Essere la squadra per cui ha giocato lo sportivo più riconoscibile della storia è un fardello non indifferente. Quella canottiera rossa e bianca con il numero 23 stampato dietro è in assoluto uno dei cimeli più popolari della cultura occidentale contemporanea. A testimoniare l’importanza che ha avuto per Chicago c’è una statua all’entrata dello United Center che lo assurge a semidio. I tifosi dei Bulls non ne chiedevano un altro così, difficile che ne nascerà un altro così, però erano rimasti colpiti da quel Derrick Rose che doveva riportare la franchigia all’anello, obiettivo fin’ora mai nemmeno sfiorato.
NBA Finals: 6
Vittorie: 6
Antefatti
Sia chiaro, nessuno sta addossando delle colpe ad un giocatore totalmente fuori dal normale, per il quale hanno dovuto creare un contratto apposito, perché non si credeva possibile diventare MVP al terzo anno nella lega e invece. La sfortuna di Rose è nel ritrovarsi un supporting cast difensivamente mostruoso quanto offensivamente mediocre che gli ha impedito di superare l’ostacolo Lebron nel 2011, e poi di essere incappato in uno degli infortuni più seri per uno sportivo. In gara 1 del primo turno di playoff 2012 si sbriciola il legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro e vedrà dalla TV la fine della serie (persa 4-2 contro i Sixers) e l’intera stagione successiva. Nel 2013 torna in campo, gradualmente riacquista confidenza con il parquet e con il suo corpo dimostrando che lo smalto manca ma la classe è intatta. Peccato che il 22 Novembre a Portland, per inseguire Batum dopo un recupero, poggia male il ginocchio destro. Si siede normalmente in panchina come se si trattasse di un piccolo contrattempo, ma dopo pochi minuti viene accompagnato claudicante negli spogliatoi. La risonanza magnetica dirà lacerazione del menisco e intervento necessario con tanto di comunicato dei Bulls che a distanza di diciotto mesi dalla prima volta devono scrivere sul proprio sito “Derrick Rose out for the season”.
Nonostante le evidenti macumbe esercitate da qualcuno ai danni della franchigia di Jerry Reinsdorf la squadra non va nemmeno così male. È allenata egregiamente da Tom Thibodeau, umile figlio del Connecticut in grado di far innamorare Jeff Van Gundy per la maniacale cura che metteva nei suoi esercizi per la difesa. Dopo aver trasformato i Celtics in una delle difese più arcigne della NBA e aver fatto passare più di una notte insonne a Kobe Bryant durante le Finals del 2008, viene scelto dai Bulls nel 2010 come head coach. Il suo è un basket semplice, si ispira inizialmente alla Triangole Offense di Tex Winter (che a Chicago ha riscosso discreti dividendi) aumentandone l’intensità di esecuzione e la velocità nel ribaltamento del lato debole. Tuttavia è la difesa che lo rende uno dei migliori allenatori in circolazione. L’idea è quella di forzare sempre il portatore ad andare verso l’aiuto e a quel punto costringerlo a scegliere tra un frontale contro un tipo che supera i 2,10 oppure prendere un tiro a bassa percentuale (tendenzialmente tra i 5 metri e mezzo e i 7). Per fare ciò serve un lavoro di piedi costante e un applicazione in allenamento e in partita ossessiva. Per cinque anni Thibodeau siederà sulla panchina dei Bulls e soltanto in due stagioni la squadra andrà oltre il secondo posto per il Defensive Rating.
Ad esempio nel 2014 chiude con la miglior difesa con 91,8 punti subiti a partita e il secondo miglior DefRtg (dietro ai Pacers), oltre al quarto posto nella Eastern Conference con il contributo del #1 limitato a dieci misere partite. L’assenza di Rose è sicuramente una batosta a livello tecnico ma da un punto di vista empatico la squadra reagisce aumentando l’intensità, cercando di compensare le mancanze del singolo con la forza del gruppo. Joakim Noah gioca la sua miglior stagione che gli vale il premio di Defensive Player of The Year strappandolo a gente come Davis, Jordan, Ibaka, Hibbert, tutti giocatori con numeri migliori dei suoi ma evidentemente penalizzati dal non essere rapidi e reattivi come il centro francese. Ai playoff però i Wizards passeggiano contro una squadra arrivata stanca, senza un riferimento offensivo di livello e appesa alle giocate di Noah su entrambi i lati del campo. I punti dei Bulls li segnano degli eroi improvvisati (e insufficienti) come D.J. Augustin in gara 2, Taj Gibson in gara 4 o Mike Dunleavy jr. in gara 3 che poi è l’unica vinta in quella serie. Tutti giocatori resi funzionali dal sistema di coach Thibodeau ma incredibilmente lontani dall’essere considerati stelle NBA.
Non esattamente i “big four”
Durante la offseason gli umori nella città del vento sono decisamente positivi: la squadra ha messo le mani sul miglior realizzatore nella storia di Creighton e indiscutibilmente miglior tiratore di quella classe di draft, tale Doug McDermott, a Luglio ha deciso di unirsi alla truppa anche Pau Gasol che insieme a Noah compone uno dei frontcourt più highly skilled della lega. La notizia che più di tutte però riempe il cuore di gioia a Chicago è il ritorno di D-Rose il quale promette di esserci per la opening night al Madison Square Garden e infatti ci sarà. Eppure ogni passo che muove sul parquet, ogni cambio di ritmo che imprime al suo corpo, ogni gesto affusolato per scoccare il tiro sulla sirena non ha la stessa melodia che i tifosi dei Bulls erano abituati a sentire. In più di un occasione la sua classe basterà a decidere le sorti di una partita ma nella quotidianità il tempo ha continuato a scorrere e la squadra ha cominciato a pendere verso il suo nuovo leader: Jimmy Butler. La squadra è visivamente sua, Butler era un ottimo difensore che si adattava benissimo al playbook di Thibodeau ma questa stagione diventa anche un realizzatore incredibilmente continuo e con più di una soluzione in faretra (tira con il 37% da 3 e segna il 36% dei suoi punti nel pitturato), il che gli permetterà di vincere a mani basse il Most Improved Player of The Year. Lui e Gasol sono gli indiscussi trascinatori di una squadra che chiuderà con un sorprendente 50-32, solo in parte merito di Rose che comunque riuscirà a giocare 51 partita nonostante tra Febbraio e Aprile il ginocchio destro lo avesse costretto di nuovo sotto i ferri. Ai playoff però si presenta in ottime condizioni, gioca una sensazionale gara 3 da 34 punti e 8 assist, i Bulls vincono (a fatica) contro gli arrembanti Bucks e si preparano alla rivincita contro Lebron, quattro anni dopo quel Miami-Chicago con Rose MVP uscente. La serie è bellissima, combattuta fin da gara 1 quando i Bulls rubano subito il fattore campo, Rose sembra finalmente tornato ad essere il padrone della sua squadra. Tuttavia l’illusione dura poco e gara 4 allo United Center, con i Bulls avanti 2-1, viene decisa allo scadere da James, à-la-James. Da lì in poi sono due in fila per i Cavs e il regno di coach Thibodeau si dissolve tra gli elogi degli addetti ai lavori.
Già perché l’owner Jerry Reinsdorf ha ritenuto opportuna un cambio di guida tecnica dopo aver ammirato per quattro anni un basket tutt’altro che spettacolare ma decisamente concreto e apprezzato da chiunque ci capisca un minimo di pallacanestro. Tom Thibodeau viene licenziato per “mancanza di coesione tra i vari stakeholder della società” anche se in fin dei conti l’unico che non poteva vedere Thibodeau era proprio Reinsdorf. Al suo posto viene chiamato Fred Hoiberg, head coach di Iowa State e vecchia conoscenza dei Bulls con i quali ha militato dal ’99 al 2003. Il suo modo di intendere il basket è molto moderno, infatti vuole che la sua squadra prenda la maggior parte dei tiri nei primi sette secondi, i blocchi devono essere portati piuttosto alti e all’inizio dell’azione in maniera che poi la palla possa viaggiare per creare vantaggio. Un po’ quello che fanno i Warriors certo, ma la squadra della baia (oltre ad avere due tiratori perfetti per far funzionare questo sistema) difende anche con una certa applicazione. I nuovi Bulls, praticamente identici a quelli lasciati in dote da Tom Thibodeau con la sola aggiunta del rookie Bobby Portis, subiscono 6 punti in più ogni 100 possessi rispetto all’edizione 13/14, e nonostante la ventata di aria fresca che Mister Reinsdorf voleva portare a Chicago la squadra segna 2,5 punti in meno ogni 100 possessi (ventitreesimi per Offensive Rating) rispetto all’ultima gestione Thibodeau.
Inizialmente le cose vanno anche bene; Mirotic continua ad essere utilizzato come 4 tattico con risultati ottimali, Gasol la spiega ancora in post e McDermott dopo una prima stagione sottotono sembra aver trovato confidenza con il piano di sopra. Eppure ci sono due novità evidenti che inevitabilmente finiranno per destabilizzare l’ambiente. Coach Hoiberg vuole che Rose funga da facilitare per la manovra offensiva limitandone al minimo le penetrazioni dal palleggio, allo stesso modo chiede a Noah un contributo tangibile in difesa partendo dalla panchina perché nella sua pallacanestro il francese ha un range di tiro troppo limitato. Il risultato è che Rose tira un libero in meno di media a partita, addirittura 3 se consideriamo l’ultima stagione senza guai fisici, e Noah gioca con il freno a mano tirato fino all’infortunio di Gennaio che lo estromette dai giochi per il resto della stagione. Con D-Rose ormai declassato a secondo violino la squadra si appoggia a Jimmy Butler che gioca un Gennaio da oltre 24 punti di media a sera con picchi di 42 a Toronto e addirittura 53 a Philadelphia. Peccato che a Febbraio una distorsione al ginocchio lo costringe ai box per un mese dopo il quale non riuscirà più a caricarsi la franchigia sulle spalle e la stagione finirà con un anonimo 42-40 equivalente al nono posto nella Eastern Conference.
Situazione attuale
Senza girarci troppo intorno la prima stagione di Hoiberg sulla panchina dei Bulls è stata un fallimento. Il record finale racconta di otto vittorie in meno rispetto all’ultimo anno di Thibodeau e più di qualche problema che potrebbe definitivamente avviare un rebuilding nella Windy City. Un’idea simile era balenata nella mente del GM Gar Forman già a Febbraio, quando i Celtics hanno bussato alla sua porta facendo più di un sondaggio per Butler, tuttavia l’intenzione sembra quella di trattenere l’All Star visto anche il grande sforzo economico compiuto un anno fa. Naturalmente il bene della squadra è al primo posto e nonostante alcune dichiarazioni di facciata il rapporto tra Rose e il MIP del 2015 è tutt’altro che idilliaco. L’estate a Chicago rischia di prendere fuoco da un momento all’altro perché se dovessero scegliere chi scambiare difficilmente la scelta finale ricadrà sul giocatore che lo speaker dello United Center introduce con un fiero “From Chicago” anche se l’università l’ha fatta a Memphis. Rose è una parte importante della città e privarsene non è nella to do list di Forman. Ecco quindi che gli scenari per Butler sono molteplici. I Bulls hanno pubblicamente detto che Butler non è sul mercato ma da quando Thibodeau si è ufficialmente seduto sulla panchina dei Timberwolves le voci di un ricongiungimento si fanno sempre più insistenti. Tra i due il rapporto è ottimo, Thibodeau vorrebbe proprio un difensore d’élite da affiancare all’esplosivo LaVine per il quale sacrificherebbe anche uno come Ricky Rubio. Sono solo voci ma sicuramente il neo coach dei lupi farà di tutto per convincere Butler a seguirlo in Minnesota.
Chiarita la questione Butler c’è da esplorare il problema dei lunghi. Pau Gasol a 36 anni ha ancora voglia di portare a casa un anello, ecco perché Chicago non gli sembra il posto giusto ed ecco perché suo fratello Marc gli ha caldamente consigliato di puntare la bussola a sud, specialmente se Duncan decidesse di appendere gli scarpini al chiodo. Per Noah invece le squadre interessate sono tante; le destinazioni più probabili sono Knicks e ovviamente T’Wolves dove a quanto pare papà Thibodeau riaccoglierebbe volentieri tutti i suoi figli (si era parlato anche di una trade che coinvolgesse Taj Gibson). Le possibilità di rimanere a Chicago sono flebili anche perché il francese non gradisce particolarmente la pallacanestro proposta da Hoiberg e nonostante il suo agente faccia melina a Luglio deciderà la sua nuova casa. Se i Bulls dovessero perdere in un colpo solo Butler, Gasol e Noah ecco che il rebuilding inizierebbe, seguendo il modello dei Trail Blazers i quali hanno tenuto la propria stella e ci hanno costruito intorno una squadra.
Tale ricostruzione potrebbe partire proprio dal draft dove i Bulls sceglieranno con la 14 e il nome più intriganti da quelle parti è Skal Labissiere. Il prodotto di Kentucky è passato dall’essere una top 3 pick ad un giocatore sotto la 10 in meno di una stagione, il tutto perché nei precedenti work-out erano state testate esclusivamente le sue doti offensive senza troppo contatto e il ragazzo ha un jumper più che affidabile e un gioco in post migliorabile ma discreto. Il problema sorge in difesa perché un 2,13 m x 98kg che si fa battere sia in velocità, sia in stazza fisica è tutto ciò che gli allenatori non vorrebbero. Calipari ne diminuisce progressivamente il minutaggio e lui chiude la sua unica stagione con 6,6 punti e 3,1 rimbalzi a partita. Stiamo parlando di un ragazzo incredibilmente esplosivo (1,6 stoppate per game è buonissimo come dato) e capace di aprire il campo, ma incapace di difendere un semplice pick and roll perché troppo leggero per giocarsela in post e troppo lento per contenere le penetrazioni dei più piccoli (7,5 falli a partita proiettati sui 40 minuti!).
Se Chicago vorrà per forza un lungo potrebbe farsi sedurre dal potenziale di Cheik Diallo (anche qui i punti di domanda sono parecchi), qualora invece le attenzioni vireranno verso un esterno i nomi più caldi sono quelli di Dejuonte Murray e Malachi Richardson, discreti realizzatori ma ancora acerbi per dare un contributo fin da subito.
Prospettive future
Non è un caso che tutti i nomi elencati per il draft siano dei freshman, se Chicago vuole veramente attuare un processo di ricostruzione dovrà avere pazienza e gettare le fondamenta nel miglior modo possibile. Uno dei modi migliori potrebbe essere quello di sedurre Minnesota con Butler per provare a soffiargli la quinta scelta assoluta più qualche asset futuro, vista la necessità di esperienza in quel di Minneapolis. I punti fermi rimarranno Rose, McDermott, Bobby Portis e se continuerà nella sua crescita anche Tony Snell. Interessante sarà anche il futuro di Mirotic al quale scade il contratto nel 2017 e allora dovrà decidere se sposare il progetto dei Bulls oppure cercare fortuna da altre parti, considerando che la sua abilità di giocare da stretch four lo renderebbe un ingranaggio importante per qualsiasi franchigia. In questo modo il payroll della franchigia si snellirebbe molto e lo spazio per ricostruire partendo dal draft e dalla free-agency si dilaterebbe fino a quando Rose non tornerà ai suoi livelli e il supporting cast non sarà di livello assoluto. Volendo essere ottimisti Chicago tornerà ad essere una contender ad Est tra 3-4 anni. Se invece Butler dovesse restare, Gasol facesse un ultimo giro in una città che comunque lui stesso apprezza e dalla free-agency arrivasse un Howard in cerca di riscatto o un Horford in continua crescita, i Bulls diverrebbero un cliente scomodo per chiunque. Rimane comunque il fatto che squadre come Celtics, Cavaliers, Heat sono per un motivo o per un altro le maggiori indiziate per controllare la Eastern Conference ancora per qualche anno. I tifosi della città del vento sperano che la leggera brezzolina scaturita dalla loro squadra si trasformi in un tornado che possa sconquassare i piani altrui, ma l’anello sembra ancora lontano.