Non seppellite i Campioni prima del tempo

Non abbiamo ancora finito di metabolizzare (se mai lo faremo) l’esito dell’attesissima gara 1 di finale della western conference e già c’è chi si è prodotto in imponenti quanto precoci marce funebri per la squadra della Storia, quella degli scintillanti Warriors che ha riscritto tutti (o quasi) i record della regular season NBA. Eh, ma ai playoff è diverso. Vero. Vero anche che le serie durano, se necessario, anche 7 partite, proprio perché si possa rimediare a possibili anche se sgradevoli scivoloni occorsi sul percorso. Intendiamoci, fa benissimo chi mette in evidenza tutti i motivi per cui i Thunder della Oracle hanno mostrato i crismi della squadra in grado di seppellire anzitempo le speranze di un’intera DubNation. L’attento sito fivethirtyeight.com per esempio non ha tardato a far operare alla squadra di Donovan il sorpasso su quella della Baia nelle chance di vittoria finale (36% contro 35%; insegue Cleveland). Giusto celebrare Westbrook e compagni poiché con l’incedere della primavera hanno dimostrato ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che c’eravamo tutti quanti colpevolmente scordati di loro quando a ottobre si trattava di assegnare l’anello di Campioni NBA 2016. Ancor più virtuoso farlo sviscerando temi tattici che verranno buoni nel prosieguo della serie, perché dopo soltanto un episodio e contrariamente a quello che si poteva immaginare sono gli Warriors a dover occupare la scomoda posizione di chi è costretto ad aggiustare il tiro per inseguire l’avversario. Volendo procedere controcorrente – pare assurdo dire così ma in questo momento sono a tutti gli effetti i blu dell’Oklahoma a definire il verso di scorrimento del fiume – potrebbe essere interessante analizzare invece i temi emersi dalla partita di lunedì che possono ancora sorridere ai ragazzi di coach Kerr.

Innanzitutto giova probabilmente compiere una riflessione che in qualche modo precede e trascende i puri e semplici fatti di basket. Mi piace immaginare le squadre NBA alla stregua dei vecchi Cavalieri dello Zodiaco del celebre manga di Masami Kurumada in voga negli anni ’80. Proprio come fanno Pegasus e gli altri superando una dopo l’altra le dodici case dello Zodiaco per salvare Atena, una franchigia professionistica per poter raggiungere il massimo traguardo – il titolo – deve passare attraverso alcune prove, che contribuiranno a forgiare in maniera più o meno accentuata il suo status di contender. Le sfide incontrate durante il percorso tuttavia non saggiano lo spirito del combattente allo stesso modo. Pegasus ha bisogno di superarsi nella strenua battaglia col Cavaliere del Toro, e in quella soltanto, per acquisire il settimo senso, ovvero quella caratteristica che gli permetterà infine di sconfiggere il nemico. Così alcune serie playoff (più delle altre) portano le squadre che le affrontano sul limite del burrone, costrette ad esplorare i limiti conosciuti per vedere se è possibile scovare da qualche parte nuove risorse. La brutalità dello scontro porta coloro che vi prendono parte ad affossare le poche utili certezze possedute fin lì per costruirne di nuove al loro posto, molto più solide, talmente consistenti da divenire le basi del successivo cammino. Storicamente è molto difficile trovare squadre NBA che si siano poi effettivamente messe al dito l’anello che non fossero passate in precedenza, in un determinato momento del loro percorso, attraverso una dura, durissima prova. Se alla palla a due di gara 1 Oklahoma City aveva già avuto la sua battaglia (contro gli Spurs), quella in grado di farle acquisire il settimo senso, Golden State non poteva dire lo stesso. Pur dovendo sopperire all’assenza, tutt’altro che di poco conto, dell’MVP per larghi tratti di post season, gli Warriors non avevano dovuto attingere a piene mani a tutte le riserve di energia ed acume tattico di cui erano capaci per avere la meglio di Rockets e Blazers. Diciamoci la verità, anche in stagione regolare non sono mai stati costretti ad esplorare il fondo del barile. Anche negli incroci pericolosi con San Antonio, il biondo Kerr non perdeva occasione di ribadire come, a differenza di Popovich che in alcune circostanze dimostrava di essere passato agli scacchi, stesse in realtà ancora giochicchiando a dama. In un certo qual senso quindi, quando si è trattato di fare sul serio, i Thunder erano pronti, anzi prontissimi, preparati atleticamente e psicologicamente alla battaglia. Gli Warriors niente affatto. Dovevano ancora risvegliarsi dal confortevole torpore nel quale viaggiavano in automatico da un po’.

Nonostante un avversario in stato di grazia, in tutto simile alla vostra classica squadra del destino, i giallo-blu sembravano comunque a proprio agio nella prima parte della sfida contro i Thunder. Portavano il considerevole numero di blocchi di sempre, muovevano uomini e palla come in un flipper e giocavano al ritmo che è più congeniale alla banda di Curry: nei primi 3 quarti entrambe le squadre hanno viaggiato a 108.8 possessi per 48 minuti, un numero astronomico per la post season. Basta osservare il moto perpetuo di Klay Thompson attraverso i blocchi o la grande abilità nel tagliare dietro i difensori avversari oltre che la quantità assurda di cose in generale che succedono nella metà campo offensiva degli Warriors.

Come da copione, Golden State ha provato l’allungo in diverse circostanze ma OKC si è sempre rifiutata di andare al tappeto. Poi qualche ingranaggio s’è inceppato. Mentre Westbrook si abbatteva come un’ira funesta su ogni pallone incerto del terzo quarto, la squadra di casa perdeva inesorabilmente ritmo. Il numero di possessi per 48 minuti è sceso nell’ultimo periodo a 92.6 e il movimento continuo ha lasciato spazio a un immobilismo quasi da trincea della Prima Guerra Mondiale.

Merito soprattutto dei Thunder che provavano a congelare la partita e della stanchezza che i giocatori in campo hanno finito per accusare visto l’andamento frenetico delle azioni da una parte e dall’altra. Non va dimenticato che se KD e gli altri si trovano adesso all’apice della forma, soprattutto Curry e Bogut, reduci da un infortunio, non sono sembrati esattamente al 100% delle loro forze. E in casa Warriors non possono che sperare che la condizione del loro numero 30 migliori col passare dei giorni. Ciò che maggiormente ha indispettito Kerr è stata la fretta che i suoi hanno dimostrato nei frangenti decisivi. Fretta intesa non come mera velocità nel prendere una decisione bensì come qualità della decisione stessa. Chiedere agli Warriors di essere pazienti va contro la loro natura, soprattutto dopo che abbiamo ampiamente appurato e celebrato il fatto che Curry e soci stessero realmente riscrivendo da capo il concetto di “buoni tiri”. La strategia dei Thunder che, con i due lunghi saldamente in campo, era quella di cambiare su tutti i blocchi chiamava letture molto più ragionate. Bisognava mettersi lì ed esplorare i vari mismatch che certamente si stavano palesando. «Troppi tiri veloci. Mancavano 5 minuti ed eravamo sotto di 4 o giù di lì, e ci comportavamo come se restassero 20 secondi alla fine» ha dichiarato Kerr. Va bene che si tratta di Warriors ma il tiro in contropiede dall’angolo di Thompson con Livingston che ha davanti a sé un’autostrada verso il canestro non ha cittadinanza, neppure sulla Baia.

L’efficacia difensiva, inusitata prima della serie con gli Spurs, dei Thunder è stata osannata più o meno giustamente da tutti. Come ha sottolineato l’attento Zach Lowe, il rimedio di Donovan per il tremendo Death Lineup (o Coma Lineup con Livingston al posto di Iguodala) è stato mettere Adams e Ibaka su Iguodala (o Livingston) e Barnes, dislocando Durant eccezionalmente su Green in modo da scongiurare il micidiale pick & roll Curry-Green. Draymond ha portato a casa soltanto 8 blocchi sul palleggiatore, quando questi era Steph Curry, dato fra i peggiori della stagione e Durant ha potuto tranquillamente cambiare la marcatura a piacimento e seguire la point guard avversaria nelle sue evoluzioni a canestro. In un paio di circostanze è riuscito pure a deviarne il tiro o il passaggio rimontando da dietro. Lo staff di Golden State nelle ore che separano il primo dal secondo episodio della serie ha pane per i suoi denti. Possiamo scommettere che passerà sotto la lente d’ingrandimento certi inopinati sviluppi dell’azione e verrà fuori con i dovuti accorgimenti. Per esempio potrebbe stabilire di coinvolgere fino allo sfinimento i lunghi avversari nei cambi sui propri blocchi. Molto più di quanto fatto in gara 1. Così potrebbe costringere Adams a prendersi cura di un esterno molto lontano dall’area ed evidenziare la confusione già mostrata da Ibaka nei close-out su Curry lunedì.

Come è possibile vedere in questo ed anche in altri spezzoni di partita, la pressione difensiva di Oklahoma è stata sorprendente ma la maggior parte del danno Golden State se lo è inflitto da sola. Si è data la classica zappa sui piedi, sbagliando tiri che fino ad oggi aveva messo nel sonno. Nei tiri non contestati la squadra ha concluso con 16-34. Il solo Curry, colui che ha seminato terrore sotto forma di triple da circostanze inconsuete in giro per la lega, ha tirato con 4-11 con un metro abbondante di spazio. Anche perché KD fallendo 7, e dico sette, conclusioni a fila in isolamento ha offerto il fianco al possibile recupero finale degli avversari.

Un altro tasto su cui Kerr può e deve fare pressione è l’assurda superficialità con la quale i suoi hanno gestito alcuni possessi chiave. Le sanguinose palle perse di Steph sono lì a testimoniarlo. Tutto questo, mentre dall’altra parte, dove non ci sono esattamente Kidd e Magic Johnson a maneggiare l’arancia, le turnovers passavano dalle 10 del primo tempo all’unica del secondo. Di temi da sviscerare ce ne sono per riempire le stanze dell’intera Practice Facility di Oakland e il coaching staff degli Warriors è decisamente più competente di noi per proporre i dovuti adjustments. Non resta che aspettare gara 2.

Tommaso Mandriani

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