Nel luglio del 1947 un venticinquenne squattrinato e tormentato, con i tratti del bel viso distorti da una irrefrenabile irrequietezza giovanile, lasciò New York City alla volta di Denver, alla ricerca di un amico, che aveva conosciuto solo il Natale precedente. Quel venticinquenne rispondeva al nome di Jack Kerouac, e quel lungo viaggio verso il Colorado, verso Neal Cassidy, fu solo l’inizio delle sue peregrinazioni. Viaggi che più tardi Kerouac mise su carta, componendo una delle opere più iconiche del XX secolo, quel romanzo “Sulla strada” che è il manifesto ideale di un intero movimento di giovani americani: la Beat Generation. E proprio in una pagina di quel romanzo trova posto una frase che rappresenta la pura essenza del viaggio, che sintetizza in poche parole quel mix incerto di sensazioni ed emozioni che circondano il momento della partenza:
“Le nostre valigie logore stavano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevano altro e più lungo cammino da percorrere. Ma non importa, la strada è vita.”
Copertina dell’edizione inglese di “Sulla strada” di Kerouac; credits to: ilpopolodelblues.com via Google
Queste parole dovevano adattarsi fin troppo bene alla situazione che spessissimo viveva la famiglia di John e Wanda Morrison. Ex star sportiva a livello liceale lei, ex giocatore di basket lui, si erano conosciuti al Ponderosa, un vecchio bar di Scobey, in Montana, e si erano sposati nel 1974. Qualche anno dopo John era venuto a sapere della possibilità di diventare assistant coach alla Northern Montana University, l’inizio di una carriera da allenatore che lo avrebbe portato a viaggiare moltissimo negli anni successivi. Prima in una high school a Billings, Montana, poi al Dawson Community College di Glendive, solo 221 miglia più a est. Proprio in questo periodo, il 19 luglio del 1984, nacque l’ultimo figlio, l’unico maschio, di John e Wanda: Adam. Ma dopo anni di trionfi in quel di Glendive, la famiglia si trasferì di nuovo, prima a Mitchell, in South Dakota, dove John allenò la Dakota Wesleyan University, poi a Casper, in Wyoming, per allenare la squadra del Casper College. In ogni luogo John Morrison era fedelmente seguito dalla moglie Wanda, e dai tre figli, Adam e le sue due sorelle maggiori, Brandie e Sara. Sempre sulla strada la famiglia Morrison, sempre in viaggio, tanto da attraversare tre Stati prima ancora che Adam compisse dieci anni. Ma nel 1993 qualcosa andò storto: qualche giocatore del Casper College tentò di rubare l’apparecchiatura video dell’università, e nonostante fosse stato il loro stesso coach a denunciare l’accaduto, John Morrison venne licenziato. Con la sua carriera praticamente finita, l’uomo chiese alla sua famiglia un ultimo trasferimento, l’ultimo viaggio: i cinque riempirono ancora le loro valigie e partirono verso Spokane, nello stato di Washington.
Veduta notturna della città di Spokane; credits to: ohanarealestategroup.com via Google
Crescere all’ombra di un padre che era anche un allenatore di basket aveva dato ad Adam Morrison un’idea molto precisa di cosa sognare per il proprio futuro, e una dimensione ancora più precisa degli sforzi e del rigore necessari per arrivarci. Pur avendo spesso il padre come allenatore, Adam non ricevette nessun tipo di favoritismo, semmai fu sempre costretto a lavorare più degli altri, a sudare il doppio in palestra, ben consapevole del fatto che il successo sarebbe arrivato solo e soltanto se si fosse allenato come un pazzo, con tutta l’energia e l’impegno di cui era capace. Un po’ di predisposizione doveva averla però, perché fin da piccolissimo Adam aveva dato tutti i segni del proprio talento, e a quattordici anni, nel 1998, si guadagnò l’invito a un basketball camp estivo, organizzato da Gonzaga University. Ma quella era un’estate dura per Adam. Aveva cominciato a stare male, ad avere costanti giramenti di testa: perse quattordici chili in un’estate. Al camp di Gonzaga non riusciva a giocare, a tiare il pallone, si sentiva senza forze e rischiò più volte di svenire. Preoccupato, Adam si rivolse ai medici che gli diagnosticarono il diabete di tipo 1. Chiunque si sarebbe scoraggiato. Sarebbe stato facile di fronte a una simile malattia, mettere da parte il basket, rinunciare, e magari seguire un’altra strada. Ma Adam Morrison aveva scelto il suo sogno fin da bambino, e non aveva la minima intenzione di arrendersi. Preferiva andare in campo, e doversi fermare ogni tanto a bere un succo di frutta piuttosto che abbandonare quel sogno. Con il sostegno di tutta la famiglia, Adam Morrison continuò a giocare, e diventò la star della Mead Senior High School di Spokane.
Adam Morrison con la maglia della Mead High School; credits to: areyouthesmartestfan.com via Google
Era un attaccante straordinario, un realizzatore mostruoso e nel suo anno da senior riuscì nell’impresa di trascinare di peso la Mead alla finale di stato, contro la Franklin High School di Seattle, senza mai perdere una partita. Ma questa fiaba non era destinata a un lieto fine: in una partita drammatica, Adam Morrison, nonostante un attacco ipoglicemico che lo portò al limite dello svenimento, segnò 37 pts, ma non riuscì a evitare il tracollo di Mead, che perse 67-55. Era il 2003, e Adam Morrison era considerato uno dei più forti prospetti liceali del paese. Molti atenei lo guardavano con l’acqua alla gola, ma lui scelse di rimanere vicinissimo a casa, a Spokane, iscrivendosi a Gonzaga University. Sarebbe stato un matrimonio felicissimo.
Adam Morrison con la maglia dei Gonzaga Bulldogs; credits to: alarmingnews.com via Google
Nel suo anno da freshman condusse la squadra alla vittoria nella West Coast Conference, mettendo a segno 11.4 pts di media, con un season high di 22 pts contro St. Mary. Coach Mark Few raffinò ancora di più quel realizzatore sensazionale, preparandolo a palcoscenici più strabilianti, creando un’arma offensiva di rara efficacia. Già nella successiva stagione da sophomore, infatti, Adam Morrison fece registrare un incremento statistico alla voce punti: furono 19 a partita, con un season high di 28, messo a segno contro San Francisco, compreso il decisivo canestro della vittoria a 0.6 secondi dal termine della partita. Gonzaga vinse di nuovo la WCC. Ma fu il terzo anno, quello da junior, l’anno della consacrazione di Morrison. Già nella preseason, al Maui Invitational, Adam face registrare prestazioni esplosive: prima 25 pts contro Maryland, poi 43 nella vittoria su Michigan State, in una partita al cardiopalma, condita da 3 overtime. Morrison continuò con questa determinazione anche in regular season: segnò 43 pts il 4 dicembre 2005 nella sconfitta contro i rivali interstatali di Washington e infilò la tripla della vittoria a 2.5 secondi dal termine nella partita contro Oklahoma State della settimana successiva. Il 18 febbraio 2006 mise a segno il suo career high: 44 pts contro Loyola Marymount. Segnò 30 e più punti in 13 partite, più di 40 in cinque di queste. Con 28.1 pts a partita fu il leading scorer a livello nazionale. Non sfigurò nemmeno nelle 11 partite giocate contro squadre di major conference, con una media di 28.5 pts a partita.
Adam Morrison in azione per Gonzaga; credits to: cbssports.com via Google
Morrison condusse Gonzaga alle Sweet Sixteen, dove i suoi Bulldogs incontrarono UCLA. I Bruins erano una squadra colma di talento e di futuri prospetti NBA del livello di Jordan Farmar, Ryan Hollins, Darren Collison, Luc Richard Mbah a Moute e Arron Afflalo, ma Gonzaga non si lasciò spaventare. Durante la partita Morrison e i suoi toccarono addirittura il massimo vantaggio di +17, lasciando pensare alla possibilità di un incredibile upset. Ma da quel momento iniziò la tragedia ad atto unico dei Bulldogs e di Adam Morrison. Il vantaggio venne clamorosamente dilapidato mentre UCLA metteva in scena una furiosa rimonta che la portò a vincere la partita all’ultimo secondo, per 73-71. Nulla avevano potuto i 24 pts (10/18 dal campo) di Morrison che, frustrato dall’impresa sfumata, scoppiò in lacrime alla fine della partita, prostrandosi a terra. Fu Arron Afflalo ad aiutarlo a rialzarsi. Quelle lacrime divisero i media: ci fu chi lo criticò come un inutile segno di emotività, e chi invece lo considerò un segno di attaccamento alla squadra e alla città, complimentandosi con lui.
Ma la stagione era finita, e a Morrison poco importava delle polemiche sulle sue lacrime. Alla fine della stagione vinse il Player of the Year Award, in compartecipazione con J.J. Redick di Duke, ma soprattutto Adam Morrison prese una seria decisione sul suo futuro e si dichiarò eleggibile per il Draft NBA dell’estate 2006.
Era stata una stagione difficile per molte squadre, quel 2005/06: sulla West Coast i Portland Trail Blazers, guidati da coach Nate McMillan, avevano fatto segnare l’imbarazzante record di 21-61, ma dall’altro lato d’America la situazione era disastrosa: tre squadre infatti non erano riuscite ad arrivare alle 30 vittorie. In primo luogo i New York Knicks di Larry Brown, che misero insieme un mesto 23-59; poi i Charlotte Bobcats che, agli ordini di Bernie Bickerstaff avevano bagnato la loro seconda stagione nella lega con un 26-56, e infine i Toronto Raptors, che coach Sam Mitchell non era riuscito a portare oltre il 27-55. Erano queste le quattro franchigie più accreditate ad aggiudicarsi la prima scelta assoluta in quel Draft 2006, se non che i Knicks avevano ceduto i diritti della loro scelta ai Chicago Bulls. Durante la Draft Lottery, quindi, il logo dei chicagoini sostituì quello dei newyorchesi, e venne estratto come beneficiario della seconda scelta, subito dopo Toronto, che ottenne la prima, e prima di Charlotte che ebbe la terza, mentre Portland dovette accontentarsi, nonostante i favori del pronostico, della scelta #4. Così la notte del 28 giugno 2006 al Madison Square Garden di New York, il mondo del basket professionistico era in fermento, in attesa di vedere quali fossero i futuri fenomeni che sarebbero entrati nel giro della lega più spettacolare al mondo.
La Draft Class del 2006; credits to: nba.com via Google
L’establishment di Toronto scelse di guardare molto fuori dai confini, oltreoceano, andando a pescare con quella prima scelta che la Lottery aveva dato loro in dote, un lungo italiano che militava nella Benetton Treviso e rispondeva al nome di Andrea Bargnani. Subito dopo, i Chicago Bulls draftarno LaMarcus Aldridge da University of Texas (salvo poi spedirlo a Portland in cambio della quarta scelta). Giunto il loro turno, alla scelta #3 i Charlotte Bobcats, e il loro GM nuovo di zecca (un tale che rispondeva al nome di Michael Jordan) si guardarono intorno: la loro squadra era già imperniata su un lungo, un giovanissimo Emeka Okafor, e da quel punto di vista si sentivano coperti. Dal Draft 2005 era arrivato Raymond Felton nel ruolo di playmaker, e c’era anche Gerald Wallace. Quello che Charlotte cercava era un esterno dal canestro facile, un’ala in grado di segnare una gran quantità di punti, aiutando la squadra nella metà campo offensiva (visto che l’attacco dei Bobcats era risultato soltanto il 27esimo della lega nella stagione precedente). C’era un solo nome che rispondesse a tutte queste qualità, ed era quello di Adam Morrison, da Gonzaga University. Subito dopo Portland draftò Tyrus Thomas (girato a Chicago per Aldridge), alla #6 i Minnesota Timberwolves presero Brandon Roy (per girarlo a Portland), alla #8 gli Houston Rockets selezionarono Rudy Gay (poi girato a Memphis), alla #21 i Boston Celtics credettero in Rajon Rondo e alla #24 i Memphis Grizzlies draftarono infine Kyle Lowry.
Adam Morrison appena draftato dai Bobcats; credits to: espn.go.com
Morrison arrivò a Charlotte mascherato un po’ da salvatore della patria con quella sua facilità nel segnare che era diventata leggenda nell’ambiente NCAA. E non guastava il suo look alternativo che ne fece rapidamente un personaggio mediatico, con quei capelli lunghi e selvaggi e quei baffi quasi prepuberali così poco affascinanti. Non era bello, Adam Morrison, ma sapeva farsi amare. A Charlotte erano tutti in fibrillazione per il suo arrivo, Bickerstaff era convinto di poter già contare, dopo soli due anni, su una squadra in grado di giocarsi l’accesso ai playoff. Ma prima bisognava giocare.
Adam Morrison in campo per i Charlotte Bobcats; credits to: areyouthesmartestfan.com via Google
Adam Morrison esordì in NBA la sera del 1 novembre 2006, nella partita persa dai Bobcats contro gli Indiana Pacers per 106-99. Nonostante ciò la prima di Morrison non fu da buttare – 14 pts, 3 rbd, 2 ass e 2 stl in 31 minuti, con un unico neo: un 5/13 dal campo (38%) e 1/3 da tre punti (33%). Di certo non si poteva dire che il ragazzo non avesse fiducia nella propria abilità al tiro. Partita dopo partita però, quelle percentuali non migliorarono, anche se i punti messi a segno dal prodotto di Gonzaga erano in continua ascesa: il 30 dicembre 2006, di nuovo contro gli Indiana Pacers mise a segno quello che sarebbe diventato il suo career high, infilando 30 pts nella vittoria dei suoi per 113-102. In quel match riuscì persino a realizzare il 53% dei tiri tentati (9/17) nei suoi 38 minuti sul parquet. Ma le percentuali al tiro non erano il suo unico problema. Infatti, incantati dalle sue qualità nella metà offensiva del campo, nessuno aveva notato le sue pecche in quella difensiva. Mancanze che finirono ben presto per sottrargli l’onore del quintetto titolare, che si era guadagnato con le sue ottime prestazioni nei primi due mesi di regular season. Delle 78 partite nelle quali calcò il parquet, fu titolare soltanto 23 volte, pur assommando anche dalla panchina importanti minuti di gioco (chiuse con una media di 29.8). Alla fine della stagione Adam Morrison aveva compilato una statline più che dignitosa (11.8 pts; 2.9 rbd e 2.1 ass) ma le sue medie al tiro non erano mai salite e il 37% dal campo che fece registrare non era abbastanza per la NBA.
Adam Morrison in campo con i colori di Charlotte; credits to: rumorsandrants.com via Google
Eppure coach Bickerstaff sapeva di poter cavare qualcosa di ottimo da quel ragazzo. Gli sarebbe bastato lavorare un po’ con lui, perché di talento Adam Morrison ne aveva tantissimo. Ma il Fato si mise di traverso ai piani dei Bobcats: durante un exhibition game della preseason 2007, giocato il 21 ottobre contro i Los Angeles Lakers, Morrison stava difendendo su Luke Walton. E stava facendo un ottimo lavoro di copertura, ma una torsione improvvisa lo fece cadere a terra con il ginocchio tra le mani in preda a fitte di dolore. Il responso degli esami clinici fu inclemente: rottura del legamento crociato anteriore, era necessario un intervento chirurgico, la stagione da sophomore di Morrison era finita ancor prima di cominciare. Dopo essere stato costretto a passare l’intera annata 2007/08 ai margini, Adam Morrison si allenò duramente per tornare al posto che gli competeva l’anno successivo e riconquistare la fiducia del coach, insieme al suo posto in squadra. Ma Charlotte sembrava aver trovato la sua dimensione senza di lui: rientrato nel 2008 giocò con i Bobcats 44 partite delle quali solo 5 da starter, e nelle quali risultò quasi completamente avulso dal gioco della squadra: il suo bottino fu di 15.2 minuti giocati a 4.5 pts, 1.6 rbd e 0.9 ass e il 36% dal campo. Era una autentica caduta in disgrazia. Ormai ai margini del progetto Bobcats, il 7 febbraio 2009, insieme a Shannon Brown, venne mandato a Los Angeles, sponda Lakers, in cambio di Vladimir Radmanović.
Adam Morrison in una delle sue rare apparizioni per i Lakers; credits to: nba.com via Google
In maglia gialloviola, il contributo di Morrison divenne ancora più risicato: solo 8 partite di regular season giocate, a 5.5 minuti, 1.3 pts, 1 rbd e il 33% dal campo. Medie assolutamente indegne per una terza scelta al Draft, e solamente al terzo anno di carriera NBA. Ma del resto in quei Lakers, la squadra di Kobe e Pau Gasol, Adam Morrison non poteva aspettarsi di trovare più spazio. Nei playoff non toccò nemmeno il campo, assistendo da spettatore alla cavalcata verso l’anello della sua squadra. Certo, c’era anche lui la notte in cui una cascata di coriandoli scintillanti si riversarono sui Lakers in festa, anche lui abbracciò Kobe e Gasol, Odom e Bynum, Fisher e Walton e Ariza, ma quella inattività forzata, la muffa della panchina non poteva renderlo felice.
Adam Morrison durante i festeggiamenti per il titolo NBA con i Lakers; credits to: ballnroll.com via Google
Eppure anche nella stagione successiva Adam Morrison rimase a Los Angeles, sperando forse di trovare spazio nel cuore di Phil Jackson, dei tifosi gialloviola, nelle grazie di Kobe e nelle rotazioni dei Lakers. La sua situazione migliorò solo in modo molto parziale: 31 partite a 7.8 minuti di media, con 2.4 pts; 1 rbd; 0.6 ass e una percentuale realizzativa che non voleva spostarsi dal 37%. Ma ebbe finalmente la sua occasione in postseason, dal momento che Coach Zen gli concesse 6.5 minuti per due partite, nelle quali Adam fece registrare 4 pts e 2.5 rbd tirando con il 44% dal campo. I Lakers completarono la loro seconda cavalcata consecutiva, e un nuovo anello giunse ad ornare le dita degli uomini di quel roster, compreso Morrison. Ma quell’estate il contratto di Adam arrivò a naturale scadenza, e i Lakers non ritennero necessario rinnovarlo.
Adam Morrison con la maglia dei Washington Wizards; credits to: gettyimages.com via Google
Dopo sole quattro stagione tra i “grandi” Adam Morrison era a spasso, un giocatore finito, assolutamente caduto in disgrazia, alla ricerca disperata di un contratto NBA. Ci provarono i Washington Wizards, con i quali firmò un contratto per la stagione 2010/11, ma nemmeno i capitolini seppero trovargli uno spazio nel loro roster, e finirono per tagliarlo poco prima della conclusione del training camp. Non rimaneva che scappare, per continuare a seguire quel sogno chiamato basket che Adam inseguiva da quando era un bambino, e che l’aveva sedotto come una Sirena, prima di provare ad abbandonarlo. Morrison riscoprì l’essenza del viaggio, quel gusto “on the road” che da bambino era stato il suo pane quotidiano, e attraversò l’oceano pur di ritrovare quella Sirena, pur di tornare nelle sue grazie, e farle vedere di nuovo che era ancora un degno e fedele seguace. Sbarcato in Serbia, nel settembre 2011 Adam Morrison firmò un contratto con il KK Crvena Zvezda (meglio noto come Stella Rossa) di Belgrado.
Morrison con la maglia della Stella Rossa; credits to: guboards.spokesmanreview.com via Google
Un matrimonio breve e passionale, fatto di 15.5 pts, 3.1 rbd e 1.5 ass in 8 partite, prima che le due parti decidessero per il taglio, nel novembre 2011. Nonostante l’esperienza non esattamente indimenticabile in termini di longevità, Morrison risultò ugualmente il top scorer dei serbi e il secondo miglior performer della Adriatic League. E un giocatore del genere non sarebbe restato libero a lungo in Europa.
Adam Morrison con i colori del Beşiktaş; credits to: fibaeurope.com via Google
Ci pensò il Beşiktaş Milangaz, nel gennaio 2012 ad offrirgli un contratto, per una esperienza di nuovo molto breve, che si concluse ad aprile, quando fu lo stesso Morrison a rinunciare. La forte consapevolezza di poter dare di più alla NBA lo richiamava in patria, il canto della Sirena si spostava di nuovo, verso gli USA, verso la Summer League.
Adam Morrison alle sue ultime esperienze in Summer League; credits to: nba.com; ball-4-life.blogspot.com; zimbio.com via Google
Così nell’estate 2012 partecipò a 5 partite a Las Vegas con la maglia dei Brooklyn Nets, trovando però poco spazio (19.2 minuti e 5.2 pts), e ad altre 5 con quella dei Los Angeles Clippers (20 pts, 5 rbd e 1 ass, con il 55% dal campo, il 61% da tre e il 78% ai liberi). Prestazioni che lo ripresentarono all’attenzione delle franchigie NBA: il 21 settembre i Portland Trail Blazers gli offrirono un contratto per partecipare al training camp della squadra, per giocarsi di nuovo le sue chance. Ma un mese non bastò a convincere coach Terry Stotts, e il 27 ottobre Morrison venne tagliato.
Adam Morrison e la sua esperienza da assistant coach a Gonzaga; credits to: areyouthesmartestfan.com via Google
E così infine Adam Morrison intraprese il suo ultimo viaggio, il ritorno. Rientrò a Spokane, per concludere gli studi interrotti a Gonzaga, dove si laureò nel 2014. L’anno successivo l’ateneo gli offrì un lavoro come assistant coach per la stagione 2014/15. Sembrava che la storia di papà John potesse ripetersi, magari con una buona carriera da allenatore, ma alla fine del 2015 Adam venne licenziato da Gonzaga, e la sua avventura sui pini collegiali si concluse lì.
O forse no. Perché nessuno sa dove potrebbe portarlo il prossimo viaggio, perché nessuno sa mai dove sta andando finché non si mette sulla strada, proprio come diceva Kerouac:
“«Dobbiamo andare, e non fermarci mai finché non arriviamo.»
«Per andare dove, amico?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare.»”
Andare, non fermarsi: chi può saperlo meglio di Adam Morrison?