Quanti nati negli anni ’90, indecisi se continuare a glorificare l’aura ancora errante del ritirato Michael Jordan o salire sul carro stracolmo di talento, ossessione e ben presto anelli trainato dalla nuova stella Kobe Bryant, si sono uniti sotto un’unica egida rossa, bianca e blu con la scritta Iverson stampata dietro. Quel folletto tutto rap e crossover ha ricollocato Philadelphia sulla mappa NBA ma ad oggi la situazione nella città dell’amore fraterno non sembra delle più chiare.
NBA Finals: 9
Vittorie: 3 (1955,1967,1983)
Antefatti
Non potendo ripartire dalle gesta di “The Answer” per ovvie questioni di tempo proviamo a ripartire da un altro personaggio che a basket non è granché ma dietro ad una scrivania e con un computer era convinto di poter trovare LA risposta: Sam Hinkie. Non esattamente il comune studente di Economia dal momento che ad Oklahoma si laurea cum laude e viene inserito tra i 60 laureati più promettenti negli USA. Decide di conseguire un Master a Stanford (non proprio l’Università di Topolinia) e mentre lo fa passa il tempo libero a sciorinare grafici di advanced statistics sia per un paio di squadre di NFL sia per gli Houston Rockets. Proprio la franchigia texana, nella figura di Carrol Dawson (GM dal 1996 al 2007), mette sotto contratto il cervello statistico che promette di rivoluzionare completamente l’arte del draft NBA (ci torneremo). Quando incontra Daryl Morey (attuale GM dei Rockets) è amore a prima vista considerando che anche l’uomo del Wisconsin tende ad avvicinarsi al basket con un approccio decisamente analitico. Tuttavia è inevitabile che ad una personalità ambiziosa e saccente come quella di Hinkie vada stretto fare il secondo in comando, seppur ancora lontano dagli anta, e il posto vacante di General Manager ai Philadelphia 76ers fa al caso suo. Viene assunto nel Maggio del 2013, dal momento che l’allora GM Tony DiLeo aveva perso ogni tipo di credibilità, reo di aver portato a Philly Andrew Bynum privandosi di Iguodala, Lou Williams, Vucevic e un paio di scelte rivelatesi piuttosto alte. Per i più smemorati l’ex Lakers non ha disputato un singolo minuto in maglia Sixers per problemi fisici (evidentemente) fin troppo sottovalutati e per qualche disavventura quanto meno evitabile. Eppure la mossa doveva servire per confermare Philadelphia tra le prime 4 forze dell’Est, dal momento che nel 2012 la squadra si era arresa in semifinale di Conference contro gli ultimi Celtics dei Big Three in 7 partite. Inevitabilmente però la perdita di due uomini come Iguodala e Williams intacca e non poco il gioco di coach Doug Collins, il quale si affida al miglior Jrue Holiday della carriera mettendogli intorno un supporting cast giovane ma promettente formato dai vari Turner, Young, Hawes, Wright, gettando le fondamenta per un nucleo quanto meno competitivo in un Est decisamente poco provante. Dopo la stagione ’12/’13, chiusa a 4 vittorie dai playoff, Collins decide di rassegnare le dimissioni, svuotato dalle innumerevoli responsabilità e desideroso di trascorrere più tempo con la sua famiglia. In cabina di comando sale appunto Sam Hinkie e al timone si mette Brett Brown, ignaro del futuro quantomeno bizzarro che lo attende.
Dalla faccia di Brown si dovevano capire tante cose…
Già perché quella che latente si fa spazio nei pensieri rivoluzionari dello zio Sam è a tutti gli effetti un utopia, che a tratti offende la componente sportiva del gioco. Mettiamola così: la logica applicata da Hinkie in sede di draft ricorda vagamente quella di Josè e dell’altro bambino in una delle più celebri pubblicità che l’Adidas abbia mai messo in piedi. Prendere sempre il giocatore migliore (Best available player in termini tecnici) indipendentemente dalle esigenze momentanee della squadra. Nel draft 2013 comincia ad intravedersi l’avanguardistico sistema che il GM dei Sixers vuole introdurre. La prima cosa che fa è scambiare l’allora franchise player tale Jrue Holiday in cambio della sesta scelta dei New Orleans Pellicans e di una scelta protetta al primo giro del draft successivo. Quella notte sbarcano a Philadelphia Nerlens Noel (infortunato per tutta la stagione) e Michael Carter Williams, ovvero i due migliori giocatori arrivati a quel punto del draft. Già perché lo scopo finale del progetto targato Hinkie vede la squadra giocarsi, in un paio di stagioni massimo, la possibilità di alzare il Larry O’Brien Trophy senza passare per le solite tappe che prevedono un processo in cui la squadra è competitiva prima di diventare una contender. L’idea è stata attuata a Houston, creando i presupposti per la firma di James Harden che a quel punto ha convinto anche Dwight Howard, e adesso l’occhio di bue si sposta a Philly dove Hinkie vuole attuare la sua personalissima rivoluzione copernicana. Il primo passo è stato assumere un coach competente come Brett Brown, il quale ha passato 10 anni della sua vita a San Antonio dove lavorava sulla crescita dei giocatori con un occhio particolare per quelli appena svezzati. Il secondo implica l’accumulo ossessivo di asset spendibili in futuro per costruire una squadra giovane e talentuosa senza appesantire il salary cap. Il terzo e più difficoltoso prevede l’acquisizione di un franchise player con la P maiuscola che dovrebbe poi convincere ad unirsi alla ciurma almeno un altro All-Star e un supporting cast di livello. Fino ad allora vincolare il comportamento della franchigia al mero termine tanking sarebbe quantomeno eufemistico dal momento che Hinkie si guarda bene dal tenere più di 10 minuti un giocatore che possa portare in dote vittorie.
A Febbraio Evan Turner, Spencer Hawes e Lavoy Allen salutano la compagnia in cambio di scelte spesso al secondo giro e con l’unico motivo di creare spazio salariale e di aumentare le palline il giorno della lottery. In questo universo distorto coach Brown dovrebbe provare anche a dare un identità alla sua squadra: effettivamente parliamo del peggior attacco della lega (99,4 di Off Rtg), di una difesa che concede 109,9 punti ogni 100 possessi, ma anche della squadra che gioca più possessi per partita (Pace 99,2) e che tenta più conclusioni a partita dopo i Timberwolves. L’idea del management nell’assumere Brett Brown si basa sulle capacità del nativo del Maine di conferire alla squadra un buon assetto difensivo (con calma si intende) per poi andare il più velocemente dall’altra parte e concludere con tiri ad alto potenziale, possibilmente da dove vale 3 (anche qui ci arriveremo). La stagione di esordio per Brown vede l’esplosione del talento di Carter-Williams che chiuderà con 16,7 punti, 6,3 assist e 6,2 rimbalzi, il premio di Rookie of The Year e i kitammuort di Hinkie, il quale è costretto a vedere la sua accozzaglia di scappati di casa vincere la “bellezza” di 19 partite. Risultato: il didietro dei Cavs e il peggior record dei Bucks porta Phila a scegliere con la numero 3 al draft 2014. Da una parte ovviamente è un male poiché le due stagioni di Wiggins dimostrano che uno così faceva comodo, dall’altra però c’è la possibilità di continuare a prendere giocatori totalmente ininfluenti nel breve periodo, dal momento che Embid è infortunato e Dio solo da quando lo vedremo calcare un parquet NBA, Saric rimane parcheggiato 2 anni all’Efes e gli altri del secondo giro sono onesti panchinari ma nulla più. Inoltre ad Agosto anche Young viene scambiato, coinvolto nella trade che porterà Love a Cleveland, mentre a Philadelphia arriveranno Shved, Mbah a Moute (destinati a durare poco nella città dell’amore fraterno) e una prima scelta. Come era facilmente intuibile la stagione ’14/’15 inizia decisamente peggio della precedente con i Sixers che scrivono la prima W a Dicembre e Hinkie atto a sfregarsi le mani per aver costruito una squadra perdente. E pensare che a fronte di un attacco tra il pietoso e il tenero e un Pace diminuito a 95,7 Brett Brown riesce nell’arduo compito di far funzionare i meccanismi difensivi della squadra. Forti anche del sostanzioso apporto sotto le plance di Noel i Sixers hanno il tredicesimo Defensive Rating della lega, migliorandolo di oltre 5 punti ogni 100 possessi (9 con il prodotto di Kentucky in campo).
C’è da dire che anche la qualità dei singoli non facilità il compito di marcare punti e la maggior parte dei tiri tentati provengono da oltre l’arco, dato in cui la franchigia della Pennsylvania si posiziona sesta nella lega e che converte con un discreto 29% compresi alcuni tiri dal coefficiente di difficoltà piuttosto elevato contro chi di triple se ne intende.
Nel momento in cui però Hinkie vede troppi lati positivi passa alla contromossa che a Febbraio prevede la cessione di Michael Carter-Williams in cambio di una prima scelta dei Suns. Evidentemente il ROY non aveva il pedigree per trasformarsi in tempi brevi nel franchise player, così la dirigenza ha preferito privarsi di un elemento in grado di aggiungere vittorie o se preferite di sottrarre palline alla lottery. Il record finale recita 18-64 e tanto c’è chi ha fatto peggio (Minnesota e New York) e chi ha più fortuna nelle lotterie (Lakers) con il risultato di trovarsi di nuovo una terza scelta in mano. La notte del draft viene estremizzato il concetto di Best available player dal momento che i Sixers, dopo aver preso due lunghi negli ultimi due anni, chiamano Jahlil Okafor, 211 centimetri from Duke.
La stagione 2015/16 sembra una sceneggiatura già scritta dal momento che per una squadra che le vince tutte ce n’è una che le perde tutte. La sconfitta del 27 Novembre a Houston è la numero 27 di fila e decreta la striscia più lunga di sconfitte nello sport professionistico americano per una singola squadra, striscia che verrà poi allungato con il KO di Memphis fissando il record a 28. La vera sorpresa però sta in quello che succede all’interno del Front Office. L’owner Josh Harris si vede quasi costretto ad assumere Jerry Colangelo come Chairman of Basketball Operations, spinto dal disappunto degli altri proprietari per le performance deleterie della sua franchigia. Come se non bastasse pochi giorni dopo viene assunto Mike D’Antoni come assistente “speciale” al fianco di Brett Brown, il tutto senza che Hinkie potesse avere voce in capitolo. Si fanno aspettare un po’ ma alla fine le dimissioni di Sam Hinkie arrivano tramite dossier di 13 pagine (poteva andarsene in punta di piedi uno così?!) dove spiega le sue motivazioni e tutta la sua delusione per non aver creduto nel “Processo”. A sostituirlo arriva Bryan Colangelo il quale è pronto a formare un duumvirato padre-figlio per risollevare le sorti di una franchigia che ha chiuso il 2016 con 10 vittorie e 72 sconfitte.
Bryan e Jerry per servirvi
Situazione attuale
Sedotto, coccolato e alla fine abbandonato. Il danno di aver fallito nel suo ambizioso progetto in quel di Philadelphia racchiude in se anche una clamorosa beffa che le tanto agognate palline della lottery fanno cadere sul capo ormai mozzato dell’ex GM. Già perché il 23 Giugno al Barclays Center saranno proprio i 76ers a chiamare per primi avendo ottenuto quella prima scelta assoluto che Hinkie ha tanto bramato ma che gli è sempre sgusciata via dalle mani. Bene, ma senza gli algoritmici pensieri del figlio di Ron scegliere tra un rubino e uno zaffiro sembra veramente un esercizio per sciamani. Gli unici ad aver già scelto sono i riflettori, spesso anche indigesti per un australiano di 2,08 m che risponde al nome di Ben Simmons. Atleticamente è spaventoso, mette palla per terra con facilità disarmante tanto che è in grado di passare nel giro di un paio di minuti da una cosa così
a un’altra così
In alcune sue giocate (soprattutto in contropiede) le movenze ricordano troppo quelle del 23 di Cleveland. Nessuno sta dicendo che Simmons diventerà il nuovo Lebron, semplicemente ci sarebbe piaciuto vedere James al college e dal momento che il destino ha voluto diversamente riesce facile accostare questo ragazzo australiano al Lebron diciannovenne. A spingere Simmons in Pennsylvania ci sono anche i rapporti con Brett Brown; visto che anche nella scelta del college i rapporti personali hanno pesato, anche in sede di draft potrebbero far pendere la bilancia da una delle due parti. Eppure negli ultimi mesi, complice l’assenza di LSU dal torneo NCAA, la prima scelta sembra legittimamente insidiata dal signor Brandon Ingram il quale è un anno più giovane del suo collega, gli rende due centimetri ma tira da 3 con il 41% e nella direzione in cui va la lega rischia di tornare utile uno alto quanto Joel Anthony che apre il campo come McCollum. Inoltre quest’estate dovrebbe unirsi al gruppo anche Dario Saric e per quanto l’idea di giocare con un quintetto di 2,06 m di media sia accattivante rischia di essere difficile da far funzionare per l’intera stagione. L’idea è che alla fine la decisione verrà presa poco prima del gong finale e una decisione simile potrebbe dirci se Philadelphia è destinata a tornare sulla mappa oppure no. La franchigia guidata dai Colangelos avrebbe anche altre due scelte in fondo al primo giro ma questo non sembra essere il draft in grado di regalare steal così in basso (voi comunque non fidatevi vista l’aura fiabesca che avvolge questo 2016).
Per quanto riguarda la free-agency l’obiettivo primario è quello di mettere a disposizione delle giovani Twin Towers (aspettando che la terza torre Embiid si palesi) un corredo di esterni in grado di punire dal perimetro le numerose attenzioni che verranno riservate ai due lunghi. Premesso che ci sarebbe abbastanza spazio per firmare sia James che Durant le attenzioni di Bryan Colangelo si rivolgeranno su quei giocatori alla caccia di un max-contract per il quale sacrificherebbero anche qualche anno ai vertici della lega. La stima di Demar DeRozan nei confronti di Colangelo è nota eppure di occhi addosso la stella dei Raptors ne ha fin troppi, quindi magari la franchigia potrebbe virare su un Mike Conley o su un Brandon Jennings visto l’impellente bisogno di aggiungere una point guard a roster.
Prospettive future
La situazione dei Philadelphia 76ers non sembra in grado di migliorare particolarmente nel breve periodo. La squadra è ricca di buoni giovani in prospettiva con un paio che possono puntare all’eccellenza e il Front Office non può far altro che ammassare talento per costruire un’ ossatura solida e futuribile in grado di attirare qualche pezzo importante della free-agency. In quest’ottica non è follia pensare che anche la prossima stagione il pubblico del Wells Fargo Center assisterà ad un’annata con poche vittorie cercando di intravedere qualche scenario intrigante per la stagione 2017/2018. Infatti non bisogna dimenticare che il salary cap continuerà ad aumentare, sfondando quota 100 milioni tra due anni (secondo le previsioni di DraftExpress). Rimane quindi una strategia percorribile quella di mettere al centro del progetto i vari Okafor, Noel, Embiid, Saric, Covington, Grant, solidificare l’apparato scheletrico della franchigia con l’aggiunta di role players magari in cerca di riscatto (Eric Gordon? Mario Chalmers?) che aiutino la squadra a produrre una discreta pallacanestro ma senza aumentare eccessivamente il numero di vittorie e infine tra un anno sondare pesantemente il mercato dei free-agent sperando di avere qualche asso da giocare.
Un’altra strada porta al gioco ad incastro degli scambi, dove Jahlil Okafor sembra l’indiziato numero uno a lasciare la culla della democrazia americana. Voci di corridoio dicono che a Febbraio i Sixers lo avessero proposto ai Celtics e che l’asse Philadelphia-Boston sia ancora calda. Tuttavia i sempre più appetibili 3&D in maglia verde sono decisamente nelle grazie di coach Stevens, il quale ci penserà bene prima di dare il placet ad uno scambio (Bradley e Crowder i più cercati). Molto dipenderà anche dalle condizioni fisiche di Embiid il quale, se avrà recuperato del tutto dal problema all’ osso navicolare del piede destro, potrebbe essere preferito ad un Okafor che in campo ha convinto fino a un certo punto e fuori ha regalato performance decisamente poco edificanti, ma tutto dipenderà dalle decisioni del Front Office. Perché la coccarda con il numero 3 possa rimanere vivida nei ricordi dei tifosi di basket c’è bisogno che l’organizzazione esegua un deciso cambio di rotta, altrimenti rimarrà issata sul tetto del Wells Fargo Center, impolverata e in attesa che qualcuno ne possa raccogliere la pesante eredità.