“Cleveland. This is for you.”
Resteranno a lungo le sensazioni che questa stagione, questa serie e questa gara-7 hanno lasciato nei nostri occhi. Nelle nostre orecchie. Come il rumore di una stoppata che ha definitivamente fermato le ambizioni da titolo di una squadra da record come Golden State.
Serviva qualcosa di diverso per riuscirci. Per recuperare dopo essere stati sotto 3-1. Qualcosa di “esoterico”. Un superuomo. E Superman è stato.
Il più forte che vince contro i più forti.
Inutile negarlo, le 100 gare giocate da fine Ottobre ad oggi sono lì a testimoniarlo: gli Warriors erano la squadra da battere. I campioni in carica tornati più preparati e rodati di prima, pronti a marciare spediti verso il secondo titolo consecutivo mietendo vittime come già successo per mesi durante una Regular Season che così bella non si era mai vista.
Ma la Storia, quella con la esse maiuscola, la stava evidentemente scrivendo qualcun altro. E noi, come tanti fessi, non ce n’eravamo accorti. Accecati dalle luci provenienti da San Francisco, non abbiamo quasi mai voltato lo sguardo verso Cleveland.
Normale amministrazione una stagione da 25 punti, 7 rimbalzi e 7 assist di media. E poi quel jumper che non voleva più saperne di entrare. Il solito vecchio problema che torna a galla. Dopo essere andato dentro più volte contro gli Spurs nel 2013, smarrito di nuovo nei momenti clou delle corse Playoff successive.
E anche questa stagione non sembrava fare eccezione. 9 bersagli in totale da fuori area nei primi 4 match delle Finals. Poi 8 centri nella sola gara-5; 41 punti che fanno il paio con quelli di Irving e con quelli della partita successiva. Ma niente, sembrava non ci fosse niente da fare.
Stanotte sul 49 a 42 in favore di Curry e compagni tutti abbiamo pensato la stessa cosa:
“Adesso arriva l’ondata, adesso Golden State sferra il colpo di grazia”.
LeBron però, come solo i più grandi sanno fare, ha morso nel momento di massima necessità. Golden State non ha messo punti a referto negli ultimi 4 minuti e mezzo di gioco. Il Prescelto, invece, ha segnato il canestro da 3 più importante della sua carriera proprio quando serviva tornare in linea di galleggiamento.
Che non ha il peso specifico di quello realizzato da Kyrie Irving, per carità. Ma è quello che ha fissato definitivamente le basi per il trionfo. Il mattone finale dopo più di un decennio di minuzioso lavoro di carpenteria.
Alla fine c’è riuscito proprio nel giorno della festa del papà. Uno che suo padre non sa bene chi sia. Perché il Destino fa così. Ti fa correre per anni a perdifiato, ti fa accarezzare a lungo un sogno tanto bello quanto maledetto.
E poi, quando davvero sembra essere irraggiungibile, ti concede uno spiraglio per andare a prenderlo. Sta poi al cuore, al sangue, al sudore e alle lacrime versate dal campione fare il resto.
LeBron ha messo davvero tutto quello che aveva prima di riuscirci. E adesso, col sorriso sulle labbra, annuiamo convinti del fatto che in fondo tutti sapevamo che sarebbe successo. Che sarebbe finita così.
Sapevamo che il Re sarebbe stato incoronato sul suo trono, col numero 23 sulle spalle e con tutta Cleveland ai suoi piedi pronta ad abbracciarlo.
E’ il compimento di un percorso che sembrava non avere traguardo.
E’ una festa a cui James non ha mai potuto partecipare. Come quella del papà.
Tanti auguri LeBron.