli Heat le ha provate tutte: ha invocato il ritorno dello Stoudemire di qualche annetto fa, ha tentato di falsificare la carta d’identità di Haslem, ha chiesto a McRoberts di dargli una mano, ha provato a fare appello alla proverbiale energia di uno come Gerald Green, ha dato a Tyler Johnson i minuti che questi non aveva più visto dall’infortunio alla spalla di due mesi e mezzo fa. Come un caporeparto insaziabile, ha preso tutto ciò che il personale a disposizione era in grado di offrire. Dove invece ha osato, mettendoci del suo e adagiando uno dopo l’altro i propri piedi ben oltre il seminato, è stato nell’affidarsi, in un determinato momento (ovviamente decisivo) ad un lineup piccolissimo, decisamente atipico. Mancavano infatti 4:47 sul cronometro dell’ultimo quarto di gara 4 quando sul parquet dell’American Airlines Arena si è palesato il “quintettino” Deng-Dragic-Johnson (inteso come Joe)-Wade-Winslow, in ordine rigorosamente alfabetico poiché disporli per ruolo, utilizzando le categorie classiche, è compito che sfugge alle limitate capacità di discernimento di chi scrive. Coraggio o necessità? Poco importa. Ha buoni argomenti sia il partito dello sfacciato fegato del genio Spoelstra che quello della mera scelta obbligata ma fortunata. Limitiamoci a commentare quello che una tale inconsueta decisione ha determinato in materia di equilibri in campo. Senza l’ombra di un lungo – col solo Luol Deng a superare, e di poco, i 6’7” – sono spariti, o quasi, tutti i giochi al gomito e i tagli a ricciolo profondi dentro l’area. Nella metà campo d’attacco gli Heat si sono prodotti in svariati tentativi di giochi in continuità partendo dal pick & roll alto, con sporadici accenni di tagli Iverson.
Per la verità hanno raccolto molto di più dagli assalti all’arma bianca soprattutto di Wade, come quello in occasione del pareggio a quota 83 che a 12 secondi dal termine ha forzato l’overtime. D’altra parte in questi momenti bisogna fare di necessità virtù e non imbrigliarsi in assurdi quanto imprudenti rompicapo tattici.
Quando coach Casey ha infine deciso di adeguarsi, panchinando Biyombo e affidandosi dal minuto 1:37 sul cronometro del quarto periodo alla fine del supplementare al quintetto Joseph-DeRozan-Ross-Carroll-Patterson, era forse ormai troppo tardi. Già si trovava nella scomoda posizione di dover rincorrere affannosamente le mosse del collega. In difesa Joe Johnson si prendeva tranquillamente cura di Patterson e solo saltuariamente cambiava sui blocchi ed esclusivamente con l’uomo di Deng o di Winslow. A fronte di una netta diminuzione della potenza oltre che della presenza a rimbalzo, Miami guadagnava così una maggiore aggressività nel raggiungere il ferro e garantirsi viaggi in lunetta. Parziale della gara in questo frangente: +14 Heat e vittoria in rimonta per impattare la serie sul 2-2.
Ancor più interessante è stato lo sviluppo della successiva gara 5, prima della quale quel Mefistofele di Spoelstra ha persino avuto una manciata di ore per preparare qualcosina a tavolino. Ovviamente stiamo estremizzando il concetto: non è possibile tirare fuori da un gruppo di giocatori ciò che in fin dei conti questi non possiedono. Non esiste allenatore in grado di farlo. Tuttavia, ai blocchi di partenza del nuovo e appassionante capitolo della saga, l’intenzione di giocare piccolo è ormai più o meno dichiarata dalle parti di South Beach ed anche i Raptors hanno avuto modo di pensare a come potersi adeguare. Con 5:29 da giocare nel secondo quarto della partita di mercoledì la sporca cinquina di Spoelstra sul parquet è composta da Richardson, Wade, Joe Johnson, Deng e Winslow. Casey decide invece di restare con la coppia Patterson-Biyombo sotto le plance e fa bene perché Toronto ha la meglio a rimbalzo e trova enormi autostrade al ferro. È pur vero che i Raptors avevano in Valanciunas prima e hanno in Biyombo adesso (4,2 screen assist a partita nei playoff) due dei più bravi a portare blocchi in grado di propiziare il canestro dei compagni. Spoelstra prova allora a mischiare le carte con l’ingresso di Dragic e Green per Richardson e Johnson. Deng o Winslow si alternano, arrangiandosi come possono, sul centro avversario. Quando mancano 2 minuti scarsi alla fine del primo tempo il rookie da Duke University commette il terzo fallo ed è costretto a lasciare il campo per far posto al bigman più classico McRoberts, costringendo Spoelstra a rivedere per il momento i suoi propositi di grandezza fondati sul temibile (almeno in gara 4) small-ball lineup. Nel frattempo, per la serie “le disgrazie non vengono mai da sole”, Deng è finito fuori dalla contesa per un problema al polso e Carroll è andato a tenergli compagnia, anch’egli per un problema al polso. Ad un minuto dalla fine del terzo quarto il coach di Miami getta definitivamente la maschera proponendo i suoi magnifici 5, tutti sotto i 2,02 di altezza. Complice il riposo di Wade all’inizio ultimo periodo (rientrerà presto), il quintetto recita così: Dragic, J.Johnson, T.Johnson, Richardson, Winslow, ancora in disciplinato ordine alfabetico. Si cominciano allora a distinguere tra le pieghe della partita alcune trame di gioco che tendono sinistramente a ripetersi ad intervalli più o meno regolari. Miami, sfruttando le caratteristiche dei suoi interpreti, gioca 5 fuori o cerca insistentemente il contropiede rapido, quando disponibile, come accade nel caso della tripla (una delle 3 di questo spezzone) di Josh Richardson. Se costretta a ragionare invece, usa massicce dosi di pick & roll in punta oppure si affida a partenze ancor più “organizzate” con i classici doppi blocchi stagger sia orizzontali che verticali o i giochi “double stack”, chiamati con l’intento di attirare i lunghi avversari lontano dal pitturato.
In difesa Joe Johnson prende prima Thompson e poi Biyombo dimostrando personalità e soprattutto forza fisica. Winslow passa da Lowry allo stesso Biyombo senza apparente sforzo. Niente cambi sistematici: d’accordo che sono piccoli, ma qualcuno è più piccolo degli altri. Meglio non coinvolgere le guardie. Richardson dal canto suo deve dar fondo a tutta la sua freschezza atletica per occuparsi di Patterson.
Col quintetto basso, Miami fa registrare un +8 di plus/minus in 9 minuti e a 1:54 dalla fine di gara 5 si riaffaccia a -1, sul punteggio di 88-87 Raptors. L’argomento è affascinante, i suoi risvolti ideologici e tattici hanno tratti accattivanti ma poi devi avere i Wade o i Joe Johnson della situazione perché certi sforzi si concretizzino davvero, come dimostra il tentativo di gioco “chest” per Dragic (chiamato come ai tempi belli, quelli in cui il destinatario era un certo Walter Ray Allen), abbozzato sul nascere e risolto poi soltanto da una giocata individuale dell’ex-Nets.
La partita sulla quale – si dice – girasse l’intera serie è stata risolta alfine da Lowry, con la non trascurabile partecipazione dei tiri liberi di DeRozan, due che fin qui non si può certo dire che abbiano brillato in post season. Adesso Miami si ritrova con le spalle al muro, costretta a vincere la decisiva gara 6 fra le mura amiche per allungare la stagione. Spoelstra e il suo small-ball hanno fallito. Come volevasi dimostrare, direbbe qualcuno. Nessuno però, fra coloro che non siano ancora stati abbandonati dal senno, può ragionevolmente affermare che il perspicace coach della squadra della Florida non abbia tentato in tutte le maniere di offrire una chance ai suoi, per rimettersi in partita e salire al comando della serie. Non è bastato e probabilmente non basterà neppure nel prosieguo. Ma Spoelstra ha avuto coraggio. Forse perché obbligato. Non ci interessa.
Tommaso Mandriani